ANTONINO GRASSO, nato a Randazzo il 16 ottobre 1943.
1. TITOLI ACCADEMICI – Maturità magistrale conseguita presso l’Istituto “Regina Elena” di Acireale nel 1967. – Magistero in Scienze Religiose conseguito nel 1999 presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “S. Luca” di Catania; – Bacellierato in S. Teologia conseguito nel 2000 presso l’Istituto Teologico “San Tommaso” di Messina; – Licenza in S. Teologia con specializzazione in Mariologia conseguita presso la Pontificia Facoltà Teologica “Marianum” di Roma, ”Summa cum Laude”, 11 gennaio 2002; – Dottorato in S. Teologia con specializzazione in Mariologia, conseguito presso la Pontificia Facoltà Teologica “Marianum” il 14 novembre 2005, “Summa cum Laude” con la tesi: “La Madre di Dio e la pace in alcuni documenti magisteriali di Paolo VI”. 2. ATTIVITÀ ACCADEMICHE E RADIOFONICHE
– In qualità di Professore Stabile insegna Mariologia nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” di Catania aggregato alla Pontificia Facoltà Teologia di Sicilia; – É socio corrispondente della Pontificia Academia Mariana Internatinalis (PAMI) della Santa Sede; – É socio ordinario dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI). – Collabora dal 2013 per i commenti mariologico-mariani con la trasmissione “Non un giorno qualsiasi” della Radio Vaticana condotta da Federico Piana. – È stato relatore in Convegni di vario genere a Catania, Siracusa, Giarre, Alcamo, Palermo.
3. ATTIVITA’ SOCIALI, ONORIFICENZE CIVILI E CONOSCENZA LINGUE
– É stato per lunghi anni Corrispondente Consolare del Consolato Generale di Monaco di Baviera per la Regione della Svevia meridionale con sede a Kempten/Allgäu; – È stato Insignito il 02 giugno 1980 dal Presidente Sandro Pertini dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica Italiana” “per particolari benemerenze” acquisite al servizio dell’emigrazione degli italiani in Germania. – Parla correttamente la lingua tedesca ed ha l’abilitazione all’insegnamento di questa lingua, avendo insegnato per molti anni nelle scuole tedesche della Svevia meridionale, in Baviera, dove ha pubblicato un libro, in collaborazione con un’autrice tedesca dal titolo ICH LERNE DEUTSCH (Io imparo il tedesco) per l’insegnamento del tedesco ai bambini italiani. 4. ARTICOLI E INTERVISTE SU GIORNALI É autore di numerosi articoli pubblicati sulle seguenti riviste: – “LAÓS” dell’I.S.S.R. “San Luca” di Catania; – “Theotokos” (“Siti mariani in Internet”) – “La Roccia di Belpasso” – Santuario del Cuore Immacolato di Maria Regina della pace. – “Cammino” – Periodico dell’Arcidiocesi di Siracusa – “Maria” Ha rilasciato interviste ai giornali: – Avvenire – Il Foglio – Senza Colonne di Brindisi – La Sicilia 5. PUBBLICAZIONI A CARATTERE MARIOLOGICO
É autore di 10 pubblicazioni mariane presso le case editrici: 1) EDITRICE ANCILLA (CONEGLIANO) – “Maria con te” con prefazione di R. Laurentin [1994] 2) EDITRICE ANCILLA (CONEGLIANO) – “E la Vergine distese le mani” [1995] Seconda Edizione Dicembre 2011. 3) EDIZIONI GRIBAUDI (MI) – “Guadalupe. Le apparizioni della “Perfetta Vergine Maria” 4) ASSESSORATO BENI CULTURALI AMBIENTE E PUBBLICA ISTRUZIONE DELLA SICILIA (PALERMO) – Av.Vv., “Maria, madre della speranza, Donna di legalità” a cura di N. Mannino [2006]. 5) PONTIFICIA ACADEMIA MARIANA INTERNATIONALIS (CITTÀ DEL VATICANO) – “La Vergine Maria e la pace nel magistero di Paolo VI” [2008]; 6) EDITRICE ISTINA (SIRACUSA) – “Maria di Nazareth. Saggi teologici” [2011]. 7) EDITRICE ANCILLA (CONEGLIANO) – “Perchè appare la Madonna? Per capire le apparizioni mariane” [2012] 8) EDITRICE ISTINA (SIRACUSA) – Maria, maestra e modello di fede vissuta [2013] 9) EDIZIONI SEGNO (TAVAGNACCO) – Apparizioni, malati e guarigioni a Lourdes. La prodigiosa guarigione di Delizia Cirolli il miracolo n. 65 di Lourdes riconosciuto dalla Chiesa [2015] 10) EDIZIONI SEGNO (TAVAGNACCO) – Maria, Madre di misericordia: “sotto il tuo manto c’è posto per tutti” Meditazioni [2016] 11) Prossima pubblicazione agli inizi del 2018: – Lucia Mangano. Una vita d’unione con Maria 6. ATTIVITÀ MARIOLOGICA SULLA RETE INTERNET – É autore e gestore del portale di Mariologiahttp://www.latheotokos.it, raccomandato dalla Congregazione per il Clero e dalla Pontificia Academia Mariana Internationalis.
Il sito che ha migliaia di pagine di articoli su ogni aspetto della Mariologia, filmati, audio, immagini, ecc. è il sito mariano più visitato d’Italia e uno dei più visitati del mondo in campo mariano ed è stato recensito spesso.
Ecco le recensioni più significative:
– CHIESA CATTOLICA ITALIANA Convegno “Pastorale e Nuove Tecnologie” Assisi 911 marzo 2000 Relazione di F. Diani: “Radiografia virtuale della Comunità ecclesiale italiana”;
– LA MADRE DI DIO 4 aprile 2001; – JESUS, Aprile 2001;
– LA MADRE DI DIO 3 MARZO 2003;
– VERSO LA BIBLIOTECA ECCLESIALE DIGITALE. Indagine sull’impatto di internet sulla disponibilità e sulla consultazione on line della documentazione di natura ecclesiastica Barbara Fiorentini – Università Cattolica del S. Cuore (Piacenza) – OSSERVATORIO COMUNICAZIONE&CULTURA 10/2002. – Ne ha parlato una importante pubblicazione dal titolo “IL FENOMENO MARIANO NEI NUOVI MEDIA” alle pagine 143-147. – È autore e gestore del sito dedicato alla Madonnina del Parco Sciarone di Randazzo: www. fatimaparcosciaronerandazzo.
Papa in Iraq: un viaggio all’insegna di Maria, ponte di dialogo con l’Islam
Nel Paese a maggioranza musulmana, la Vergine è amata e pregata. Antonino Grasso, mariologo: “Nel Corano si parla di Maria in 12 Sure e 70 versetti. Viene considerata modello di fede e di religiosità”. A Komane, nel Kurdistan iracheno, si trova il santuario mariano più visitato della nazione: ogni anno si recano in pellegrinaggio molti fedeli musulmani dopo un digiuno di cinque giorni.
Federico Piana- Città del Vaticano
In Iraq Papa Francesco è stato sempre accanto a Maria. Non solo perché un’immagine della Vergine di Loreto lo ha accompagnato in tutte le tappe di un viaggio straordinario e storico o perchè ha avuto sul palco di Erbil la statuina di Maria ferita dall’Is, ma anche per il fatto che nel Paese dell’Asia occidentale, a maggioranza musulmana, la Madonna ha stabilito la sua ‘casa’. L’amore che i fedeli musulmani nutrono per l’Immacolata è, infatti, talmente grande da essere diventato anche un punto di forza nel dialogo interreligioso. “Il Corano, che contiene la dottrina di Maometto tramandata dalla memoria dei suoi compagni, si compone di 114 Sure, o capitoli, disposti in ordine decrescente di lunghezza. Maria è presente in 12 Sure e 70 versetti” dice Antonino Grasso, mariologo, socio corrispondente dell’Pontificia Accademia Mariana Internazionale e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘San Luca’ di Catania.
Ascolta l’intervista ad Antonino Grasso :
Quali sono gli episodi narrati dal Corano che riguardano la Vergine?
R.- Sono cinque. La sua nascita, il ritiro nel tempio, l’annunciazione, il parto e la difesa da un’atroce calunnia. Il racconto della nascita di Maria è nella terza Sura. Il nome che le viene dato significa ‘devota e pia’: viene confermata la protezione di Dio sulla neonata. Egli la farà crescere mirabilmente perché diventi adulta e matura e progredisca in bontà, castità ed obbedienza. Il racconto del ritiro nel tempio, invece, si trova nelle Sure 19 e 3. Qui, il Corano narra che Maria si ritira giovanissima nel tempio sotto la protezione di Zaccaria. Maria viene prodigiosamente nutrita da Dio, sta in compagnia degli angeli e dell’arcangelo Gabriele, il cui compito è quello di farle prendere coscienza della sua dignità, della sua posizione nel disegno di salvezza e della sua predestinazione.
Poi c’è il racconto dell’annunciazione. Come viene trattato nel Corano?
R.- Si trova nelle Sure 19 e 3. Obiettivo dell’annuncio è la nascita di un figlio chiamato Verbo, termine che per gli esegeti musulmani vuol dire ‘fiat’, cioè l’imperativo categorico col quale Dio ha fatto venire all’esistenza Gesù, figlio di Maria. All’annuncio che diventerà madre, Maria mostra sorpresa ed invoca la sua verginità e l’arcngelo Gabriele le dice che tutto è volontà di Dio per cui non può non accettare una cosa da Lui decretata. Poi troviamo il racconto del parto: è nella Sura 19. Per il Corano, il luogo del parto non sarebbe una città ben precisa né una stalla o una grotta: il parto sarebbe avvenuto all’aperto vicino ad una palma. Per quanto riguarda i dolori del parto, secondo i commentatori musulmani, si tratta di dolori morali e quindi il Corano affermerebbe la verginità di Maria. Il racconto inoltre, spiega che subito dopo il parto Maria viene consolata dal neonato che l’invita a cibarsi dei datteri prodigiosamente spuntati sulla palma e a dissetarsi ad una sorgente fatta scaturire da Dio ai suoi piedi.
Il Corano narra anche della difesa da una calunnia terribile nei confronti della Vergine…
R.- Si, si trova nella Sura 19. Si racconta che Maria torna a casa dopo il parto e la reazione dei suoi parenti è di indignazione per vederla con un bambino senza essere sposata. Ma il neonato interviene a gran voce, difende la madre, rende giustizia alla sua innocenza, così come fece Dio che ne aveva dimostrato la rettitudine con una sua particolare provvidenza al momento del parto.
Qual è il profilo spirituale di Maria nella fede islamica?
R.- Secondo l’interpretazione che ne danno i teologi musulmani, le modalità con cui Maria è presentata nel Corano fanno di lei un modello di fede e di religiosità, un modello esemplare della donna musulmana e un segno dato da Dio all’Universo. Maria è considerata modello di fede perché prestò ascolto alla parola del Signore aderendo interiormente a Dio senza indecisione o irritazione ma con fermezza. Inoltre, è considerata un modello perché rivestì la sua fede di tutte le caratteristiche musulmane. La Sura 21, al versetto 91, ad esempio, recita: ‘Rammenta pura colei che preservò la sua verginità e si alimentò in lei il nostro spirito e facemmo di lei e di suo figlio un segno per l’Universo’.
In Iraq ci sono santuari mariani visitati anche da fedeli musulmani?
R.- Uno dei luoghi mariani più frequentati è quello di Komane, nel Kurdistan iracheno. Nel santuario di un monastero fondato nel quarto secolo, il 15 agosto viene celebrata in modo solenne la dormizione di Maria. Ogni anno, sono migliaia i pellegrini che vi si recano e tra loro ci sono anche numerosi musulmani che venerano Maria come madre del profeta Gesù: tutti i pellegrini si preparano al pellegrinaggio con un digiuno di cinque giorni. Poi c’è il Santuario dell’Immacolata Concezione, nella città di Qaraqosh, nella Piana di Ninive, nel quale si è recato Papa Francesco. Esso è il luogo di culto più conosciuto e rappresentativo dell’intera città. Sulla torre campanaria si erge una grande statua della Vergine che assume una forte connotazione simbolica come segnale di rinascita della città irachena, essendo stata ripristinata dopo la cacciata dell’Isis che, dal 2014 al 2016, devastò il luogo di culto facendone un poligono di tiro ed un presidio militare. Anche qui, sono molti i musulmani che vengono per omaggiare Maria.
Marzo 2021.
Intervista nella Radio Vaticana sulla festa della Assunzione di Maria Vergine al Cielo.
https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-08/assunzione-maria-solennita-chiesa-pio-xii-dogma.html
Intervista a Radio Vaticana: “Il Papa ieri ed oggi”
PRESENTAZIONE UFFICIALE DEL LIBRO “LUCIA MANGANO. UNA VITA D’UNIONE CON MARIA” DEL PROF. ANTONINO GRASSO
Il 19 febbraio 2018, nell’Aula Magna dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” di Catania, aggregato alla Pontificia facoltà Teologica di Palermo, si è svolta la presentazione ufficiale dell’ultima pubblicazione del Prof. Antonino Grasso, docente dell’Istituto, dedicata alla più grande mistica siciliana dei tempi moderni: “Lucia Mangano. Una vita d’unione con Maria”. Presiedeva la cerimonia l’Arcivescovo Metropolita di Catania, Presidente della Conferenza Episcopale Siciliana e Moderatore del “San Luca”, Mons. Salvatore Gristina, circondato dalle autorità dell’Istituto, da altri esimi autori e davanti ad un nutrito gruppo di partecipanti. La relazione ufficiale è stata tenuta dal Prof. Salvatore Maria Perrella, noto mariologo a livello internazionale, Preside della Facoltà Teologica “Marianum” di Roma e Direttore Editoriale della collana scientifica della Facoltà romana “Virgo Liber Verbi”, nella quale in volume del prof. Grasso è stato ufficialmente inserito al n. 9. Dopo aver sottolineato la validità scientifica della pubblicazione, il Prof. Perrella, è passato a delineare la figura di Lucia Mangano, Orsolina di San Giovanni La Punta, soprattutto sotto l’aspetto della straordinaria esperienza mistica che la annovera tra le più grandi della Chiesa universale. Il Prof. Perrella, passava, quindi, a sottolineare la singolare angolatura mariologica del volume, dato che il Prof. Grasso ha approfondito il particolare, straordinario e intenso rapporto che Lucia Mangano ebbe con la Madre di Dio, angolatura irrinunciabile per chi parla o scrive di Lucia, tanto che la sua esperienza non potrebbe essere pienamente compresa, se si tralasciasse di sottolineare l’intensità di questo singolare rapporto. Sono, quindi intervenuti nel dibattito il Superiore dei frati Passionisti di Mascalucia, legati storicamente a Lucia Mangano che contribuì alla loro fondazione nell’isola ed il cui allora superiore, il Venerabile P. Generoso Fontanarosa, fu per lunghissimi anni il Padre Spirituale; la Superiora delle Orsoline di Catania, che ha ringraziato l’autore per aver rimesso in luce la figura di Lucia Mangano. Dietro domanda di uno studioso presente, il Prof. Grasso è passato poi a descrivere l’amichevole rapporto che Lucia Mangano ebbe con il beato Antonio Allegra, grande missionario originario di San Giovanni La Punta, il primo a tradurre in lingua cinese la Bibbia, che conobbe la Venerabile fin da quando faceva il chierichetto nel Santuario della Ravanusa e che, pur trovandosi stabilmente in Cina, mantenne con lei un costante rapporto epistolare. Il tutto si è concluso con l’augurio dell’Arcivescovo che l’opera del Prof. Grasso contribuisca a far conoscere meglio e ancor di più Lucia Mangano, una gloria dell’Arcidiocesi di Catania e della Sicilia.
37° Convegno Pastorale – Giarre : “Maria Madre della Chiesa” relatore Nino Grasso. 29 marzo 2019
La Costituzione Dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II al n. 62, dopo aver delineato i compiti della maternità spirituale di Maria nei nostri confronti, ha affermato che questa maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti.
Difatti, assunta in cielo, non ha interrotto questa funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna.
Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata.
Collegandole con questo perenne e dinamico “prendersi cura dei fratelli del Figlio suo”, la mariologia legge le apparizioni della glorificata e assunta Madre di Dio, come manifestazioni impellenti di quell’amore materno che anima il suo cuore nei nostri riguardi e come conferma del suo essere l’icona del nostro divenire nuove creature in Cristo.
Per questo motivo esse vengono anche chiamate “Mariofanie”. Il termine, infatti, secondo Stefano De Fiores, non solo declina il fatto dell’apparizione della Vergine, ma soprattutto indica la “persona di Maria e la sua funzione” in continuità con i dati biblici, che costituiscono la vera e fondamentale mariofania.
Maria, così, non appare personaggio del tempo passato, ma continua a “manifestarsi” come persona viva, luminosa, glorificata, che si interessa, a causa della missione a cui è stata chiamata da Dio, dei suoi figli e delle sorti del mondo.
Ne consegue, che le apparizioni della Vergine non possono essere spiegate e comprese, prescindendo dalla sua identità di madre e cooperatrice del Salvatore nella Storia della Salvezza. In realtà, assistiamo oggi a un grave paradosso: le apparizioni mariane, che non godono quasi nessun credito nell’elite intellettuale e teologica e vengono declassate ad eventi secondari e privati, hanno, al contrario, un impressionante seguito nel popolo di Dio.
Così che, mentre l’ufficialità quasi sempre tace, sottovalutando il fenomeno o accogliendolo con eccessiva riservatezza, milioni di fedeli si recano continuamente verso i luoghi in cui appare o si dice essere apparsa la Vergine. Con la conseguenza che essi, molto spesso, non sapientemente guidati o correttamente illuminati sulla natura, il valore, la valutazione e il significato di questi eventi, ignorando le direttive dei Pastori, assumono atteggiamenti troppo spesso dipendenti dai “messaggi” e dai racconti dei veggenti, considerati quasi nuovi evangelisti e nuove guide spirituali del mondo.
Abbiamo, come afferma René Laurentin, il sorgere di una “Chiesa delle apparizioni” con le sue regole e il suo modus vivendi, che cammina parallela e spesso in dissenso con la “Chiesa istituzionale”. A questo si aggiungono le varie, gravi ed epocali crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, spesso schiavo:
– del suo efficientismo esteriore, a cui non corrisponde un’uguale ricchezza interiore;
– del suo positivismo, empirismo e nichilismo che precludono la possibilità di un’apertura ai valori trascendenti;
– del suo materialismo, per cui primeggiano l’istinto per il piacere e per il possesso che gli fanno ignorare la bellezza del donarsi nell’amore e per amore;
– del suo attaccamento al potere e al dominio, che lo distolgono dall’idea della vita come servizio umile e disinteressato.
Inoltre, dobbiamo riconoscere che ci troviamo, drammaticamente, in un contesto generale di vita in cui:
– la fede, Cristo e la Chiesa, perdono il loro carattere di verità e di universalità salvifica, perché su di essi si getta continuamente un’ombra di dubbio, di incertezza e di discredito;
– l’angoscia e l’ansia, la paura e il dolore, anch’essi globalizzati, avvolgono la nostra esistenza;
– i luoghi stessi della nostra vita somigliano sempre di più ad un terribile deserto, a un aspro monte fatto di solitudine, di incomprensioni, di desolazione.
È proprio la constatazione sia di una situazione ecclesiale in cui da un lato, quasi si ignorano o si criticano e, dall’altro, spesso si esaltano senza alcuna sicurezza teologica le rivelazioni private elevandole ad assoluta regola di vita; sia il riscontro di una situazione socio – antropologica in cui le donne e gli uomini del nostro tempo vivono, senza una reale apertura ai valori della trascendenza e senza prospettive, come veri “figli del nulla”, che ha spinto gli studiosi di mariologia a dedicarsi con maggiore serietà allo studio delle problematiche teologiche, ecclesiali, sociali ed antropologiche delle apparizioni mariane, con l’intento di fornire i chiarimenti necessari per una loro oggettiva valutazione, a beneficio non solo della Chiesa, ma della stessa umanità.
Essi, infatti, con i loro studi approfonditi intendono:
– sollecitare i Pastori a riconoscere i frutti spirituali che esse producono;
– indicare ai fedeli la sicura via per accoglierle senza infantilismo o isterismo religioso;
– sottolineare la loro incidenza nella società, perché si mostrano un valido aiuto per il rinnovamento spirituale dell’intera umanità, in cammino non verso l’autodistruzione, ma verso l’Eschaton, e fanno riscoprire Maria come icona, maestra e “presenza” di speranza e di giustizia in mezzo a noi.
Tenendo conto di tutto questo, Antonino Grasso ha cercato nel suo volume di sintetizzare le complesse problematiche e i significati teologici e antropologici delle Mariofanie in 5 brevi ma intensi Capitoli:
Quantità delle apparizioni
Natura delle apparizioni
Valutazione delle apparizioni
Valore delle apparizioni
Significato delle apparizioni
LA FEDE CHE CAMBIA LA STORIA: IL MESSAGGIO DI FATIMA CENT’ANNI DOPO
26 Ago 2017
Nino Grasso
Tra le celebrazioni di quest’anno in onore della Madonna dell’Elemosina, ha assunto un ruolo significativo il ricordo dei primi cento anni delle apparizioni della Madonna a Fatima, una delle più importanti mariofanie che ha segnato le vicende storiche del secolo scorso e che ancora è capace di interpretare profeticamente il nostro tempo. Promossa dall’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina”, la conferenza di venerdì 25 agosto è stata introdotta da Alessandro Scaccianoce, responsabile attività culturali dell’aggregazione mariana, e condotta dal prof. Nino Grasso, docente di mariologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Catania. Perché la Madonna appare? Qual è il messaggio per noi contemporanei? Qual è il valore profetico del terzo segreto? Con queste domande Scaccianoce ha avviato la riflessione, sottolineando come Fatima sia la dimostrazione della capacità della fede di incidere nella storia. “La fede – ha detto Scaccianoce – non è solo un rapporto intimo e personale con Dio, ma è principio di rinnovamento della vita. La preghiera e la penitenza, tra le consegne più importanti delle rivelazioni di Fatima, possono davvero modificare il male della storia”. Nel suo intervento il prof. Grasso ha ripercorso le tappe delle apparizioni, avvenute tra il 13 maggio e il 13 ottobre 1917, e ha spiegato in dettaglio il contenuto dei tre segreti, o meglio, delle tre parti dell’unico segreto rivelato dalla Vergine ai tre fanciulli portoghesi. Ha detto Grasso: “La visione dell’inferno, la possibilità di una nuova e più grande guerra e la persecuzione della Chiesa, con la visione del Vescovo vestito di bianco che cade sotto colpi di armi da fuoco ai piedi di una grande croce, sono i tre grandi segreti.
A queste visioni drammatiche però la Vergine accompagna sempre dei messaggi di speranza.
L’inferno può essere evitato, come anche il male della guerra, attraverso la consacrazione al cuore immacolato di Maria, con quel che significa questo atto, come adesione e fiducia all’intera persona della Madre di Dio. Anche Giovanni Paolo II, che vide applicata a sé la profezia del Vescovo colpito con armi da fuoco, riconobbe che fu la Vergine a deviare con la sua mano il proiettile che lo colpì nell’attentato in piazza San Pietro il 13 maggio 1981”. Grasso ha anche ricordato l’interpretazione dei segreti offerta da Joseph Ratzinger nel 2000, come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e l’omelia che tenne a Fatima, come Papa, in cui precisò che il valore profetico delle rivelazioni non è affatto esaurito: la persecuzione dei cristiani, infatti, e il sangue versato da vescovi, preti, religiosi e religiose, e da tanti cristiani laici è sotto gli occhi di tutti. “La Madonna – ha concluso Grasso – appare perché ci è madre, per richiamarci specifici aspetti della rivelazione evangelica e per confermarci la verità del cielo e della risurrezione”. A chiudere la serata è stato l’intervento del Vescovo Paolo Urso che ha presieduto la Celebrazione eucaristica, con la partecipazione degli ammalati e dei volontari delle associazioni che operano nel territorio. “Noi siciliani – ha detto Mons. Urso – invochiamo Maria come ‘a Bedda Matri’ non solo per far riferimento alla sua bellezza fisica, ma per sottolineare la sua bellezza spirituale. Lei che è davvero vicinissima a noi è anche la donna vestita di cielo e di sole, luminosa perché brilla della grazia di Dio. Le rivelazioni di Fatima ci confermano che lei è sempre attenta alle nostre vicende umane e per noi desidera la felicità più grande: il paradiso. Un paradiso che inizia già su questa terra. Fatima ci conferma che non esiste un destino immutabile, ma al contrario che con il nostro contributo possiamo rendere questo nostro passaggio sulla terra migliore, per noi e per i nostri fratelli”. Il prevosto don Pino Salerno ha ringraziato i presenti e ha esortato a vivere le celebrazioni con la ricchezza di queste splendide verità di fede, evidenziando l’importanza di queste riflessioni per il Santuario Mariano di Biancavilla che venera Maria come Madre di Misericordia. Articolo di Nino Grasso
MARIA, LA “DONNA” GLORIFICATA DAL RISORTO, ICONA DI VITA E PROFEZIA DI FUTURO PER I “FIGLI DEL NULLA”.
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” – Catania
Introduzione
Secondo l’insegnamento di papa Paolo VI (1963-1978), espresso soprattutto nell’esortazione apostolica Marialis cultus del 2 febbraio 1974, 1 ripreso e approfondito dal magistero successivo di Giovanni Paolo II (1978-2005), Maria è l’autentica risposta alla varie crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, spesso incatenato dal suo efficientismo esteriore, a cui non corrisponde un’uguale ricchezza interiore; dal suo positivismo, empirismo e nichilismo che precludono la possibilità di un’apertura ai valori trascendenti; dal suo materialismo, per cui primeggiano l’istinto per il piacere e per il possesso che gli fanno ignorare la bellezza del donarsi nell’amore e per amore; dal suo attaccamento al potere e al dominio, che lo distolgono dall’idea della vita come servizio umile e disinteressato. Inoltre, Maria è l’esempio vivente e perenne della rivoluzione cristiana che cambia il mondo, ridona speranza e offre prospettive di futuro agli uomini e alle donne, essendo la prima creatura che, rigenerata alla totalità della grazia per la salvezza operata da Cristo e partecipe della sua gloria di Risorto, rappresenta la condizione umana completamente realizzata, libera dalle catene del peccato e della morte, interprete, quindi, nella piena significanza della sua esistenza, della vitalità operativa e trasformante del Dio Trinitario che riscatta la creatura dalle condizioni di indigenza e la fa partecipe del mistero della vita senza fine.
1.1. Il cristianesimo e i “figli del nulla”
Di fronte ai mali e ai pericoli che lo minacciano, fra i quali primeggia la crisi di futuro, l’uomo di oggi mostra un totale e drammatico disorientamento. Molti indicano nel nichilismo la causa fondamentale di questa profonda incertezza e precarietà
Il nichilismo è la negazione radicale e metafisica del senso dell’essere e degli enti il cui significato e la cui realtà sostanziale e valoriale è fondata nell’assolutezza dell’essere. In sostanza, il nichilismo è una concezione delle cose, per la quale la realtà finirebbe nel nulla, per cui essa non ha alcuna consistenza e nessun solido rapporto con la verità: è il niente il vero senso dell’essere.
Marcando come un fuoco potente non solo la filosofia contemporanea ma la cultura e l’esistenza umana nelle sue molteplici espressioni, il nichilismo ha generalizzato una diffusa e profonda corrosione della fede circa la visione del mondo e dei valori trascendenti, manifestandosi come la vera radice dei mali dell’uomo d’oggi.
È evidente che il nichilismo come «processo nel quale, alla fine, dell’essere come tale non resta più nulla»8 interroga profondamente il cristianesimo e lo chiama ad un confronto, dal quale devono emergere convincenti risposte.
Invece di guardare al nichilismo come ad un antagonista ideologico, bisogna considerarlo piuttosto come un clima culturale, una contingenza esistenziale in cui l’uomo contemporaneo si trova a vivere, bisognoso, quindi, anche e soprattutto in questa situazione, di comprensione, amore e sollecitazioni salvifiche. Il massimo limite del confronto tra cristianesimo e nichilismo è l’incapacità di quest’ultimo di confrontarsi seriamente oltre che con il problema del male e della libertà, anche con quello del senso della vita.
Nasce, di conseguenza, la necessità per la teologia di annunciare Dio ai “figli del nulla”, non nell’orizzonte della dimostrazione metafisica, ma in quello dell’accoglienza della rivelazione.
L’importante non è riaffermare genericamente l’esistenza e il primato di Dio, ma far comprendere il significato della sua reale e trasformante presenza tra di noi. È così che i “figli del nulla” scopriranno che il Dio cristiano non è il Dio dei filosofi, ma il Dio Trinitario svelatoci da Gesù Cristo; non il Dio assoluto e onnipotente dei metafisici, ma il Dio che cerca la relazione, crea, ama, s’incarna e si umilia sulla croce ed escatologizza la storia; un Dio santo di una santità non separata ma partecipata; un Dio che propone all’uomo le beatitudini, perché lui stesso ne è il compendio; che non si chiude gelosamente nella perfezione del proprio essere, ma la dispensa per amore nella creazione e nella redenzione; che non vive la propria bellezza e grandezza come auto-contemplazione estatica ma come avventura dinamica, come teo-drammatica; un Dio che, in definitiva, inserendosi nel “nulla” della storia, offre all’uomo e alla sua esistenza, pienezza di senso e garanzia di futuro.
1.2. Maria, la “Donna” glorificata, di fronte alla cultura del nichilismo
All’uomo smarrito perché orientato al passato per paura del futuro; inchiodato al presente o a futuri brevi senza reali prospettive di ampio respiro, il cristianesimo può, dunque, offrire le sue motivazioni sapienziali e la profezia della sua fede, chiamandolo anche a riflettere sull’esempio di esistenze liberate e a contemplare quale icona di vita perfettamente realizzata perché immersa nella gloria del Risorto, la “Donna rivestita di sole” la cui Bellezza, in dipendenza e in riverbero dalla Bellezza dello Spirito, salverà il mondo.
Proprio la “Donna” glorificata nel e dal Risorto, parte attiva di una storia piena di significato in cui si realizza la liberazione totale dell’uomo nella prospettiva dell’infinito, offre la proposta di una civiltà nuova vista e pensata dal futuro. Maria, infatti, provoca al futuro l’uomo senza radici e senza promesse che consuma la sua esistenza nel quotidiano e che pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse vengano da lontano o portino lontano.
La “Sorella” degli uomini, come amava chiamare Maria di Nazaret Paolo VI, invita i suoi “fratelli” e le sue “sorelle” in umanità, a non aver paura del futuro ma a interrogarlo con fiducia, severità e radicale rigore.
Con l’esempio della sua esistenza piena di senso, Maria invita gli uomini a superare la pretesa di un futuro senza passato e senza presente, perché non potrebbe spiegarsi né da dove nasce e come si nutre la forza propulsiva della speranza; la pretesa di un passato senza presente e senza futuro, perché recherebbe con sé soltanto la sconfortante mitizzazione di un brano del tempo; la pretesa di un presente senza passato e senza futuro, perché non ne giustificherebbe l’oggettivo valore.
Con Maria e in Maria, dunque, l’uomo può comprendere che entrare e stare nel mondo, vivere ed agire nel frammento di tempo che gli è dato, dà senso alla storia individuale e collettiva, la orienta al suo fine che non è l’abisso del nulla, ma la pienezza luminosa nel Dio Salvatore.
La Madre glorificata di Colui che proprio ex nihilo iniziò il cammino della storia con la creazione; che nel nihilo della croce raggiunse l’apice dell’amore nella storia; che dal nihilo della tomba risorse, vincitore della morte quale signore della storia e che tutti chiama dal nihilo della fragilità del peccato alla figliolanza del Padre nella potenza rigenerante dello Spirito, illumina nella luce del Figlio Risorto la realtà dell’esistenza umana, quale icona di speranza e di futuro, oltre la ristretta contingenza del tempo e dello spazio.
Ella insegna, in definitiva, che il significato e il fine della storia non sono il “nulla” ma un “evento di grazia” che ha provenienza trascendente, destinazione escatologica, soggetti e destinatari concreti;12 un evento che rivela non una conoscenza astratta di Dio, ma la realtà storica di un Dio salvatore, sempre in relazione con gli uomini, incarnato e crocifisso per amore, perché ogni creatura avesse il suo destino di gloria.
1.3. Maria, icona di vita e profezia di futuro nel “mysterium salutis”
La storia degli uomini è escatologizzata da questo evento, cioè dall’incarnazione della Seconda Persona della SS. Trinità che ha reso, così, presente nel mondo il “futuro” di Dio, operando la “eternizzazione” del tempo.
Con il suo ingresso nella storia e il mistero della sua Pasqua, il Verbo di Dio fattosi uomo, ha permesso che la storia della salvezza si evolvesse in un itinerario unitario secondo uno schema ternario: – tempo della promessa, che precede e attende la sua venuta (tempo di Israele); – tempo dell’anticipazione, che segna la sua presenza storica e l’evolversi della Chiesa (tempo di Gesù-tempo della Chiesa); – tempo del totale adempimento che segna il compimento finale della storia (parusia-resurrezione). Maria, madre di Dio secondo l’umanità, è figura escatologica,non soltanto perché è già alla fine del cammino che la Chiesa è chiamata a percorrere, ma anche perché ha collaborato con Cristo ad escatologizzare la nostra storia.
In lei, passato, presente e futuro si fondono perché è stata coinvolta da Dio nel passato di grazia che ha reso il presente capace di accogliere in nuce, nella speranza, nella pazienza e nel mistero la gloria futura.
Già fin dai primordi della storia, accanto al Messia venuto per lottare e sconfiggere il peccato e la morte e che con il mistero della sua Pasqua avrebbe ottenuto una vittoria per la quale il cammino dell’uomo si sarebbe avviato verso il cielo, la “Donna” è stata profetizzata come uno dei soggetti di questa lotta (Cfr. Gn 3,15),15 partecipe del vittorioso esito finale, a causa della sua presenza attiva sotto la croce.
È, infatti, la croce, il vero e nuovo albero della vita sul quale e accanto al quale il Nuovo Adamo e la Nuova Eva fanno ricominciare la storia nel segno della completa fedeltà e ubbidienza al Padre.
Con la sua “presenza materna” iniziata con l’Incarnazione, la Vergine Madre ha partecipato ad escatologizzare la storia, prima permettendo l’ingresso in essa del Verbo di Dio Salvatore come causa escatologia; poi continuando con la collaborazione all’opera messianica del Figlio e restando al suo fianco nel cuore del mistero dell’Ora.
L’escatologia ha, quindi, una caratura mariana perché riguarda un futuro la cui causa è radicata nel passato (incarnazione e croce) nel quale Maria ha preso parte in modo essenziale e attivo.
Questa presenza di Maria e la sua partecipazione alla strutturazione della storia della salvezza, è stata così profonda ed essenziale, da costituire ella stessa una microstoria della salvezza. In lei, infatti si sintetizza l’intero progetto di grazia che il Dio Trinitario ha disegnato e realizzato per l’intera famiglia umana e si realizzano in modo nuovo ed esemplare i maggiori passaggi della storia della salvezza, per cui in lei –Donna agonale – Nuova Eva – Figlia di Sion – Chiesa nascente, si riuniscono e riverberano i massimi dati della nostra fede.
Maria è – come afferma Laurentin – la sintesi e la chiave del mistero cristiano:
– del Mistero Trinitario, in quanto Figlia eletta dal Padre; Madre santa del Figlio; Sposa amorosa dello Spirito;
– del Mistero dell’Incarnazione, in quanto vera madre del Dio fatto uomo;
– del Mistero Pasquale – Pentecostale, per essere stata la socia del Salvatore e la compagna degli Apostoli nel Cenacolo;
– del Mistero della Chiesa, perché sua madre e modello; del Mistero escatologico, perchè già assunta nella gloria finale.
1.4. Maria, icona di vita e profezia di futuro nel “mysterium hominis”
La “Donna” glorificata dal Risorto è un “luogo” in cui il cristianesimo, oltre a mostrare e narrare se stesso e la sua fede, mostra e narra quello che crede sull’uomo, cioè Maria è anche la massima espressione del realismo cristiano.
Nella sua concretezza umana, materna, verginale, spirituale ed escatologica, Maria:
– ricorda come l’essenza del cristianesimo non è una gnosi, un’ideologia, ma il Verbo di Dio fattosi uomo, ossia la persona di Cristo; – scoraggia ogni concezione dell’uomo «in termini di angelismo, in quanto questo non interpreta l’atto della creazione e quello ad esso connesso della redenzione»;
– disapprova ogni forma di spiritualità disincarnata perché non si può separare ciò che Dio creatore e redentore ha tenuto sempre e invariabilmente unito; – – condanna il disprezzo del corpo e delle cose, perché sono tessere dell’opera di un Dio creatore di «tutte le cose visibili e invisibili» (Credo) e soprattutto perché il Figlio di Dio con la sua incarnazione ha amato, con la croce redento, con la resurrezione glorificato, la “carne” umana divenuta così cardine di salvezza; – invita a contemplare la gloria escatologica alla quale l’uomo nella sua interezza viene chiamato;
– ricorda che l’inizio è già avvenuto in lei, un essere umano della nostra stirpe che ha pianto e sofferto con noi e come noi è morto.
1.5. Maria, icona di vita e profezia di futuro nel “mysterium mortis”
Anche il tema della morte26 connesso inevitabilmente alla questione del senso, emerge dalle negazioni totalizzanti del post – moderno nichilista.
A differenza della ragion moderna che nel suo ottimismo aveva esorcizzato la morte riducendola a un puro momento negativo del processo totale dello spirito, il pessimismo della ragione post – moderna, estende l’esperienza del morire all’intera vita, intesa, di conseguenza, come un interminabile addio, un continuo e drammatico precipitare verso il non senso.
27 È evidente che affermare che la morte è niente e ritenere che tutto è un continuo morire, sono due modi complementari di sfuggire all’interrogativo che la morte pone alla vita; la morte, cioè, viene semplicemente ignorata, evasa, nascosta. Il cristianesimo si interessa alla morte non soltanto perché fondamentalmente legata al mistero dell’uomo, ma perché essa investe la stessa fede in Dio in quanto questa è plausibile solo se risolve escatologicamente il problema stesso del morire.
Che ne sarebbe, infatti, del “Credo” cristiano senza l’escatologia? Nemmeno sul tema della morte, il cristianesimo rinuncia a confrontarsi col pensiero post– moderno e col nichilismo ma anzi, proprio nei confronti di quest’ultimo, riafferma che è possibile il “superamento” della morte; che si può “morire per l’invisibile”; che è piena di senso l’intuizione credente secondo la quale il cimitero non è il “loculo” del destino ultimo del singolo uomo e, conseguentemente, la storia non è la “fossa comune” dell’intera famiglia umana.
Proprio dentro una cultura debole e frammentaria che impedisce la ricerca del senso, la “riscoperta del senso della morte” costituisce uno degli spiragli più preziosi per il dialogo del cristianesimo con l’uomo del nostro tempo, ma sarà pertinente e reale, solo se riguarderà il tema della salvezza, cioè se terrà conto dell’eventualità di una vita dopo la morte. Ed è proprio ad una cultura che sfugge all’idea della morte, la traduce in tabù sconvenienti a tutti i livelli, la sconsacra, la circoscrive all’ambito dell’inesistenza, la riduce a una probabilità o a ricorrenza statistica, che il cristianesimo mostra accanto al Cristo crocifisso, l’icona dello “Stabat Mater” La “Donna” che sta ai piedi della Croce del Figlio in nome della Chiesa e dell’intera umanità, è la testimone per eccellenza del senso perenne della morte di Colui che, proprio morendo, diventava il vincitore definitivo della morte stessa.
Con questa sua presenza, la Mater dolorosa insegna agli uomini che la morte dell’uomo, come quella di Cristo, è il “luogo”:
– dove si tocca il vertice dell’auto-comunicazione di Dio e della rivelazione sull’uomo;
– dove ispirarsi per ripensare la presenza nel mondo e l’impegno nella storia;
– dove intuire l’ardire e la follia dell’amore di Dio per le sue creature;
– dove intravedere la terribile e disperante solitudine dell’uomo che perde Dio;
– dove scorgere la voragine del degrado del mondo se da esso Dio si allontana;
– dove la morte, proprio al momento del suo apparente trionfo risulta sconfitta, dato che all’esodo dell’uomo dal tempo, viene incontro l’avvento di Dio;
– dove, non segue il baratro della fine ma vengono spalancate le porte luminose del Regno. La “Donna” glorificata dal Risorto entra, così, nella lettura e nella proposta di soluzione del nostro morire.
La sua partecipazione al mistero di Cristo, ossia alla lotta da Cristo sostenuta per vincere la morte e al suo definitivo trionfo sulla morte.
25 Cfr. K. RAHNER, Maria. Meditazioni, Herder – Morcelliana, Roma – Brescia 1969-1979, 108.
26 Su questo tema cfr. J. P. MANIGNE – B. ANDRÉ, Il ritorno della morte, Queriniana, Brescia 1976; G. ANCONA, Il significato antropologico della morte, LUL, Roma 1990; F. LIVERZIANI, Le esperienze di confine e la via oltre la morte.
Mondadori, Milano 1978;illusione o s V. MESSORI, Scommessa sulla morte. La proposta cristiana:illusione o speranza?, SEI, Torino 1982.
27 M. G.MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, op. cit., 409.
28 Cfr. B. FORTE, La parabola della modernità e il problema del senso, in AA. VV., Condividere la nostra esperienza di Dio, Città Nuova, Roma 1995, 95.
29 M. G.MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, op. cit., 410-411.
Con la resurrezione, la rende in grado di stare vicina alla morte di ogni uomo e di ogni donna, così come è stata vicina alla morte ed è vicina alla gloria di Colui che, a nostra salvezza e per nostro vantaggio, ha «ingoiato la morte nella sua vittoria pasquale» (1Cor 15,54).32
Conclusione
Maria, la “Donna” glorificata dal Risorto è, perciò, icona di vita e profezia di futuro per l’uomo oppresso dal non senso e dal nulla.
Ella invita i “figli del nulla” a disincantarsi dal fascino dell’anamnesi come paura del presente, perché nel presente si affaccia e risplende già la luce del futuro; a liberarsi dal frammentarismo della storia, perché il Signore l’ha unificata in un unico cammino salvifico e proiettata verso il suo glorioso compimento; a non affidarsi a futuri brevi, perché fanno perdere il senso del futuro ultimo; a resistere alla tentazione del neo – paganesimo perché incatenando l’uomo al suo smarrimento pratico – esistenziale, gli fa perdere la dimensione escatologia.
Maria chiama gli uomini a guardare in alto, là dove è Dio creatore e fine ultimo; dove è Cristo, salvezza dell’uomo; dove è lei stessa, prima creatura pienamente realizzata nel Risorto dalla potenza dello Spirito.
La “Donna” glorificata, chiama in sostanza i “figli del nulla” ad essere anch’essi “icone di vita e profezia di futuro”.33
1 Cfr. PAOLO VI, Marialis cultus, esortazione apostolica del 2 febbraio 1974, in EV, EDB, Bologna 1980, vol. 5, nn. 13–
97.
2 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris Mater, lettera enciclica del 25 marzo 1987, in EdE, EDB, Bologna 1998, vol. 8,
715–774; IDEM, Sollecitudo rei socialis, lettera enciclica del 30 dicembre 1987, in EdE, nn. 775–1025; IDEM,
Rosarium Virginis Mariae, lettera apostolica del 16 ottobre 2002, in AAS 95 (2003), 5-36.
3 Cfr. C. C. DELIA, Maria e l’uomo d’oggi, Centro di cultura mariana „Madre della Chiesa“, Roma 1989.
4 Cfr. P. ZILLINGEN, Maria zeige uns Jesus, St. Raphael Verlag, Gögglingen 1983.
5 Cfr. F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996, 3-10.
6 Sul nichilismo si indicano queste interessanti opere: N. ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino, 1971;
KARL LÖWITH, Il nichilismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1999; E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Milano, 1972;
VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, 2003.
32 M. G. MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, op. cit., 412-414.
Strettamente legato al tema della morte è pure quello del dolore umano. Anche qui Maria, la “Donna” glorificata dal
Risorto, si pone come paradigma esemplare per l’uomo. Cfr. S. PALUMBIERI, Maria Assunta in cielo risposta divina al
dolore umano, in AA. VV., AA. VV., L’Assunzione di Maria, Madre di Dio. Significato storico a 50 anni dalla
definizione dogmatica, AA. VV., L’Assunzione di Maria, Madre di Dio. Significato storico a 50 anni dalla definizione
dogmatica, op. cit., 307-352.
7 Cfr. M. G. MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, in AA. VV.,
L’Assunzione di Maria, Madre di Dio. Significato storico a 50 anni dalla definizione dogmatica, Pontificia Academia
Mariana Internationalis, Città del Vaticano 2001, 388-389.
8 G. VATTIMO, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Feltrinelli, Milano
1987, 27.
9 Cfr. ALDO BODRATO, Nichilismo e cristianesimo. Un confronto a Torino, in Il Foglio, mensile on-line, n. 307..
L’autore riassume le relazioni del Convegno su “Nichilismo e Cristianesimo”, tenutosi a Torino dal 17 al 18 ottobre
2003.
10 Sulle problematiche, le soluzioni, le prospettive del rapporto tra cristianesimo e nichilismo si possono confrontare: M.
MASCIARELLI, Trinità in contesto. La sfida dell’inculturazione al riannuncio del Dio cristiano, in AA. VV., Trinità
in contesto, LAS, Roma 1994; B. WELTE, La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa,
Queriniana, Brescia 1983; G. LORIZIO, Prospettive teologiche del postmoderno, in Rassegna di Teologia 30 (1989), 550
ss; I. SANNA, Fede, scienza e fine del mondo. Come sperare oggi, Garzanti, Milano 1994; IDEM, Dialettica e speranza,
Valacchi, Firenze 1967; G. B. MONDIN, I teologi della speranza, Borla, Roma 1974; P. PRIMI, Cristianesimo e
ideologia, Esperienze, Fossano 1974.
11 Cfr. M. G. MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, op. cit., 397-
L’autore cita la frase di Dostoevski: «Proprio la Bellezza salverà il mondo, non la Bellezza qualunque, ma quella
dello Spirito Santo e quella della Donna vestita di sole», a sua volta riportata da T. SPIDLÍK, L’idea russa, Lipa, Roma
1995, 102.
12 Cfr. M. G. MASCIARELLI, Maria icona perfetta dell’umanità pervenuta per grazia al suo compimento, op. cit., 400-
401.
13 Cfr. R. LAURENTIN, Maria chiave del mistero cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 8.
14 Cfr. Ibidem, 402-403.
15 Cfr. A. SERRA, La presenza e la funzione della Madre del Messia nell’A.T. Principi per la ricerca e applicazioni, in
Dizionario di spiritualità biblico – patristica, 40 (2005), 101-109.
33 Cfr. AA. VV., Come vivere l’impegno cristiano con Maria. Principi e proposte, Centro di Cultura Mariana “Madre
della Chiesa”, Roma 1984; AA. VV., Maria guida sicura in un mondo che cambia, Centro di Cultura Mariana “Madre
della Chiesa”, Roma 202; AA. VV., Maria e la fine dei tempi. Approccio biblico, patristico e storico, Città Nuova,
Carmelo Venezia Esistono, durante la vita di una persona, periodi di difficoltà morale, causati da circostanze dolorose ; lontananza, malattie, perdita di persone più che cari. Per qualche anno, non ho più voluto continuare a scrivere il mio diario di un tempo piu’ che passato.
Innanzi tutto, debbo ringraziare il Prof. Nunziatino Magro ; malgrado le distanze che ci separano, telefonicamente mi ha incoraggiato a riprendere la mia penna, ridandomi il gusto per esprimermi e di rimemorare il mio passato.
Ma, prima di continuare, desidero chiedere scusa a tutti i miei amici e intellettuali, per l’uso del mio semplice vocabolario. In verita’ non ho mai frequentato le aule e i banchi delle Università. Rappresento una vecchia generazione randazzese possedendo semplicemente un modesto diploma elementare.
Ma , amo moltissimo , non solamente la mia città di Randazzo perche’ è stato il luogo della mia nascita, ma anche i resti delle sue opere d’arte che i nostri alleati non hanno osato demolire nel periodo dei bombardamenti del luglio e agosto 1943. Spesse volte, mi siedo alla terrazza del mio modesto appartamento, ammirando il panorama del Principato di Monaco, con le sue moderne costruzioni destinati ad una classe sociale privilegiata e milionaria.
Talvolta, socchiudo i miei occhi, facendo divagare la mia mente ed anche il mio pensiero, percorrendo le vecchie stradine dei nostri antichi quartieri di Santa Maria, S. Nicolò e San Martino della nostra città, luoghi riposanti, pieni di misteri, aneddoti, storie, li’ dove molti anni indietro, erano animati con la presenza di artigiani, carrettieri, contadini , musicisti, pastori, intellettuali, moltissime signorine ,sedute davanti le loro porte d’ingresso, ricamando la loro dote eseguendo un lavoro d’arte e talvolta prezioso, dando vita e animazione a questi luoghi storici.
In certi periodi delle stagioni, sentivamo gli odori del vino, delle mele e di altri frutti, che i nostri antenati e le nostre mamme avevano l’arte ed il segreto di conservazione per il periodo invernale.
Ma, ritorniamo alla realtà.
Qualche anno indietro, trascorrevo un certo periodo di vacanza presso i miei famigliari ; qualche giorno dopo il mio arrivo, ricevo un cortese invito dal Prof. Nunziatino Magro invitandomi ad una lunga passeggiata piuttosto storica. A bordo del suo veicolo, abbiamo percorso parecchi kilometri , salendo verso Santa Domenica vittoria. Ma, quale fu la mia sorpresa ? fermandosi, non solamente abbiamo ammirato lo stupendo paesaggio della nostra Randazzo ma anche il panorama dell’imponente Etna molto invidiata dai nostri turisti stranieri.
La seconda, è stata la scoperta dei resti di una antica cappella situata sul lato Sud dei Nebrodi dedicata in passato a San Marco.
Da ragazzo, percorrevo spesso questo cammino per recarmi a Santa Domenica Vittoria soprattutto per assistere alla festa di S. Antonio , chiedendomi sempre , che cosa rappresentavano questi ruderi. Penso, che qualche secolo fà , è stato un luogo di raccoglimento di pellegrinaggio, di raduno e di preghiera non solamente per i contadini ,numerosi in questo settore agricolo, ma anche per gli abitanti delle masserie e dei comuni limitrofi.
Finalmente, dopo tanti anni, la mia curiosità è stata ricompensata. Penso, che qualche tempo indietro, questo luogo è stato citato dal Dott. Salvatore Rizzeri nel suo libro : Le Cento Chiese .
Riscendendo, dopo avere attraversato il Ponte di San Giuliano, l’ho pregato di fermarsi a sinistra su questo piazzale chiamato volgarmente da noi randazzesi : U Stazzuni , in quanto che, volevo far conoscere una antica costruzione dove attualmente esiste un mulino inefficiente chiamato dai nostri antenati : Il Mulinello.
L’accoglienza del proprietario è stato molto cordiale e soprattutto amichevole . Fiero di mostrare non solamente la vecchia costruzione, ma anche il resto delle vecchie macine o mole, con qualche resto di antichi accessori. La botte situata sul piano superiore , la quale serviva di riserva e di pressione, é in eccellente stato di conservazione e di curiosità per gli alunni di tutte le scuole e soprattutto per osservare e conoscere , i vecchi sistemi idrici usati nell’epoca passata.
Scendendo, e passando dietro l’antica costruzione, la nostra seconda grande sorpresa, è stata di scoprire una delle antiche fornaci , numerosissime qualche secolo fa , in questo quartiere di San Giuliano, destinate alla fabbricazione della calce e nello stesso tempo alla cottura delle tegole, mattonelle e recipienti di argilla.
Ed è proprio di questo soggetto, di quest’ arte , di questi artigiani più che artisti nella loro materia, dotati di una straordinaria esperienza e di un sapere sconosciuto dai nostri giovani, i quali non hanno mai avuto l’occasione e la gioia di ammirare il lavoro di questi talentuosi artigiani.
Le fornaci erano state costruite principalmente in questo quartiere ; numerose nei dintorni di questo piazzale chiamato come avevo scritto prima : Stazzone : in dialetto randazzese, U Stazzuni. Sopra questa superfice , dove le costruzioni in duro non esistevano, c’erano circa quattro fornaci ; un certo numero appartenevano alle famiglie Arcidiacono, molto numerose fino agli anni 1960.
Altre, si trovavano nei dintorni della Via Regina Margherita , oggi chiamata in onore del nostro concittadino sindacalista e deceduto molto tempo fa, Via Giuseppe Bonaventura.
Una di queste, apparteneva al Signor Egidio Arcidiacono, specializzato nella fabbricazione di anfore, giare , vasi , lampade ad olio, ed altri oggetti, i quali servivano per conservare l’acqua, l’aceto , l’olio di oliva indispensabile per la nostra buona cucina. Questo artigiano, ha smesso la sua attività dopo il 1950 emigrando come moltissimi dei nostri concittadini in Argentina.
Le ultime notizie del signor Egidio, le ho ottenute nel dicembre del 1987. Essendomi recato parecchie volte a Buenos Aires, e dopo nella città di Haedo , situata nella grande periferia della Capitale, dal nostro concittadino Nino Luca, fratello del defunto Mario Luca, all’occasione di un incontro piu’ che affettuoso e nello stesso tempo, per la visita della sua , grande fabbrica di mobili .
Preciso, che in questa Citta’ , vivevano moltissime famiglie originarie della nostra Randazzo.
Il signor Egidio, si era stabilito in un’altra regione ; forse nella città di Mendoza.
Diverse fornaci, si trovavano nei pressi della chiesa del Signore della Pietà. Un’atra, apparteneva alle famiglie Mazza ; salvo errore da parte mia, questa era vicino la discesa del Ciapparo.
Mi chiedo sempre, perchè i nostri antenati , avevano dato questo nome . Oltrepassando la chiesetta, e andando a sinistra seguendo la strada che conduceva sia alle vecchie vasche di scarico delle fognature del comune ed anche al vecchio Mulino di Citta’ Vecchia, una di queste era proprieta’ del defunto Signor Alfio Bordonaro, padre del Dr. Nunzio Bordonaro, il quale da professionista, aveva creato una vera piccola industria per la fabbricazione della calce e soprattutto produrre la migliore qualita’ del prodotto.
Altre fornaci si trovavano nel quartiere di Murazzorotto, andando verso il lago Gurrida .
Anni passati, questa zona era molto popolata, dove ancora si potevano contemplare molte antichissime casette costruite in pietra lavica a secco, esistenti forse anche all’epoca araba, le quali, potevano servire temporaneamente di alloggio per i contadini e nello stesso tempo , come riserve di foraggio per nutrire asini, cavalli ,muli, pecore , numerosi in quel periodo.
Ma quasi tutte sono state demolite per ignoranza ed incoscienza , costruendo casette certo moderne , ma senza stile ed in un modo piu’ che disordinato.
Monastero di San Giorgio
Un’ altra fornace molto antica, si trovava a fianco del muro di cinta della Citta’ tra il Convento di San Giorgio e la Via Duca degli Abruzzi esattamente a fianco dell’antica Porta dell’Erbaspina , chiamata anche , Porta del Quartarario ; esisteva anche una piccola fontanella chiamata dai nostri antenati, Fontanella dell’Erbaspina. Questo artigiano lavorava esclusivamente l’argilla per la fabbricazione delle Quartare, vasi, e diversi recipienti in terracotta. Desidero precisare che questa porta con il suo semiarco e i suoi due pilastri, era visibile prima del Luglio 1943. Una parte è stata demolita dai bombardamenti ; il resto, dall’incoscienza umana. Le fornaci, potevano avere la forma di un grande cubo munito di una corta ciminiera oppure rotonde come un grande cilindro di un diametro di parecchi metri, munite sempre di una ciminiera. Il materiale utilizzato, erano le pietre laviche, murate con un impasto di calce e sabbia dell’Etna . L’ argilla in certi casi era utilizzata per la sua resistenza al calore. L’ interno, era diviso in diversi piani ; si accedeva attraverso una apertura situata a piano terra. Il sottosuolo era riservato per il grande focolare, il primo perimetro , per la cottura delle pietre calcaree . Il piano superiore, per la cottura delle tegole, i mattoni, le mattonelle. In seguito, le anfore, vasi, ed alti oggetti ad esempio le lampade ad olio, molto utilizzate nel periodo della guerra e specialmente nel periodo dei bombardamenti del luglio e agosto 1943. I focolari, erano alimentati con parecchie tonnellate di legno proveniente dalle nostre foreste comunali ed anche da foreste private.
DA DOVE PROVENIVANO LE PIETRE A CALCE ?
La cava delle pietre a calce, si trovava sul versante Nord dei Monti Peloritani parecchi kilometri dopo il comune di Santa Domenica Vittoria.
Nella mia giovinezza, ho avuto una sola volta di visitarla in compagnia di un conoscente e concittadino carrettiere , offrendomi un passaggio. Preciso che questo signore, faceva il trasporto di materiale edile. Non mi ricordo il nome di questa contrada ; mi ricordo solamente che durante il tragitto , ho potuto ammirare il magnifico paesaggio, ma anche i lavori dei campi eseguiti dai nostri bravi contadini.
L’ estrazione delle pietre, era un lavoro molto faticoso e soprattutto pericoloso per gli operai. I mezzi meccanici moderni non esistevano. Tutto era eseguito con la forza delle loro braccia, a colpi di mazza , picco ed altri rudimentari arnesi per potere spaccare le grosse rocce, ottenendo cosi’ il volume desiderato.
Il trasporto era eseguito con l’aiuto dei carretti trainati dai muli e per i piu’ ricchi, dai cavalli. Moltissime famiglie di carrettieri della nostra città eseguivano il trasporto di questo materiale, approvvigionando i proprietari delle fornaci.
I carrettieri partivano nella notte, per ritornare di buon mattino evitando cosi’ l’afoso calore dell’ estate. Il lavoro degli artigiani carrettieri, era molto impegnativo e faticoso , anche per gli animali che in realtà erano ben nutriti , ben curati e ben protetti.
IL LAVORO DELL’ARGILLA
Diversi proprietari di fornaci, come avevo accennato prima, si erano specializzati nella lavorazione dell’argilla , fabbricando mattoni, mattonelle, anfore, piatti e casseruole, molto usate dai nostri antenati per la cottura dei cibi prelibati e gustosi.
Queste piccole imprese, erano proprieta’ di parecchie famiglie randazzesi. Desidero citare la famiglia Mazza, la famiglia Bordonaro e soprattutto, le numerosissime famiglie Arcidiacono. Sicuramente, ne esistevano altre , ma onestamente non ho mai avuto l’occasione di conoscerle.
Per quanto concerna la famiglia Arcidiacono, ho conosciuto i due fratelli , Luigi e Battista, intimi amici musicisti, che per molti anni, hanno fatto parte del Corpo Musicale di Randazzo, all’epoca in cui era diretto dal Maestro Lilio Narduzzi e sovvenzionato dal Comune di Randazzo e soprattutto con l’aiuto e la contribuzione degli abitanti molto fieri del loro complesso.
Parlerò di Battista Arcidiacono nelle prossime pagine.
La nostra argilla, era estratta nel piano della Gurrida. All’epoca, questo terreno , era molto argilloso. In certe stagioni il fiume Simeto e Flascio , non solamente alimentavano il lago Gurrida ma anche moltissime superfici adibiti a vigne e ortaggi. Alimentavano anche un piccolo corso d’acqua che scorreva ai piedi del Castello Svevo per finire nel fiume Alcantara.
Non posso precisare il luogo esatto dove l’argilla era prelevata. Sicuramente all’interno di certe proprietà private ed anche nei terreni comunali pagando una tassa. Questa materia, era trasportata con i carretti a Randazzo e depositata sul luogo di lavoro. Ma, prima di usarla, necessitava una lunga preparazione. Depositata al suolo ed al sole per moltissimi giorni l’ argilla si riduceva cosi’ in finissima polvere. In seguito, era depositata in un grande bacino dove era mescolata e dosata con una qualità di terra che ogn’uno di loro, conosceva il segreto ed il dosaggio.
Il lavoro più faticoso, era quando tutta questa materia doveva essere mescolata, umidificata e pigiata da parecchi operai con la forza dei loro piedi e delle gambe, ottenendo così una materia omogenea , malleabile e pronta per la lavorazione . Gli artigiani, lavoravano a cielo aperto. Moltissime erano le donne, figlie di artigiani adibiti a questo lavoro. Sopra i loro banchi di lavoro ,confezionati in legno oppure con i mattoni, avevano parecchi telai in legno duro molto resistente all’umidità; per le tegole di forma trapezoidale, per i mattoni rettangolari, per le mattonelle in terra cotta, i telai erano quadrati a secondo la superfice richiesta dai clienti.
Per la confezione delle tegole, l’argilla era spalmata con le mani, livellata con una piccola regola nel suo apposito telaio, e dopo averla uscita dal telaio con l’aiuto di una piccola cordicella, era depositata sopra una forma semi rotonda, e impermeabilizzata con un impasto liquido a base di argilla e depositata al suolo e al sole per molti giorni ; in seguito all’interno della fornace per la cottura. Così per i mattoni ed altri oggetti.
Giovane apprendista falegname, ho avuto parecchie occasioni di costruire molti di questi telai. Da ragazzino, vedevo lavorare molte donne ed anche uomini con una enorme rapidità. Questo lavoro era molto impegnativo ; per proteggersi dal sole, specialmente nei mesi estivi, il loro capo era coperto con un cappello di paglia oppure con l’aiuto di un grande fazzoletto . Gli uomini, erano vestiti con un semplice pantaloncino, talvolta torso nudo e con i piedi scalzi, molto allegri, fieri della loro arte e del loro sapere.
COME LE FORNACI ERANO PREPARATE ?
Maestro Pippo Madè
Il primo lavoro, consisteva allo sgombero delle scorie del grande focolare situato nel piano inferiore ed alla pulitura del perimetro interno . Le pietre a calce, erano squadrate con colpi di martello e mazza ; parecchi muri a secco erano costruiti all’interno , occupando cosi’ la prima parte inferiore. Le tegole , le anfore , i grandi vasi ed altre oggetti da fare cuocere, erano situati sulla parte superiore.
L’ entrata veniva murata, lasciando semplicemente un’ apertura per l’alimentazione del focolare con piccoli tronchi d’alberi , truccioli ed anche con enormi mazzi di legno secco di poco valore , usato generalmente per questo lavoro.
Il focolare acceso, la fornace doveva essere alimentata e soprattutto sorvegliata giorno e notte per parecchi giorni. Talvolta, e questo dipendeva della quantità del materiale da cuocere, circa una settimana.
Nel periodo della mia giovinezza, ho avuto molte occasioni di percorrere di notte in compagnia di mio padre Giuseppe e mio nonno paterno Carmine Venezia , mugnai di professione, la strada che partiva dal vecchio mulino di Citta’ Vecchia, e che conduceva verso la chiesetta del Signore della Pieta’, soffermandomi vicino a queste fornaci , per ammirare le fiamme che sgorgavano dal focolare e della ciminiera , creando cosi un gioco d’ artifizio , sviluppando non solamente un grande calore , ma anche un fumo molto denso , soffocante , rendendo ancora più faticoso il lavoro degli operai .
Durante la cottura della calce, le fornaci erano soggetti ai cambiamenti atmosferici ; un giorno, parlando con il Signor Bordonaro, proprietario di questa grande fornace situata in questi paraggi , mi spiegò che un cambiamento atmosferico durante la cottura , poteva influenzare sulla durata del fuoco. Non posso precisare quanti gradi erano necessari per ottenere una eccellente qualità di calce ; forse circa 900 gradi .
Questi talentuosi artigiani pieni di esperienza e di maestria, conoscevano il momento in cui la fornace doveva essere spenta. Talvolta, una settimana di tempo era necessaria per raffreddare l’insieme di questa piramide, e accedere all’interno recuperando tutto il materiale il quale era venduto a tutti gli artigiani edili ed anche ai privati per la costruzione e la copertura delle nostre vecchie e moderne dimore.
Per la preparazione delle pietre a calce, i nostri artigiani muratori usavano un metodo molto semplice ; creavano un piccolo bacino di una profondità desiderata e secondo la quantità di calce da fare sciogliere. La pietra a calce già cotta, veniva depositata nel fondo di questo bacino e ricoperta con molta acqua. La calce al contatto con l’acqua, si scioglieva, sviluppando un forte calore che talvolta al contatto della pelle e del corpo, causava moltissime ustioni.
Dalla calce sciolta, qualche giorno dopo , si otteneva una materia bianchissima e cremosa, la quale mescolata con la sabbia dell’Etna e con una certa dose di acqua, ottenevano così un impasto per la costruzione dei muri in pietra lavica ma anche per costruire case ed altre opere. Serviva anche per imbiancare i muri e le pareti .
Possiamo anche dire, che tutte le costruzioni della nostra vecchia Citta’, sono state eseguite e realizzate con questi materiali. Voglio precisare un dettaglio molto importante ; nei secoli passati, la calce prodotta dai nostri artigiani, era molto usata da tutti gli artistifrescanti , specializzati nelle esecuzioni degli affreschi.
Ma, prima di usarla, ciascuno di loro, aveva il loro segreto di conservazione. Moltissimi artisti di grande nome, conservavano la calce all’interno delle botti di legno per circa venti anni cioè conservata per le future generazioni ; per i loro figli ed anche per i nipoti.
Non sono capace di spiegarvi l’effetto e la reazione chimica di questa materia , dopo molti anni di conservazione, posso invece affermarvi, che questo metodo è esistito. Onore ai nostri artisti del passato , i quali ci permettono di ammirare gli affreschi e capolavori dopo molti secoli passati.
Molte cose si potrebbero scrivere concernante la preparazione di questi lavori ; ma il soggetto è troppo importante.
Nelle precedenti pagine, avevo accennato il cognome delle famiglie Arcidiacono. Mi permetto ancora di parlare di Battista e Luigi ; due fratelli che pur essendo specialisti dei lavori in terracotta erano anche due eccellenti musicisti.
Per molti anni, hanno fatto parte del Corpo Musicale di Randazzo ; prima sotto la direzione del Maestro Marrone , dopo sotto la direzione del nostro talentuoso maestro Lilio Narduzzi , deceduto a Roma molti anni indietro.
Ho avuto l’onore di averli frequentato dal 1950 al gennaio 1957 facendo parte anch’io di questo prestigioso Complesso musicale molto amato da noi Randazzesi .
Mi ricordo , che tutte le domeniche e nei giorni festivi nel periodo estivo, i cittadini potevano assistere e ascoltare nelle piazze comunali concerti di musica lirica e non solo.
Colgo l’occasione per ricordare un artista dimenticato da noi randazzesi , deceduto a Milano qualche decennio indietro: Battista Arcidiacono , da giovane, a parte le sue qualità artigianali, possedeva una eccezionale dote musicale . Primo Trombone solista del Corpo musicale sotto la direzione del Maestro Lilio Narduzzi . Battista, era sempre alla ricerca della perfezione , dei coloriti e della raffinatezza musicale. Una sera, , i componenti del Complesso , eravamo riuniti nella sala del Concerto della Via San Giacomo per la ripetizione generale di una romanza dell’opera Rigoletto di Giuseppe Verdi . Il maestro Narduzzi con la sua bacchetta , chiama con un segno il primo trombone solista ! La risposta è stata più che negativa ! nessun suono. Battista, invece di suonare, si é messo a cantare la romanza mettendo un po’ in collera il maestro ; ma dopo qualche secondo, la collera si è trasformata in un grande sorriso paterno facendo anche ridere tutti i componenti del Corpo musicale. Battista, possedeva una bella voce ,un orecchio più che perfetto sempre alla ricerca della sensibilità musicale.
La sua esecuzione della Cavatina di Figaro del Barbiere di Siviglia era eccezionale ; un vero delizio per gli appassionati della musica lirica. Come moltissimi randazzesi, nel periodo del 1960 è partito per Milano, continuando a perfezionarsi nella storia musicale . Mi è stato riferito che dirigeva un complesso musicale, dedicandosi anche alla composizione.
Ho avuto l’ occasione di rivederlo a Randazzo nel periodo estivo con il complesso Marotta presentando prima dell’esecuzione dell’ opera musicale, i dettagli storici dei grandi compositori italiani.
Tante storie potrei scrivere concernente certi componenti del vecchio Corpo Musicale di Randazzo. Non volendo cambiare i miei propositi , prima di terminare questo modesto diario, desidero semplicemente citare qualche cognome di concittadini , facendo parte del Corpo musicale negli anni 1950 ed anche dopo. Gaetano Lazzaro , grande clarinettista, grande copista, dotato di una eccezionale calligrafia musicale ,abitava in Piazza San Martino , allievo del Maestro Marrone, primo clarinetto A sotto la direzione del Maestro Narduzzi . Il nostro concittadino è deceduto a Milano , Carmelo Scalisi , primo clarinetto , di professione ebanista. Salvatore Mendolaro , clarinetto, di professione calzolaio Salvatore Raciti , primo clarinetto , accompagnato dal figlio Mario Raciti trombettista. In realtà Mario suonava parecchi strumenti. Voglio ricordare ai nostri giovani randazzesi , che il Signor Salvatore Raciti , era un grande maestro scalpellino ; accompagnato dal figlio Mario, verso gli anni 1947 cioè nel dopo guerra, le dobbiamo il restauro del Chiostro , colonne , banchine e finestre del nostro Palazzo Comunale , la realizzazione della scalinata del Santuario del Carmine , moltissimi lavori in pietra lavica , e innumerevoli monumenti funerari . Pietrino Grasso , anche lui suonava il clarino ed anche i saxsofoni . Eccellente copista sicuramente negli archivi del Complesso Marotta, si possono trovare ancora molte partizioni musicali trascritte dalle sue mani. Per completare, voglio accennare la fine delle nostre antiche fornaci. Nel quartiere di San Giuliano e nei pressi della Via Carcare, quasi tutte le fornaci sono state demolite . Ci sarebbe da conservare e proteggere ancora qualche fornace più che nascosta e che sarebbe dell’ epoca Araba , non voglio citarla , per paura della demolizione.
Ricordo, la sera dell’ 11 agosto 2001 in occasione dell’ inaugurazione della Grande Esposizione in onore di Federico II , realizzata dall’artista siciliano Pippo MADE’ e presentata all’ interno del Chiostro Municipale dal Rev.mo Monsignore Santino Spartà. Dopo la presentazione di questa grandiosa esposizione, dei suoi oggetti preziosi e del suo libro, terminò il suo discorso accennando la delicata questione della protezione e della conservazione dei resti antichi lasciati per miracolo in salvo dopo i bombardamenti del luglio e agosto 1943 .
Ascoltai e ammirai il coraggio di questo eminente religioso , affermando pubblicamente che questi, non sono stati ne curati ne apprezzati da certi cittadini . Noi dobbiamo essere fieri di avere un religioso intelligente , un uomo di lettere , dotato di un grande sapere , con moltissime buone idee non solamente al livello amministrativo , ma anche per la protezione dei nostri monumenti, e per lo sviluppo del turismo locale.
Molte volte le sue buone idee non sono state ben seguite ed eseguite da certi dirigenti della nostra Amministrazione . La citta’ di Randazzo, ha bisogno di un grande sviluppo economico. Molti giovani non hanno occupazione . Per rimediare a questa grande lacuna, male cancerogeno della nostra epoca, due soluzioni esistono ; rilanciare l’ agricoltura e il turismo. Non dimentichiamo che il nostro territorio, è stato sempre una grande zona artigianale e agricola. Produrre locale, significa creazione di posti di lavoro e impieghi per i nostri giovani , evitando così l’immigrazione e la separazione dell’unità famigliare. Nelle contrade del nostro Comune, esistono ancora bellissime proprietà agricole con sontuose palazzine antiche di una vera bellezza architetturale inestimabile. Ammiro sempre, il coraggio dei proprietari, i quali con la forza fisica e mentale, malgrado gli inconvenienti amministrativi, riescono con molta volontà e gusto, al restauro, trasformandoli in alberghi, ristoranti e luoghi di vacanza , creando qualche posto di lavoro per i nostri giovani . Ma, tutti i cittadini randazzesi amano le nostre antiche costruzioni ? Trovandomi molto distante della mia amata Randazzo, la mia risposta è forse negativa. Senza la forza e la fede degli abitanti, un giorno o l’altro , moltissimi vestigi antichi e meno antichi, saranno distrutte . Non desidero impicciarmi di certi affari . Ultimo caso , la parte antica Est del vecchio palazzetto Germana’ ; questa piccola particella piu’ che antica, è rimasta per miracolo in piedi dopo i disastrosi bombardamenti del 1943.
Da ragazzo, ho conosciuto il vecchio palazzetto ; potrei anche descrivere come era , il pianoterra, era occupato da parecchie botteghe di artigiani ; falegnami, barbieri, stagnini e venditori di buon vino.
Era possibile salvarla ? questa particella, poteva essere inglobata nella nuova costruzione ? Non essendo un esperto in questa materia , non posso rispondere a queste spinose questioni. Amici miei randazzesi, amministratori comunali di tutte le tendenze , avete pensato al salvataggio del nostro vecchio Convento di San Giorgio ? al nostro Convento dei Frati Cappuccini ? al nostro rinomato Collegio San Basilio ? volete che questi monumenti cadono in rovina e dare via libera ai demolitori ? Sarebbe un gesto ed un atto più che grave . Il turismo, si attira proteggendo le vecchie pietre e non costruendo muri in cemento oppure in calcestruzzo . Ho avuto diverse occasioni di visitare molte regioni della Francia con i suoi sublimi antichi villaggi ; talvolta abbandonati a causa delle guerre e delle carestie , oggi risuscitati dal disastro , con la forza e la volonta’ dei cittadini , ridando vita a queste antiche dimore , attirando molti turisti e molto benessere per gli abitanti. Con la volonta’ e l’aiuto delle numerose associazioni locale, nei nostri antichi quartieri, molte cose si potrebbero imbellire ; molti abitanti lo fanno, mettendo in valore i lavori in pietra lavica, archi di porte , finestre, balconi ed altre belle cose.
Di ritorno nella mia Randazzo, mi rendo conto che certe mentalita’ e principi, non cambiano ; pertanto, l’intelligenza e l’istruzione esiste .
I cittadini randazzesi, possiedono un enorme potenziale intellettuale , artistico e culturale . Non dimentichiamo che le belle realizzazioni culturali , intellettuali e architettoniche , si possono realizzare con le idee e la volonta’ di tutti gli abitanti , all’infuori della politica e delle idee politiche.
Ringrazio il Prof. Nunziatino Magro e la sua equipe di T.G.R. Televisione Randazzo , il Signor Giuseppe Portale per le sue interviste , i suoi libri , per i suoi inteventi . Il Signor Francesco Rubbino per il suo sito internet “Randazzo . Blog” il quale con il suo lavoro e le sue ricerche , ha onorato e onora la memoria dei nostri defunti illustri cittadini , ma anche a noi immigrati randazzesi presenti in tutti i luoghi d’Italia e del mondo .
Grazie Signor Rubbino. Grazie a tutti coloro che hanno pubblicato sui siti internet , e consultati da noi residenti all’ estero.
Auguri a tutti i cittadini di Randazzo , e che la nostra Citta’ sia sempre piu’ bella, piu’ prospera, più tranquilla. Carmelo Venezia Beausoleil Agosto 2019 .
Angela Militi – Nata a Randazzo (CT) nel 1976, attualmente vive a Venezia.
Ricercatrice indipendente, attenta in particolar modo alla storia e alle tradizioni della sua città natale, dedica molte ore della sua giornata alla ricerca e allo studio di fonti e documenti. Spirito curioso, ama l’Arte in tutte le sue forme ed espressioni.
Campanile di San Martino
Fin da piccola manifesta una grande passione per l’astronomia e per la conoscenza in generale, tanto che crescendo la sua sete di sapere la porta a interessarsi anche di antiche civiltà, mitologia, archeologia misteriosa, simbolismo, storia antica e medievale, con particolare riferimento alla storia dell’Ordine Templare e a quella di Randazzo. Dal 1995 al 1997 è membro del Consiglio di Gestione della Biblioteca di Randazzo. Dal 1995 al 1999 è membro dell’Associazione “Gruppo di Volontariato per i Beni Culturali di Randazzo”, partecipando attivamente alle numerose iniziative culturali rivolte al rilancio dei beni culturali di Randazzo. Nel 1997 si trasferisce a Venezia dove l’incontro con alcuni studiosi di astrologia ed esoterismo, la porterà ad approfondire queste discipline esoteriche.
Nel maggio del 2000 diventa membro del Gruppo A
Angela Militi
strologico “Sirio” di Venezia – delegazione del Veneto del CIDA (Centro Italiano di Discipline Astrologiche) –, e inizia a frequentare la scuola d’astrologia “Regulus” di Arturo Zorzan, studioso di grande rilievo dell’astrologia italiana, per dieci anni. Dal 2000 al 2014 è socia del CIDA. Nel settembre 2006, su invito del Gruppo astrologico “Sirio”, tiene la sua prima conferenza dedicata ai cicli di Giove e Saturno, presso l’Hotel Sirio di Venezia. Nell’ottobre del 2006 inizia a interessarsi di epigrafia, brachigrafia medievale e archeoastronomia.
Nel giugno del 2007 partecipa alla Tavola Rotonda organizzata dal Gruppo “Sirio” dal titolo: “Marte”, con il contributo “L’opposizione perielica di Marte”. Nell’ottobre 2007 presenta al Gruppo “Sirio” la prima parte di uno studio archeoastronomico sui monumenti sacri della città di Randazzo, dal titolo: “Civitas Randatii”.
Via santa Catarinella
Angela Militi – Filippo Bertolo
Nel novembre 2008 presenta per lo stesso gruppo, la seconda e ultima parte della ricerca dal titolo: “Allineamenti astronomici, geometria sacra e simbolismo nella città di Randazzo”, che, nel novembre 2008, esporrà anche al Gruppo Astrologico “Tergestre” di Trieste – delegazione del Friuli Venezia Giulia del CIDA, su invito della dottoressa Lidia Callegari, presidente del gruppo astrologico. Nel novembre 2009 è relatrice alla conferenza per il Gruppo “Sirio” con tema:“Astronomia per astrologi”, che, nel marzo 2010, esporrà, anche all’Associazione del Centro di Studi Astrologici ed Evolutivi “Lo Zodiaco Padova”, su invito della stessa associazione. Dal dicembre 2009 cura un blog personale “Randazzo Segreta” (http://randazzosegreta.myblog.it/), dove pubblica i suoi studi. Nel febbraio 2010 pubblica sul sito web Due passi nel mistero, l’articolo: “Randazzo Segreta. Astronomia, Geometria Sacra e misteri tra le sue pietre”, su invito di Marisa Uberti, webmaster del sito. Alcuni giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, viene contattata dal professor Adriano Gaspani, Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio astronomico di Brera- , con il quale inizia, insieme al dottor Filippo Berolo, una collaborazione per un progetto di studio archeoastronomico delle chiese altomedievali di Randazzo. Nell’ aprile del 2010 è relatrice alla conferenza per il Gruppo Astrologico “Tergestre”– con tema: “I cicli di Giove e Saturno”. Nel dicembre 2010 autopubblica il breve saggio: “L’epigrafe della Basilica Minore di Santa Maria in Randazzo. Esegesi di una data”, nel quale, ha per prima interpretato correttamente, l’epigrafe della Basilica Minore di Santa Maria riportante la data di costruzione della chiesa. Nell’agosto 2011 su invito del Comitato di Via dei Lanza di Randazzo partecipa ad una conferenza/chiaccherata, presso Via dei Lanza. Dal 2012 è membro della S.I.A. (Società Italiana di Archeoastronomia).
Monastero di San Giorgio
Il 5 e 6 ottobre 2012 partecipa, in collaborazione con il dottor Filippo Bertolo e il professor Adriano Gaspani, al XII Convegno Società Italiana di Archeoastronomia, con un contributo dal titolo:“Analisi archeoastronomica delle chiese di Randazzo (CT)”.Il 13 ottobre 2012 pubblica per la casa editrice Tipheret il volume:“Randazzo Segreta. Astronomia, Geometria Sacra e misteri tra le sue pietre”, con la presentazione del professor Adriano Gaspani e del fr. Alberto Zampolli, 47° Gran Maestro dell’Ordine Templare O.S.M.T.J (Ordre Souverain et Militaire du Temple de Jérusalem) [recensito da Terra Incognita Magazine].
In occasione della presentazione del volume, viene insignita, dal fr. Alberto Zampolli, del titolo di Cavaliere onorario.
Il 14 e 16 novembre 2013 partecipa, in collaborazione con il dottor Filippo Bertolo e il professor Adriano Gaspani, al XIII Convegno Società Italiana di Archeoastronomia “La misura del tempo”, con un contributo dal titolo:“Analisi archeoastronomica delle chiese di San Martino e San Vito a Randazzo (CT)”. Nel novembre 2014 è relatrice alla conferenza per il Gruppo “Sirio” e per il Gruppo Astrologico “Tergestre” con tema: “Archeoastronomia: megaliti e luoghi sacri”. Ideatrice e organizzatrice insieme a Beppe Petrullo del “Tour del Mistero” edizione 2016 e 2017 e del gioco di ruolo dal vivo “Delitto al Convento” edizione 2017.
Attualmente sta completando lo studio archeoastronomico delle chiese altomedievali di Randazzo di prossima pubblicazione.
Il documento è tratto da: Randazzo Segreta di Angela Militi
Randazzo Segreta. Tra la Francia e la Sicilia
Beppe Petrullo
I Templari avevano acquisito metodi e studi per usare strumenti molto particolari, come l’astrolabio, ed altri strumenti di misurazione, per arrivare a studiare le scienze astronomiche e chimiche. Intorno fra il 1200 ed il 1250 accade un fatto straordinario. In tutta la Francia si edificarono , in un lasso di relativamente breve, chiese particolari, con uno stile che fino ad allora era sconosciuto.
Cosa ha spinto e Come hanno fatto i Templari a progettare e realizzare queste cattedrali con le loro migliaia di tonnellate di peso? Perche oggi appaiono ai nostri occhi leggerissime e tali da sfidare la legge di gravita? Da antichi documenti a Chartres e nell’intera Francia, si vede che assolutamente nulla e lasciato al caso a partire dalla loro disposizione sulla carta geografica.
Le cattedrali Francesi sono dedicate a Notre Dame, cioe alla Vergine.
Se osserviamo con estrema attenzione come sono disposte le cattedrali in Francia potremmo osservare che , le cattedrali disposte sul terreno, cioe quelle piu importanti e grandi, formano esattamente la forma della costellazione della Vergine.Angela Militi, ricercatrice storica che coltiva lo studio dell’archeoastronomia, combinazione di studi astronomici e archeologici. Nata nella città di Randazzo, ha approfondito lo studio sulla propria città che gli ha dato i natali, svelando ed anticipando particolari storici ancora non svelati e citati da nessuno.
Particolari chiaramente singolari ed interessati che la portano ha scoprire e rilevare cose ancora mai dette sulla Città Medievale di Randazzo e che trovano incredibile similitudine con le cattedrali francesi.
Lo studio e una ricerca minuziosa e precisa, nella simbologia, numerologia ed archeoastronomia delle chiese di Randazzo.
Per la ricerca storica, Angela Militi, si è avvalsa della consulenza di nomi illustri quali: la Professoressa Flavia De Rubeis dell’Universita Ca Foscari, docente di Paleografia latina ed Epigrafia medievale; il Professor. Gaspani . astronomo dell’I.N.A.F di Milano; per i contenuti archeoastronomici, Rav Avraham Dayan, Vice rabbino della Comunità Ebraica di Venezia che ha controllato i valori gematrici del lavoro. Nella splendida cornice di Via dei Lanza a Randazzo, in occasione della sua conferenza, mi ha pregiato di alcune sue riflessioni ed anticipazioni su ciò che potremmo leggere nel suo prossimo lavoro dal titolo “Randazzo Segreta“.
Domanda. Beppe Petrullo Com’e nato questo studio su Randazzo?
Risposta. Angela Militi
Questo Studio e nato, per caso, da una proposta del presidente e della segretaria del gruppo astrologico Sirio di Venezia, li appassionai accennandogli la mia ardente convinzione dell’imprescindibile legame che Randazzo fin dalle sue origini aveva con il numero tre ed i suoi multipli. Scherzando dissi: la citta perfetta!
Domanda
Se consideriamo che nel Medioevo, solo i Monaci o i Religiosi in generale, a parte poche eccezioni, erano in grado di leggere e scrivere. Diventava chiaro, se non indispensabile, che dovevano trasmettere a chi non sapeva leggere le informazioni religiose, attraverso simboli, siano essi stati numeri o immagini. Sappiamo che ognuno di questi aveva un significato preciso e raccoglieva interi concetti filosofici e religiosi. Sappiamo che i numeri erano parte della Simbologia cristiana in quanto, attraverso questi, si era in grado di trasmettere i concetti fondamentali della nostra Religione. Il 3 è un numero fondamentale nella simbologia cristiana, tanto che è a lui che viene dato il massimo valore ,il 3 rappresenta la Trinità. Ci puoi spiegare questo legame della citta di Randazzo con il numero 3?
Risposta
Angela Militi
Randazzo trae le sue origini dall’antica Triocala.
Diodoro nella sua biblioteca storica ci riferisce che fu denominata cosi per le sue tre cose belle, ovvero l’abbondanza e dolcezza delle sue sorgenti, la fertilità delle sue terre e la posizione eccezionalmente forte.
Randazzo era sita in mezzo a tre corsi d’acqua: Fiume Grande (Alcantara) dalla parte settentrionale, Fiume Piccolo . scomparso a seguito della colata lavica del 23 marzo 1536 dalla parte meridionale e il Torrente Annunziata dalla parte occidentale.
Un tempo ben difesa da mura di cinta, sulle quali si aprivano nove porte, multiplo del numero tre, che in seguito diventarono dodici.
Le due vie principali, Via Soprana, l’attuale via Umberto e Via Sottana, oggi via Duca degli Abruzzi, dividono la Citta in tre parti. Le mura erano alte trenta palmi siciliani. La città fu divisa in tre quartiericresciuti attorno alle rispettive chiese da cui presero il nome: Santa Maria, San Nicola e San Martino.
Alcuni autorevoli storici sostengono che Federico II di Svevia attribuì a ciascuna città demaniale un appellativo: Randazzo ebbe il titolo di Ennea, termine che deriva dal greco εννεα che significa nove. Randazzo era provvista di quattro fontane: la fontana Grande o del Roccaro, ripartita in due grandi canali; la fonte del Gallo; la fontana dell’Erba Spina o di Santa Maria e la fontana detta di Sana Malati, nome che gli fu attribuito dal popolo per via della dolcezza delle sue acque, divise in cinque rivoli; di conseguenza l’acqua sgorgava da nove condotte
A detta del rev. Giuseppe Plumari su essa soffiano solo tre venti: Aquilone, Euro ed Zefiro. Sul piazzale della chiesa di San Nicola campeggia la statua del Piracmone o come l’ama chiamare il popolo: Randazzo Vecchio, la quale si accompagna a tre simboli solari: l’aquila, simbolo di rinascita, che sul vecchio Piracmone si trovava molto probabilmente sulla spalla, i serpenti, simbolo di conoscenza e saggezza ed il leone, simbolo di forza.
Oggi il suo territorio e compreso fra tre parchi: Parco Regionale dell’Etna, Parco Naturale dei Nebrodi e Parco Fluviale dell’Alcantara.
Domanda
Il centro storico di Randazzo è rappresentato da tante viuzze medioevali, ed opere alto medievali di grande rilievo artistico dove ogni visitatore che ha voglia di conoscere ha l’opportunità straordinaria di passeggiare tra le grandezze dell’ingegno umano. Randazzo, nutre la fame di conoscenza che ogni viaggiatore si porta dentro ma mostra un lato segreto che non e possibile rintracciare tra i normali documenti storici. Una “Randazzo Segreta” tra tradizione popolare, astronomia, e simboli. A questo proposito penso alle 99 Chiese presenti a Randazzo.
Risposta
Esatto, numero che ancora una volta ci conduce all’inseparabile legame con il cielo e al numero tre. Fu proprio mentre stavo cercando di evidenziare su una planimetria della città i punti corrispondenti alle chiese di Randazzo elencate nel manoscritto Storia di Randazzo del rev. Giuseppe Plumari, che notai che molte di esse erano dedicate alla Vergine Maria, al chè mi vennero in mente le cattedrali dell’Ile de France che, come evidenzia Luois Charpentier nel suo libro I misteri della Cattedrale di Chartres, disegnano al suolo la costellazione della Vergine. La costellazione della Vergine e la seconda costellazione del cielo per dimensioni ed e immaginata come una donna alata che tiene nella mano sinistra una spiga di grano. Per uno strano motivo decisi di provare ad unire tra di loro i punti corrispondenti alle chiese dedicate alla Vergine Maria di Randazzo, e il risultato finale fu suggestivo.
Infatti notai che:
Porrima, Gamma Virginis, corrisponde alla Basilica minore di Santa Maria;
Theta Virginis coincide con la chiesa di Santa Maria della Volta;
Spica, Alfa Virginis, e in simmetria con la chiesa di Santa Maria dell’Agonia;
Zeta Virginis combacia con la chiesa di Santa Maria degli Ammalati;
Delta Virginis con la chiesa di Santa Maria di Loreto, oggi non piu esistente;
Kappa Virginis corrisponde alla chiesa di Santa Maria della Misericordia;
Tau Virginis con la chiesa Santa Maria di Gesu;
la stella 38 Virginis e coincidente con la chiesa di Santa Maria di Porto Salvo;
la stella TYC 4953 1222-1 (nomenclatura di Tycho) collima con la chiesa di Santa Maria dell’Elemosina;
49 Virginis e in simmetria con la chiesa di Santa Maria delle Grazie, abbattuta per costruirvi il convento di San Domenico;
la stella 61 Virginis e in simmetria con la chiesa di Santa Maria dell’Itria;
Domanda
Ulteriore prova della profonda devozione dei Randazzesi verso la Vergine Maria? Oppure ci troviamo davanti ad un progetto per la citta di Randazzo minuziosamente concepito dall’Ordine dei Cavalieri templari braccio armato dei Cistercensi e sempre presenti nei luoghi di culto mariani?
Risposta
Campanile Chiesa san Nicola – Randazzo
Manifestazione di Templari a Randazzo
Manifestazione di Templari a Randazzo
Una delle teorie più intriganti che riguarda questo Ordine e quello che furono loro o fornire ai costruttori delle cattedrali le tecniche costruttive basate sulle Leggi divine dei numeri, dei pesi e delle misure, riportate alla luce dagli stessi durante gli scavi sotto un’ala del palazzo di re Baldovino II, dove un tempo sorgeva il Tempio di Salomone.
Vi faccio notare che aggiungendo alle chiese precedentemente indicate anche quelle dedicate a santi cari ai Templari notiamo che la stella Zaniah Eta Virginis corrisponde alla chiesa del monastero di San Giorgio, inizialmente dedicato a Santa Maria Maddalena; la stella Beta Virginis e correlativa alla chiesa del Signore Pieta; la stella Epsilon Virginis corrisponde alla chiesa di San Giovanni Evangelista; la stella 16 Virginis coincide con la chiesa di San Michele Arcangelo, oggi Santuario della Madonna del Carmelo; 82 Virginis e in simmetria con la chiesa di San Martino; la stella 76 Virginis e relativa alla chiesa di Santo Stefano e la stella 95 Virginis e correlativa la chiesa di Santa Caterina (Catarinella),la similitudine tra la costellazione della Vergine e la disposizione delle chiese di Randazzo appare evidente.
Domanda
Si tratta di un progetto unitario o e solo frutto del caso?, Chi commissionò le chiese, chi progettò le chiese nella nostra Randazzo?
Risposta
Queste chiese furono edificate in un periodo, il Medioevo, in cui nell’edificazione delle chiese nulla era lasciato al caso ma essa comprendeva nella loro forma architettonica, un insieme di regole astronomiche, matematiche e geometriche, patrimonio delle corporazioni di costruttori, allo scopo di collegare il cielo con la terra.
Corporazioni in grado di realizzare opere prestigiose, in un’ epoca in cui le tecniche costruttive si limitavano all’uso del filo a piombo, della squadra, del compasso e della corda a dodici nodi.
Per poter comprendere gli edifici sacri medievali bisogna analizzare: le caratteristiche geometriche e matematiche degli stessi nonchè la loro orientazione rispetto alle direzioni astronomiche fondamentali, al cielo visibile all’epoca della loro fondazione o edificazione, in quanto la chiesa romana aveva stabilito delle regole fisse che dovevano essere seguite dal Maestro d’opera (l’architetto),ma questo non sempre avveniva in quanto ciascuna corporazione possedeva il proprio bagaglio di conoscenze e la propria simbologia astronomica che li contraddistingueva, conoscenze che erano tramandate da padre in figlio, da maestro ad apprendista. Matematica, geometria, astronomia, perfezione delle forme sono in ogni linea di Randazzo.
Domanda
Matematica, geometria, astronomia, perfezione delle forme sono in ogni linea di Randazzo. Dove possiamo trovare quanto ci hai appena detto?
Risposta
Chiesa di Santa Maria – Randazzo
In tutte le chiese alto medievali della città.
Se permetti oggi vorrei parlare della chiesa di Santa Maria.
La chiesa oggi si presenta un tutt’uno con il suo campanile, ma inizialmente esso si distaccava dal prospetto della chiesa di 14 palmi siciliani.
Nel Medioevo, al contrario di oggi, i numeri avevano una rilevanza sacra, e erano utilizzati dai costruttori.
Considerando la chiesa nel suo nucleo principale essa risulta costruita su un modulo geometrico ad quadratum, in pratica si sviluppa seguendo un reticolo geometrico a modularità quadrata.
E inscritta in un rettangolo lungo 6 quadrati e largo 3 quadrati, in totale 18 quadrati (1+8=9). Da rilevare che la dimensione del rettangolo espressa in antichi palmi siciliani misura utilizzata in Sicilia fino al 1840: lunghezza 171 palmi siciliani (1+7+1= 9), larghezza 81 palmi siciliani (8+1=9); per di piu il lato dei quadrati risulta essere 27 palmi siciliani (2+7=9) mentre le diagonali misurano ciascuna 189 palmi siciliani (1+8+9=18 ovvero 1+8=9). Il nove e tre volte sacro; nella cabala questo numero esprime la sintesi perfetta del Cosmo; esso esprime e rappresenta il rapporto tra Dio e l’uomo.
Numero che fu importante anche per i Templari infatti: nove furono i primi cavalieri che fondarono l’Ordine; la Regola Templare, redatta da San Bernardo, era composta da settantadue articoli (7+2=9) e l’articolo II prevedeva che all’ora del Vespro i Cavalieri dovevano recitare nove Pater; l’ordine templare era diviso in nove province.
Domanda
Qual e il legame tra l’astronomia e la chiesa oltre a quello dei numeri e delle caratteristiche costruttive.
Risposta
In tutti i tempi l’astronomia e stata una parte essenziale dell’architettura.
Come detto precedentemente la costruzione di una chiesa doveva soggiogare a regole ben precise di orientazione del suo asse longitudinale.
Anche l’asse di orientazione di una chiesa, nella direzione che parte dalla porta d’ingresso e continua verso abside, ha il suo particolare valore di azimut. L’ asse della chiesa di Santa Maria e diretto verso un punto dell’orizzonte naturale locale spostato di 80gradi rispetto al Meridiano locale o Nord geografico.
Questa direzione dell’asse della chiesa nel XIII secolo, epoca in cui fu edificata la chiesa, corrispondeva al punto di levata del Sole all’orizzonte naturale locale in due date durante l’anno, e cioè quella del 3 aprile e quella del 28 agosto(calendario giuliano).
La data in agosto non e rilevante, mentre .quella del 3 aprile potrebbe essere collegata con la direzione lungo la quale si poteva osservare sorgere il Sole nella domenica di Pasqua sull’orizzonte naturale in questi anni.
Considerando che i lavori per la costruzione del tetto della cripta iniziarono nel 1214, è possibile che il rito di fondazione della chiesa potrebbe essere avvenuto la domenica di Pasqua del 3 aprile del 1211, quindi quest’anno la chiesa festeggia il suo ottava centenario.
I costruttori delle cattedrali, no ma non solo, come vedremo, al fine di legare le stesse al luogo in cui sorgevano, inserirono nella struttura architettonica il valore angolare della latitudine del luogo, nella chiesa di Santa Maria la diagonale della stessa apre un angolo con la linea equinoziale pari a 38 gradi latitudine della città, ma i costruttori inserivano anche l’angolo riguardante le culminazioni solari.
Alla latitudine di Randazzo il Sole, al solstizio d’estate, culmina ad un’altezza pari a 75 gradi, agli equinozi culmina ad un’altezza pari a 52 gradi ed infine al solstizio d’inverno culmina ad un’altezza pari a 28 gradi.
Vediamo dove i costruttori hanno inserito questi valori.
La diagonale della chiesa apre un angolo con l’asse longitudinale della stessa di 28 gradi, pari alla culminazione del Sole al solstizio d’inverno. L’abside e alta 75 palmi siciliani pari alla culminazione del Sole al solstizio d’estate, mentre le due absidiole sono alte 52 palmi siciliani pari alla culminazione del Sole agli equinozi.
Se dalla cima del vecchio campanile tracciamo una linea immaginaria sino alla soglia della porta d’ingresso (sempre prima dell’ampliamento), tale linea aprirà un angolo di 75 gradi, pari alla culminazione del Sole al solstizio estivo.
Mentre se dalla cima dello stesso tracciamo un’altra linea immaginaria sino all’estremità dell’abside, otteniamo un angolo di 28 gradi, pari alla culminazione del Sole al solstizio invernale. Questo dimostra che il campanile fu progettato e costruito contemporaneamente alla chiesa.
Domanda
Conoscenze costruttive che possono quindi essere anche riportate ai Templari? A Randazzo sono presenti segni visibili che possono testimoniare la presenza dei Templari nel nostro paese?
Risposta
Alcuni segni visibili riconducibili ai Templari ancora oggi si possono ammirare tra le decorazioni poste sopra i timpani delle trifore della cella campanaria del campanile di San Martino, dove sul lato settentrionale e stata scolpita una Stella di Davide o Sigillo di Salomone, essa cominciò a comparire in molte chiese cristiane soltanto in epoca medievale e i primi ad utilizzarla furono proprio i templari, nel nostro caso la stella e ruotata di 90, formando una M, un chiaro riferimento alla Vergine Maria, verso la quale i cavalieri Templari nutrirono una profonda devozione.
Un altro simbolo che i templari portarono dalla Terra Santa in Europa e utilizzarono nei loro edifici fu anche il Fiore della Vita, che ritroviamo scolpito accanto alla stella di Davide ma anche sul lato meridionale ed occidentale.
Notai che essi non furono scolpiti a caso infatti, i Fiori posti sui lati meridionali e settentrionali furono scolpiti in modo tale che i petali indicassero le direzioni cardinali Sud e Nord, mentre quello collocato sul lato occidentale fu scolpito in maniera tale che i petali indicassero la direzione cardinale Ovest.
Altri segni si trovavano sulla facciata della chiesa di Santo Stefano, di essa rimangono un disegno della sua facciata, fatto eseguire dal rev. Giuseppe Plumari; esaminandolo con attenzione, richiama lo sguardo il bassorilievo dell’Agnus Deiscolpito nella lunetta del portale ogivale, un elemento tipico dell’iconografia templare, presente in molte chiese attribuite ad essi ed utilizzato come uno dei sigilli nei loro documenti; e il viso femminile posto subito sopra il portale che, a mio avviso, raffigura il volto della Vergine Maria.
Domanda.
Certamente ritorneremo a parlare nuovamente ampliando l’argomento ma prima di salutarci una tua riflessione sulla città che ti ha dato i natali e dovuta.
Risposta
Questa città e i suoi monumenti nonostante siano passati molti secoli dalla sua edificazione e molto si e scritto, è ancora in grado di stupirci poichè essa parla a chi la sa ascoltare.
F.to Beppe Petrullo
CONSUETUDINI DI RANDAZZO di Angela Militi
” Era il 26 ottobre del 1466, quando il viceré Lupum Ximenez d’Urrea approvava, per la prima volta, le Consuetudini di Randazzo, un sistema di norme civili – composte da 58 articoli – che regolavano la vita comunitaria della città.
Le stesse furono redatte durante «un Consiglo generale in locu» e sottoposte allo stesso viceré per la conferma, il 6 giugno dello stesso anno, dal reverendo Jaymum de Citellis, arcipresbitero della terra di Randazzo e dal nobile Michaelem la Provina «sindicos et ambaxiatores universitatis terre Randacii» (La Mantia V., Consuetudini di Randazzo, Palermo, 1903, p. 1). Le Consuetudini di Randazzo, come in tutte le altre città siciliane, rimasero in vigore fino al 1819, anno in cui fu promulgato il Codice per lo Regno delle due Sicilie.
In particolare l’articolo 3 della legge del 21 maggio, emanata da Ferdinando I di Borbone (1751-1825), disponeva che: «Dal giorno indicato nel precedente articolo [1 settembre dell’anno] le leggi romane [cioè il diritto comune], le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispaci, le lettere circolari, le consuetudini generali e locali, e tutte le altre disposizioni legislative cesseranno ne’ nostri dominj al di là del Faro di aver forza di legge nelle materie che formano oggetto delle disposizioni contenute nel mentovato codice per lo regno delle Due Sicilie» (Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1848, Parte Prima , p. 288).
La prima, e unica, edizione del testo delle Consuetudini di Randazzo, fu curata da Vito La Mantia, giurista e storico italiano e stampata a Palermo presso lo Stabilimento Tipografico di A. Giannitrapani, nel 1903.
Questo documento, prezioso testimone della memoria storica – stranamente mai menzionato dal reverendo Plumari –, fu rinvenuto, dal giurista, nel corso delle sue ricerche, in un volume della Regia Cancelleria, conservato presso l’Archivio di Stato di Palermo.
Oggi, questa edizione, è quasi introvabile e poche sono le biblioteche* che ne possiedono una copia e poiché essa, fornisce un prezioso contributo alla conoscenza della storia della nostra città, in quanto ci fa conoscere meglio i nostri avi e le leggi da loro enunciate per regolare il quieto vivere della comunità, ho deciso di condividere questo libro con tutti voi.
*Biblioteca regionale universitaria di Catania Biblioteca nazionale centrale di Firenze Biblioteca del Dipartimento di diritto privato e storia del diritto dell’Università degli studi di Milano Biblioteca della Società napoletana di storia patria di Napoli Biblioteca centrale della Regione siciliana Alberto Bombace di Palermo Biblioteca Etnografica Giuseppe Pitré di Palermo Biblioteca statale del Monumento nazionale di Grottaferrata – RM – Biblioteca di Studi meridionali Giustino Fortunato di Roma Biblioteca Centrale Giuridica di Roma
Biblioteca Universitaria di Sassari”
Libro “Consuetudini di Randazzo” di Vito La Mantia
Chartres. La cattedrale e la città vecchia (Attinenza: 13%): La cattedrale di Notre Dame di Chartres, l’emblema del gotico Abbazia delle Tre Fontane (Roma) (Attinenza: 13%): L’Abbazia dei Santi Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane, un autentico gioiello dell’architettura medievale cistercense Blera, la città altomedievale – Scavi in località Petrolone (Attinenza: 13%): Gli scavi in loc. Petrolone Viterbo sono stati intrapresi nel 1998 dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (Dipartimento di Scienze Storiche Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità, Cattedra di Archeologia Medievale Federico II e i Templari (Attinenza: 13%): Il rapporto basato sull’analisi storica tra Federico II e i Templari
2008
Militi A., L’opposizione perielica di Marte, in “Linguaggio Astrale. Pubblicazione Trimestrale del Centro Italiano di Discipline Astrologiche”, Anno XXXVIII, N. 152, 2008, pp. 14-25 (Articolo su rivista).
2010
Militi A., Randazzo Segreta. Astronomia, Geometria Sacra e misteri tra le sue pietre, in “Due passi nel mistero”, febbraio 2010 (Articolo su sito web)
“Una Randazzo segreta? Il racconto del passaggio dei cavalieri templari”, intervista a cura di Ornella Lodin pubblicata sul sito web “Tifeo Web”,l’8 novembre 2010 e sul sio web “Maletto Web Community dell’Etna”il 16 novembre 2010.
Militi A., L’epigrafe della Basilica Minore di Santa Maria in Randazzo. Esegesi di una data, Venezia, 2010 (ISBN 978-88-905390-0-8)
2011
Militi A., I Cavalieri Templari e il codice stellare della Vergine a Randazzo,in “spHera”, Anno II, n. 1, Gennaio 2011, pp. 44-47 (ISSN 2038-257X) (Articolo su rivista)
Randazzo Segreta. Tra la Francia e la Sicilia, intervista a cura Beppe Petrullo pubblicata sul sito web “Il Portale Medievale”, settembre 2011.
2012
Militi A., Randazzo Segreta. Astronomia, Geometria Sacra e misteri tra le sue pietre, Acireale –Roma, Tipheret, 2012 (ISBN 978-88-6496-080-7)
Militi A., Un volto misterioso, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 6 novembre 2013 (Articolo su sito web)
Militi A., La truvatura della chiesa di Santa Maria: leggenda e simbolismo, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 21 dicembre 2013 (Articolo su sito web)
2014
Militi A., I Misteri di Randazzo, in “Miti e Misteri”, 10 gennaio 2014 (Articolo su sito web)
Militi A., Basilica minore di Santa Maria in Randazzo: le due epigrafi commemorative, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 2 febbraio 2014 (Articolo su sito web)
Militi A., Anima Templi in Sicilia, in “Siciliafan”, 22 febbraio 2014 (Articolo su sito web)
Militi A., Sant’Agata: storia di una chiesa scomparsa, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 15 agosto 2014 (Articolo su sito web)
“Una Randazzo segreta? Il racconto del passaggio dei cavalieri templari”, intervista a cura di Ornella Lodin pubblicata su “Nuove Pagine”, settembre 2014
2015
Militi A., Rocca Pizzicata (Roccella Valdemone, Me): un probabile sito protostorico di osservazione astronomica, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 16 gennaio 2015 (Articolo su sito web)
Militi A., Analisi archeoastronomica delle chiese di San Martino e San Vito a Randazzo, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 8 febbraio 2015 (Articolo su sito web)
Militi A., Il campanile della chiesa di San Martino a Randazzo, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 14 febbraio 2015 (Articolo su sito web)
Militi A., Un Giovanni molto femminile in un’opera del Gagini, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 23 febbraio 2015 (Articolo su sito web)
Militi A., Una “Ile de France” italiana, in “Luoghi Misteriosi”, 27 febbraio 2015 (Articolo su sito web)
Militi A., Una nuova proposta interpretativa sui resti architettonici di via Orto, in “Randazzo segreta” e “Academia”, 1 marzo 2015 (Articolo su sito web)
Maristella Dilettoso è nata e vive a Randazzo. Ha studiato a Randazzo, Bronte e Catania, dove ha conseguire la Laurea in Lettere Moderne nel 1976, discutendo la Tesi “Il fascino della distanza: due fiabe moderne presentate ai ragazzi”, relatore il Ch.mo Prof. Gino Corallo.
Dopo qualche breve esperienza di insegnamento, dal 1978 fino al 2011 ha diretto la Biblioteca civica della sua città. Tra i suoi interessi principali la pittura, la letteratura, il giornalismo, la storia e le tradizioni locali.
Nella pittura predilige il genere figurativo, i suoi soggetti sono paesaggi, nature morte, ma soprattutto angoli, monumenti e vie della sua città. Ha partecipato nel passato a diverse estemporanee e mostre collettive di pittura, aggiudicandosi un 1° posto (Maletto, 1980), ed altri riconoscimenti, ha tenuto una mostra personale a Bronte nel 1982; si è inoltre classificata al 1° posto nel Concorso indetto dal Comune di Maniace nel 1984 per il progetto dello stemma e del gonfalone.
Ha redatto il testo della Guida turistica Randazzo città d’arte nel 1994, e, assieme ad altri, il testo della Guida alla Città di Randazzo nel 2002. Ha pubblicato, assieme a don Cristoforo Bialowas, il volume Un beato che unisce : Randazzo e Montecerignone, nell’anno 2006, sulla vita e sul culto del beato Domenico Spadafora da Randazzo. Nel 2008 ha pubblicato il volume Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze siciliane: un viaggio nell’universo randazzese. Per questa pubblicazione le è stato conferito nel 2008 il “Premio Bianca Lancia” nel corso delle manifestazioni di Medievalia a Brolo (ME), e nel 2009 il premio speciale della giuria per la sezione “Libro edito – Saggio”, nel concorso “Poesia, prosa e arti figurative 2009” indetto dall’Accademia Internazionale Il Convivio.
Maristella Dilettoso
Come giornalista ha firmato, fino ad ora, oltre 400 articoli, su argomenti vari: d’opinione, di cronaca, cultura, costumi e tradizioni, biografie, interviste, racconti, recensioni letterarie, collaborando a diverse testate, quali il Gazzettino di Giarre, Il Sette, il bollettino del Comune di Randazzo, Randazzo notizie, Famiglia domenicana (periodico dell’O.P.), il giornale della Diocesi di Acireale La Voce dell’Jonio (anche nella versione online, ed alla rivista Il Convivio, suoi scritti sono apparsi sul Giornale di Sicilia, La voce dell’isola, e su Prospettive.
È stata relatrice in alcune presentazioni di libri, conferenze e tavole rotonde, come una conferenza per la sezione l’Unitre di Randazzo sul tema “Le leggende di Randazzo” (2006) e una tavola rotonda su “Federico De Roberto a Randazzo” per l’Associazione RIS (2014), collabora occasionalmente con emittenti locali, ha fatto spesso parte di giurie in occasione di concorsi artistici e letterari.
Titolo: Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze sicilane
Autore: Maristella Dilettoso
Descrizione – Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze sicilane
«… si può con sicurezza affermare che la Dilettoso ha raccolto, illustrato e confrontato il mondo variegato delle tradizioni randazzesi da lasciare ben poco ad altri da spigolare nel vastissimo campo.
E pur avendo sottolineato nella sua introduzione di aver voluto circoscrivere il suo studio all’ambiente randazzese … e considerata una così grande importanza storica della città, questo ricco patrimonio culturale, regalatoci dall’ardua fatica della Dilettoso, non può restare circoscritto ad un ambiente delimitato al quale ha peraltro intrecciato una splendida corona, ma ha diritto di superare i ristretti confini geografici, di essere conosciuto, studiato e di far parte del prezioso tesoro delle tradizioni popolari siciliane.
Di conseguenza, il volume merita di stare accanto alla produzione demologica dei grandi e meno grandi folkloristi dell’Isola, anche perché ricco di opportune annotazioni, con la finalità di agevolare l’intelligenza dei vocaboli e del senso della pregevole scelta dei proverbi.
E, inoltre, il volume mette in risalto una vasta erudizione, un’abilità non comune, una grande vivacità di fantasia, discernimento critico e un’arte singolare di descrivere della ricercatrice: proprio così, Maristella Dilettoso ha conservato uno dei più bei monumenti della nostra città e ha collocato un magnifico gioiello nel forziere nel quale vengono conservati i tesori della cultura popolare» (dalla Prefazione di Salvatore Agati).
L’Autore – Maristella Dilettoso
Maristella Dilettoso, nata a Randazzo nel 1951, laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Catania, dopo brevi esperienze di insegnamento, dal 1978 dirige la Biblioteca comunale della sua città.
Si è occupata di pittura e disegno, giornalista pubblicista, ha scritto articoli di cronaca, storia, arte, cultura locale, recensioni letterarie, collaborando a varie testate giornalistiche siciliane.
Ha pubblicato:
la Guida turistica ” Randazzo città d’arte” (1994), e con altri autori,
una Guida storico-turistica di Randazzo (2002)
la monografia: Un beato che unisce: Randazzo e Montecerignone (2006).
“Crocifisso della pioggia” di S. Martino, – Randazzo
La Parrocchia di San Martino in Randazzo celebra quest’anno il 475° anniversario della presenza del Crocifisso del Matinati, con un Anno Giubilare straordinario indetto da Papa Francesco.
Le celebrazioni del Giubileo, che si sono aperte il 13 settembre e si concluderanno il 20 settembre 2015 con una grande festa in onore del Crocifisso, si articoleranno per un anno intero attraverso celebrazioni parrocchiali, pellegrinaggi, concessioni di indulgenze, nel corso delle varie ricorrenze e festività previste dall’anno liturgico.
In apertura, la sera del sabato 13, per desiderio del parroco, padre Emanuele Nicotra, durante la Messa serale, è stato inaugurato un nuovo quadro, realizzato dall’artista Giuseppe Giuffrida e offerto alla chiesa di S. Martino da due parrocchiani che hanno preferito restare anonimi: l’opera si riferisce a un momento particolare dell’eruzione dell’Etna del marzo 1981 – quella che distrusse molte case e terreni del territorio di Randazzo, e minacciò seriamente l’abitato – e rappresenta S. Giuseppe, patrono della città, che intercede per la sua salvezza. La celebrazione eucaristica è stata presieduta dall’arciprete Domenico Massimino, parroco del Duomo di Giarre.
Domenica 14 settembre, sempre in S. Martino, è stato inaugurato ufficialmente l’anno giubilare per i 475 anni dall’arrivo del Crocifisso a Randazzo con una messa celebrata dal vescovo della Diocesi di Acireale Mons. Antonino Raspanti, e la partecipazione di tutto il clero della città. Nel corso della celebrazione il Vescovo ha consacrato il nuovo altare.
Vale la pena di ricordare brevemente, a questo punto, la leggenda cui è legato il “Crocifisso della pioggia” di S. Martino, chiamato comunemente dai randazzesi ‘u Signuri ‘i l’acqua: opera pregevole di uno dei Matinati, famiglia di “crocifissari” rinomata in tutta la Sicilia, probabilmente Giovanni Antonio, è una scultura dallo stile contenuto e dalle armoniche proporzioni.
Vuole la tradizione che, in una sera di settembre del 1540, alcuni uomini trasportavano il Crocifisso verso un paese dell’interno, cui era destinato; giunti a Randazzo, o perché sorpresi da un acquazzone, o semplicemente per il sopraggiungere delle tenebre, chiesero ricovero per il simulacro nella chiesa di San Martino.
All’indomani, venuto il momento di riprendere il viaggio, non appena giunti sulla porta della chiesa, un violento temporale li costrinse a rimandare la partenza, e così per tre giorni di seguito, finché, interpretando il prodigio come una manifesta volontà del Signore di rimanere a Randazzo, il clero della chiesa non ne formalizzò l’acquisto.
L’immagine, ritenuta miracolosa, è stata ne corso dei secoli oggetto di grande venerazione da parte dei randazzesi, che in passato, durante i periodi di siccità e carestia, si rivolgevano a lei per impetrare la pioggia, con digiuni, preghiere e processioni.
Maristella Dilettoso
Randazzo / Riconoscimento filiale per mons. Mancini. A dieci anni dalla morte, il Comune gli dedica una piazza.
Lo scorso 29 aprile 2016 , giorno del 10° anniversario della scomparsa di mons. Vincenzo Mancini, la città di Randazzo ha voluto dedicargli una piazza con una cerimonia che ha visto la partecipazione di autorità religiose, civili, militari, parrocchiani e numerosi altri cittadini. Mons. Vincenzo Mancini era nato a Randazzo il 26 agosto 1921. Seguendo una vocazione manifestatasi fin dall’infanzia, ricevette l’Ordine Sacro il 4 marzo 1944, dopo gli studi compiuti presso il Seminario vescovile di Acireale.
Erano gli anni tristi della guerra (solo pochi mesi prima il fratello maggiore, Alessandro, era perito in mare durante l’affondamento della corazzata Roma), Randazzo non si era ancora completamente destata dall’incubo dei bombardamenti e dell’invasione, dovunque vi erano macerie, lutti, fame e distruzione, e il clero dovette molto impegnarsi a dare assistenza e sostegno. Fin dall’inizio del suo ministero, il neo sacerdote fu assegnato alla Basilica di S. Maria, e da allora la sua vita è rimasta legata strettamente, inscindibilmente, a questa chiesa, uno splendido tempio che affonda le sue origini nella leggenda, che si è arricchito nei secoli di tante opere d’arte, grazie anche al mecenatismo degli arcipreti che vi si sono succeduti, che ha accolto la comunità randazzese nei momenti più luminosi come in quelli più bui, superando, magnifica e indenne, terremoti, eruzioni e guerre.
Di questa chiesa mons. Vincenzo Mancini è stato, per ben 62 anni, custode e guida, dal 1° dicembre 1966, quando ne divenne arciprete e parroco, succedendo a mons. Giovanni Birelli. La successiva nomina di vicario foraneo, da parte del vescovo di Acireale, gli conferiva un ruolo pastorale, oltre che giuridico e amministrativo, che si estendeva ben oltre i confini della parrocchia e della città di Randazzo, comprendendo anche Linguaglossa e Castiglione di Sicilia, ruolo di grande importanza, che lo promuoveva tra i più vicini collaboratori del vescovo, e che mons. Mancini ha svolto sempre con grande dignità e competenza, grazie a quella prudenza e innata saggezza, diplomazia, capacità di mediazione e autorevolezza, che lo hanno sempre contraddistinto. Il suo impegno non restò circoscritto all’attività parrocchiale, ma si era esteso anche al mondo della scuola, con l’insegnamento presso il liceo classico “Don Cavina”, e all’assistenza agli anziani, perseguita e realizzata particolarmente attraverso la casa di riposo “Paolo Vagliasindi del Castello”.
L’istituzione, fondata nel 1929, e in un primo tempo aggregata all’ospedale civile, dal 1964 collocata in una struttura autonoma e dignitosa, lo ebbe nel 1956 commissario prefettizio, e dopo alcuni mesi presidente, carica, questa, che padre Mancini ricoprì, salvo brevi interruzioni, fino alla fine, e nella quale investì energie e impegno, promuovendo ampliamenti e ristrutturazioni dell’edificio, al fine di assicurare una vecchiaia e un’assistenza dignitosa e adeguata a tanti anziani di Randazzo e del circondario. Rimase attivo e presente nella vita parrocchiale, anche quando il fardello dell’età e degli acciacchi aveva cominciato a rallentare il suo passo, e nonostante il peso dei gravi lutti familiari che gli era toccato di affrontare negli ultimi anni. Si spense a 84 anni, il 29 aprile 2006.
L’Amministrazione comunale di Randazzo, considerato lo spessore del sacerdote e dell’uomo, e quanto mons. Mancini sia stato, nel corso del suo lungo mandato, un punto di riferimento, per tanti giovani, adesso cresciuti, per tanti anziani, per il clero locale, per la comunità parrocchiale e per la città tutta di Randazzo, con deliberazione di Giunta. n. 19 del 19.02.2016, stabiliva di dedicargli un’area cittadina. La manifestazione del 29 aprile scorso, iniziata con una concelebrazione nella Basilica di S. Maria, presieduta dal vescovo della Diocesi di Acireale, mons. Antonino Raspanti, con la partecipazione dell’arciprete don Domenico Massimino e degli esponenti del clero di Randazzo, è proseguita con l’intitolazione dello spiazzo antistante il lato nord della chiesa e la sacrestia (‘a Tribonia), che si affaccia sul fiume Alcantara, e che da oggi, a ricordo di chi in quei luoghi ha operato per lunghi anni, si chiamerà “Largo mons. Vincenzo Mancini”.
| La Voce dell’Jonio 4 maggio 2016 – Maristella Dilettoso
La basilica di Santa Maria è la più famosa di Randazzo, e ha sempre costituito un’attrazione per turisti e visitatori. Interamente costruita in pietra lavica, la sua origine si perde nella leggenda. L’edificio, per come lo vediamo oggi, è il risutato di diverse fasi costruttive, fuse armonicamente. La parte absidale, la più antica, risale al XIII secolo. All’esterno la costruzione è realizzata in blocchi squadrati di nero basalto, che non lasciano intravedere la malta tra le connessure. Oltre alle tre absidi merlate, dove si può vedere lo stemma di Randazzo, il leone rampante su uno scudo di marmo bianco, molto interessanti i due portali della facciata nord e sud, il campanile neogotico, costruito al centro della facciata nella seconda metà del XIX sec. sullo schema di quello originario, con tre ordini di finestre bifore e trifore, che alterna pietre bianche e nere, crendo con la sua bicromia un insieme artistico armonioso e suggestivo. All’interno, una fuga di colonne in pietra lavica, alcune delle quali monolitiche, numerosi dipinti e oggetti preziosi.
Ricordiamo la Madonna di Pietro Vanni (1886) sull’altare maggiore, l’affresco con la Madonna del Pileri, sulla porta nord, legato alle leggendarie origini della chiesa, 6 tele del palermitno Giuseppe Velasco (sec. XIX), tra cui spiccano un’Annunciazione e il Martirio di S. Andrea, la Crocifissione del fiammingo Van Houmbracken (sec. XVII), la tavoletta di Girolamo Alibrandi sec. XVI) con La Madonna che salva Randazzo dalla lava, il Martirio di S. Lorenzo e di S. Agata, entrambi di Onofrio Gabrieli e il Martirio di S. Sebastiano di Daniele Monteleone, tutti del sec. XVII, la Pentecoste (sec. XVI), la tavola di Giovanni Caniglia (1548) cui s’ispira la Vara, il Battesimo di Gesù del randazzese F. Paolo Finocchiaro (1894), e un Crocifisso scolpito da frate Umile da Petralia.
Il Salesiano don Salvatore Calogero Virzì, una tra le figure di più alta levatura nel panorama della cultura siciliana del XX secolo, per Randazzo e per tanti randazzesi è stato molto di più, un pioniere, una guida, uno stimolo, colui che ha acceso in loro il gusto, spesso sopito, della conoscenza e dell’amore verso il proprio paese.
Maristella Dilettoso – Randazzo
Don Calogero Virzì – Randazzo
Nato a Cesarò (ME) l’11 gennaio 1910, compì i primi studi nel paese natale, per frequentare poi il Ginnasio all’Istituto S. Francesco di Sales di Catania. Nel 1925 entrò nella Congregazione dei figli di Don Bosco, fu poi al S. Gregorio di Catania, all’Istituto D. Bosco di Palermo, come assistente dei convittori, e quindi al S. Domenico Savio di Messina, dove, nel 1934, fu ordinato sacerdote.Tornato a Catania, al S. Francesco di Sales, frequentò l’Università e nel 1937 conseguì la Laurea in Lettere Classiche presso l’Ateneo Catanese. Quello stesso anno fu trasferito a Randazzo, all’Istituto S. Basilio. E fu amore a prima vista, verso la cittadina piena allora, ad ogni passo, delle vestigia dell’arte del passato, inalterata nel suo assetto medievale, ma fu anche di breve durata: di lì a poco, nel 1943, in un solo, terribile mese di fuoco, dal 13 luglio al 13 agosto, quasi l’80% di quell’ingente patrimonio artistico sarebbe finito in un cumulo di macerie e di fumo. Nell’introduzione al bellissimo volume sulla Chiesa di S. Maria (1984) “espressione di attaccamento a quella città che mi ospita da 40 e più anni, e di amore a questo suo monumento d’arte”, don Virzì ricorda: “venendo a Randazzo mi trovai in un ambiente consono al mio spirito… fu un dolce sogno per me… che purtroppo ben poco avrebbe potuto durare. Ho perduto…tutto, rimanendo con solo ciò che avevo addosso e col rimpianto della distruzione di tutto quello che era stato il sogno più bello della mia vita… Ed io, pellegrino doloroso, mi immersi in mezzo a questa rovina, cercando il passaggio tra i mucchi di macerie…ma ogni cosa gridava il suo dolore e il suo strazio”. Trascorso quel primo, drammatico momento, in cui il sacerdote prestò la sua opera di soccorso, ad una popolazione troppo duramente provata, don Virzì avrebbe voluto salvaguardare il centro storico da interventi tempestivi quanto inopportuni, infatti l’urgenza di ricostruire, di ridare una casa ai troppi senza tetto, finì per arrecare danni irreversibili ai monumenti e agli edifici superstiti. Di fatto, prevalsero allora le esigenze più concrete, e non possiamo oggi emettere verdetti col senno di poi, tanto più che, per farlo obiettivamente, dovremmo avere innanzi il quadro desolante che si ritrovarono i cittadini all’indomani dei bombardamenti, rivivere il loro stato d’animo, il dolore, la miseria, la fretta di riavere un tetto…
In un clima così poco adatto, per motivi storici e contingenti, a far sviluppare una lungimirante e scientifica cultura del restauro, a don Virzì non rimaneva che vigilare affinché, nell’ansia della ricostruzione, il patrimonio artistico di Randazzo non ne fosse stravolto. AlCollegio S. Basilio, dove fino a qualche decennio fa confluirono giovani provenienti da ogni parte della Sicilia, ricoprì, per moltissimi anni, il ruolo di docente nel biennio del Ginnasio, conferendo all’insegnamento impartito un’impronta indelebile. Da seguace di don Bosco, infatti, nutrì sempre un’attenzione particolare verso i giovani, indirizzandoli ai valori della bellezza e dell’immortalità. I suoi allievi d’un tempo, sparsi per ogni versante della Sicilia, ne serbano tuttora un ricordo riverente e affettuoso. Non soltanto uno studioso, ma anche un grande educatore, nel senso più lato del termine: fu proprio attraverso la scuola che riuscì a instillare nei giovani l’amore e la conoscenza del proprio paese.
Sempre al S. Basilio fu, fino all’anno della morte, direttore e curatore della pregevole Biblioteca del Collegio. Quando, nel 1971, venne istituito il Liceo Statale a Randazzo, fu chiamato a ricoprirvi il ruolo di docente di Storia dell’Arte. Conferenziere, professore, studioso, don Virzì ebbe nella comunità randazzese un ruolo culturale attivissimo, che proiettò anche all’esterno: fu socio fondatore e membro combattivo della Pro Loco, dell’Associazione di Storia Patria Vecchia Randazzo, e della sua filiazione Arte S. Bartolomeo,Ispettore Onorario della Soprintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, Istruttore in corsi per guide turistiche, Consulente esterno nella Commissione igienico-edilizia comunale, in qualità di esperto, senza tralasciare per questo l’impegno scolastico e sacerdotale. Fu assistente spirituale degli ex-allievi del S. Basilio, e gli si attribuivano doti di eccellente confessore.
Nel 1979 gli era stata conferita dal Comune di Randazzo, dall’allora sindaco Francesco Rubbino, la Cittadinanza Onoraria, atto questo che veniva a sancire, formalmente, quella che era già una realtà sostanziale, perché don Virzì era, di fatto, profondamente inserito nel tessuto sociale randazzese, ne aveva assimilato la cultura e il sentire, coltivava amicizie tanto nell’ambiente ecclesiastico che in quello laico.
Per l’occasione fu pubblicato il volume bio-bibliografico “Una vita dedicata a Randazzo: Salvatore Calogero Virzì e le sue opere”, curato dal prof. Salvatore Agati. Quanto don Virzì avesse apprezzato, e forse atteso negli anni, quel gesto, lo comprendemmo tempo dopo, entrando nel suo studio, al Collegio S. Basilio, una cameretta stipata fino all’inverosimile di carte, documenti, scaffali traboccanti di libri, pareti tappezzate di stampe, cimeli artistici e riconoscimenti, dove campeggiava la pergamena consegnatagli nel 1979 per il conferimento della cittadinanza onoraria. Nel 1984 la stessa comunità randazzese si riunì numerosa per celebrare, nella basilica di S. Maria, alla presenza del Vescovo Mons. Malandrino, il 50° dalla sua ordinazione sacerdotale.
Morì in silenzio e improvvisamente, il 21 novembre 1986
. A un anno dalla scomparsa, gli fu intitolata la Biblioteca Comunale di Randazzo, quasi a voler rappresentare l’attualità e la continuità del suo messaggio culturale anche tra le generazioni future. Per l’occasione nell’atrio dell’edificio fu collocato un suo busto in bronzo, realizzato dallo scultore Nunzio Trazzera. Dalla mole degli scritti di don Virzì – molti dei quali non ebbero, pur meritandola, la sorte di essere dati alle stampe – promana serietà, impegno, dedizione, entusiasmo ed amore per la ricerca ed il sapere, quali traspaiono forse solo dalle pagine di un altro illustre studioso e cultore del bello, il suo amico e sodàle professore Enzo Maganuco, meritevole anch’egli di avere fatto conoscere ed apprezzare l’arte randazzese. Quegli scritti sempre attuali, letti, consultati, citati continuamente, costituiscono una pietra miliare per chiunque si accosti alla conoscenza di Randazzo, e il fatto che il suo messaggio cresca e perduri nel tempo, l’avrebbe reso certamente felice e consapevole di non avere lavorato invano. “Apostolo all’interno e all’esterno di Randazzo affinché la città possa di nuovo assurgere alla dignità che le compete”fu definito don Virzì, e anche se un giorno dovessero venire alla luce nuove fonti, nuove scoperte atte a mettere in chiaro i tanti punti oscuri del passato di Randazzo, nessuno potrà mai rifiutarsi di riconoscergli obiettività di storico, equilibrio, cautela nell’esaminare e vagliare le notizie, nel porre le fonti nella giusta luce, nel non emettere mai giudizi o conclusioni che non fossero suffragati da riscontri certi e incontrovertibili. “A lui vada il pensiero delle nuove generazioni, aperto finalmente a questi problemi. Vada la riconoscenza di tutti i suoi abitanti che, in questo fortunato risveglio ai valori più apprezzabili della nostra cittadina, è giusto che esternino il loro riconoscimento verso coloro che operarono, apprezzarono e fecero apprezzare ciò che di bello e singolare i padri ci hanno tramandato”. Con queste parole don Virzì chiudeva un articolo dedicato al professore Maganuco. Eppure, profeticamente, erano parole che si potrebbero applicare alla sua persona!,
Il giudice Sebastiano Virzì fratello di Don Virzì.
Certo, nella sua azione di “nume tutelare” del patrimonio storico-artistico di Randazzo, don Salvatore Calogero Virzì dovette imbattersi in non poche incomprensioni, del resto un certo tipo di edilizia che andò diffondendosi, spesso spregiudicatamente, dagli anni ’60 in poi, come poteva conciliarsi con la patina che il tempo aveva impresso sulla pietra lavica, con quella visione di austera bellezza di una Randazzo anteguerra, che gli era rimasta impressa negli occhi e nel cuore? “La creatività avvalorata dall’amore del soggetto è sempre prolifica…”ebbe a dire, in una sua pagina che ci è particolarmente cara, e, considerando la mole dei suoi scritti, se ne deduce un grande amore verso Randazzo, suo paese d’adozione, ch’egli, da forestiero, riuscì ad amare come fosse stato la sua patria, e che auspicava “semper virens, semper accrescens, semper vigens” (sempre rigogliosa, sempre in crescita, sempre piena di vita), come recita l’iscrizione sul basamento del Piracmone. Randazzo con la sua storia affascinante di re e regine, Randazzo nei suoi monumenti muti, di nera lava, cui egli seppe infondere voce, Randazzo nelle sue tradizioni cristallizzate da secoli, nelle sue ataviche rivalità dei tre quartieri in lotta, Randazzo nella sua gente di ogni estrazione sociale, dei pochi acculturati del tempo, che gli dispiegavano innanzi i vecchi libri ed i tesori d’arte custoditi nei palazzi, delle vecchiette, dei poeti estemporanei, dei monelli, dalla cui viva voce apprendeva, per tesaurizzarli, vecchi scioglilingua, proverbi, scongiuri e preghiere… Randazzo, infine, lacerata, bombardata 84 volte, in quell’estate del 1943, prostrata davanti alle proprie macerie e davanti ai propri morti. Ma, da quel terribile momento, molte cose si sono evolute.
Il patrimonio perduto non si può più riacquistare, tanti recuperi e restauri non furono curati con lo scrupolo dovuto, è vero, ma don Virzì ha seminato bene, e se oggi c’è un maggiore rispetto ed interesse verso i beni artistici e monumentali, è soprattutto merito suo, di quest’uomo dalla grande vitalità, dalla grande fermezza, e dall’immensa cultura, che, nulla togliendo ai suoi meriti di sacerdote e di professore, riuscì a risvegliare nei cittadini randazzesi il culto e l’interesse per il proprio patrimonio artistico e per le proprie radici, di averli fatti conoscere un po’ meglio, di avere gettato il seme dell’amore per la propria terra nelle nuove generazioni.
Gli scritti di Don Virzì Oltre a numerosissimi articoli su periodici locali e nazionali (La Sicilia, il bollettino del Comune Randazzo Notizie , ecc. ) molti furono gli scritti lasciati, editi e inediti: – Memorie storiche del Collegio S. Basilio di Randazzo (inedito, 1953) – Randazzo e le sue opere d’arte (dattiloscritto inedito del 1956), – Paesi di Sicilia: Randazzo (Palermo: IBIS, 1965). Su Memorie e rendiconti dell’Accademia Zelantea di Acireale ha pubblicato: – Il regio Castello di Randazzo (1968), – Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto 1860 in Randazzo (1968), – Randazzo 1848 (1980). E ancora: – Storia della Città di Randazzo (1972), manuale divulgativo per le scuole, – Breve guida attraverso i monumenti artistici della città di Randazzo…(1973), – Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi (inedito, 1960), – La Chiesa di S. Maria, su Historica (Reggio Calabria, 1971). Ha dato inoltre alle stampe le guide illustrate: – Alcantara (1975), – Etna (1978), – Taormina (1979), – Cesarò. Per il 21° Distretto scolastico ha collaborato a – Un itinerario etneo (1983), – Storia, Arte e folklore in Randazzo, Castiglione e Linguaglossa (1985), e curato – Randazzo nei suoi costumi (1986), – Randazzo e le sue opere d’arte, 2 v. usciti postumi (1987/89). Ricordiamo ancora: – I cento anni del Collegio S.Basilio (1979), – La Chiesa di S. Maria edito dal Comune di Randazzo (1984), – Il Castello della Ducea di Maniace, pubblicato postumo nel 1992.
La “Batiazza” di Francavilla tra fede, storia e leggenda pubblicato il 06 ottobre 2015
Salvatore Ferruccio Puglisi e Don Virzì
Sarà il tema dell’originale pubblicazione, di imminente uscita, “Il Salto di San Crimo”, nella quale l’autore Salvatore Ferruccio Puglisi raccoglie gli approfonditi studi rimasti inediti di Don Salvatore Virzì sul monastero basiliano e sul suo fondatore Cremete. Partendo dal… Giro d’Italia del 1954, una cui tappa attraversò il Comune dell’Alcantara.
Seconda incursione nella narrativa per Salvatore Ferruccio Puglisi, insegnante nativo di Francavilla di Sicilia, ma residente in Veneto per lavoro: ambientalista (è stato fondatore e presidente della sezione francavillese di “Italia Nostra”), naturalista, appassionato di fotografia, autore di documentari in diapositive, campione di corsa podistica e da alcuni anni anche scrittore. Puglisi aveva già avuto a che fare con l’editoria, inizialmente dando alle stampe delle pubblicazioni riguardanti rispettivamente la flora spontanea e le testimonianze preistoriche nel territorio della Valle dell’Alcantara per poi, cinque anni fa, cimentarsi nel genere del romanzo con “Gli zucchini di Loto”. Adesso è lui stesso a preannunciarci l’imminente uscita del suo secondo lavoro letterario, dove gli aspetti autobiografici si innestano nella ricerca storica.
“Il Salto di San Crimo” sarà il titolo della nuova opera di Puglisi, interamente incentrata sul “leggendario” monastero basiliano comunemente denominato “Batiazza” (ossia “grande abbazia”) i cui ruderi (parti di pareti perimetrali, alcune strutture ad arco attestanti l’esistenza di un opificio per la vinificazione, una grande aia inamovibile, una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, qualche tomba rupestre e tanti mucchi di macerie indistinte) svettano sulla sommità di un’altura dalla strana forma cilindrica e con pareti a strapiombo ubicata nel territorio del Comune natio dell’autore, ossia Francavilla, a meno di quattro chilometri dal centro abitato nelle adiacenze della strada che conduce a Mojo Alcantara e Novara di Sicilia.
Per quanto ci riguarda, abbiamo avuto il privilegio di leggere in anteprima il prologo di Salvatore Ferruccio Puglisi a tale suo scritto e ci ha già incuriosito l’originale approccio dell’autore alla tematica trattata: fatti e personaggi “austeri” dell’età medievale vengono, infatti, introdotti dal nostalgico “amarcord” di un evento per così dire “effimero”, ossia il passaggio da Francavilla della… seconda tappa del Giro d’Italia nella memorabile giornata del 22 maggio 1954, quando il Puglisi era ancora un fanciullino di sei anni. L’autore attinge, dunque, alla suggestiva tecnica del “flashback”, spesso impiegata nel cinema e consistente nel partire da situazioni contemporanee per poi proiettarsi a ritroso nel tempo.
Nel caso di specie, a fare da “ponte” tra passato recente e passato remoto è proprio quello “storico” pomeriggio del ’54, quando ai francavillesi festanti per il passaggio dal proprio paese della popolarissima competizione ciclistica nazionale si contrapponeva contemporaneamente l’esperienza parallela, ma profondamente diversa, di un intellettuale che in quello stesso giorno decideva di recarsi, in tutta solitudine, in escursione alla volta della maestosa rocca della “Batiazza” per tentare di carpirne i misteri, ma finendo col rimanere piuttosto infastidito dalla chiassosa e strombazzante carovana del Giro che, prima di addentrarsi nel centro abitato di Francavilla, transitò ai piedi dell’altura su cui a tutt’oggi si ergono i resti dell’antico cenobio.
Lo studioso in questione altri non era che l’illustre sacerdote salesiano Don Salvatore Calogero Virzì, docente di materie letterarie al Collegio “San Basilio” di Randazzo, con il quale Salvatore Ferruccio Puglisi si sarebbe incontrato otto anni dopo essendone stato allievo in quinta ginnasiale presso il collegio del Comune etneo, che a sua volta, prima che nel 1867 gli ordini religiosi venissero soppressi, aveva fatto da nuova sede dei monaci basiliani, probabilmente trasferitisi dalla “Batiazza” perché andata in rovina (anche a seguito del disastroso terremoto verificatosi sul finire del XVII secolo) o a causa del clima rigido e delle avversità atmosferiche che, durante i mesi autunnali ed invernali, rendevano pressoché invivibile quel particolare lembo sopraelevato di territorio francavillese.
«Il compianto Don Virzì – spiega Salvatore Ferruccio Puglisi – ha condotto un’accurata ricerca sul monachesimo basiliano e su San Cremete, fondatore e primo abate dell’eremo di Francavilla, intitolato a San Salvatore della Placa. Al sottoscritto e ad altri allievi che venivamo dal Comune dell’Alcantara, amava parlarci spesso di Cremete.
«Ci raccontava, in particolare, che “nella seconda metà del secolo XI, sui monti di Placa viveva questo santo eremita, attorniato da vari animali selvatici che lui era riuscito ad addomesticare. Un giorno, accompagnato dalle sue docili bestie, si presentò al Conte Ruggero, che con il suo esercito si recava a Troina per combattere contro i Mori, il quale rimase affascinato dalla figura di quel mistico. Così, salito con lui sulla sommità della rocca, gli concesse di erigere in quel posto un monastero di cui Cremete diventò l’abate ed il superiore degli altri suoi confratelli.
«Ma un giorno alcuni monaci non vollero più ubbidire alla sua regola basiliana e pensarono di liberarsi di lui buttandolo giù dalla rocca. Ciò malgrado, Cremete sarebbe rimasto miracolosamente illeso (morì poi il 6 agosto del 1116) e, da quel momento, cominciò ad essere considerato un santo”.
«Da qui – prosegue l’autore – il titolo di questo mio nuovo scritto (“
Collegio San Basilio – Randazzo
Il Salto di San Crimo”), che peraltro è un’espressione già usata da Antonio Filoteo degli Omodei, storico di Castiglione di Sicilia del 1500.
«Purtroppo Don Virzì, deceduto nel 1986 all’età di settantasei anni, non fece in tempo a pubblicare questo suo studio su San Cremete ed i basiliani, di cui resta solo una semplice bozza dattiloscritta. Mi sono quindi prodigato per avere una copia di essa e, con mia grandissima sorpresa, in quei fogli ho rinvenuto anche un intero paragrafo dedicato alla descrizione della visita fatta dal religioso ai ruderi del monastero il 22 maggio del 1954 quando io, ancora scolaretto di prima elementare, ero invece tutto preso, così come l’intera popolazione francavillese, dal passaggio del Giro d’Italia.
«“Il Salto di San Crimo” l’ho dunque articolato in due parti: la prima riguarda il mio personale ricordo di quel pezzo di storia sportiva nazionale transitata da Francavilla, mentre nella seconda ho integralmente riportato quanto scritto dal prete salesiano su quella stessa giornata, da lui vissuta in un contesto totalmente diverso da quello di noi “gente comune”».
Mentre oggi Salvatore Ferruccio Puglisi si occupa della “Batiazza” di Francavilla dal punto di vista storico-letterario, in passato se ne è occupato da ambientalista per denunciare, in particolare, l’inopportuna installazione di freddi ed antiestetici tralicci dell’alta tensione nelle immediate adiacenze di quell’angolo di antichità.
Tornando a “Il Salto di San Crimo”, sarà questa la seconda pubblicazione interamente dedicata all’anacoreta francavillese ed alla sua “Batiazza”. Nel 2004, infatti, lo scultore Mario Restifo, anche lui originario della cittadina dell’Alcantara, si cimentò nella narrativa con il romanzo “Il Nido dell’Aquila”, ispirato alle vicende mistico-leggendarie di San Cremete, i cui resti del capo sono conservati in un reliquario di bronzo dorato ed argento custodito nella basilica di Santa Maria a Randazzo.
Rodolfo Amodeo
UNA VITA DEDICATA A RANDAZZO di Salvatore Agati
Salvatore Agati – Randazzo
Intorno alle ore 20:00 di venerdì 21 novembre si spegneva, sicuramente senza neppure accorgersene, al San Basilio di Randazzo, la casa salesiana più antica di Sicilia, il sacerdote professore Salvatore Calogero Virzì, dopo una vita interamente dedicata alla sua missione sacerdotale, alla cura dei giovani e al loro insegnamento, allo studio e alla ricerca storico storico-artistica.
E tutto questo egli seppe portare avanti con scrupolo, competenza e modestia, cosa oltremodo difficile da riscontrare nei tempi che viviamo. Il nostro era nato a Cesarò, un paesino sui Nebrodi in provincia di Messina, da famiglia onesta e laboriosa, l’undici gennaio del 1910. Dopo avere ricevuto i primi insegnamenti nel luogo natio, lasciava la casa Paterna per frequentare le scuole ginnasiali al San Francesco di Sales di Catania.
A contatto con i Padri Salesiani coltivò e seguì la sua vocazione che lo avrebbero portato ad entrare definitivamente nella congregazione dei figli di Don Bosco nell’anno 1925.
Lo troviamo, subito dopo, a San Gregorio di Catania poi al San Paolo di Palermo e successivamente al San Domenico Savio di Messina dove, nel 1934, riceveva gli ordini sacerdotali. Il giovane sacerdote, nello stesso anno dell’ordinazione, ritornava ancora a San Francesco di Sales di Catania. Ed era nell’Ateneo di questa città che aveva modo di continuare i suoi studi alla Facoltà di Lettere Classiche. Appena conseguita la laurea, era il 1937, veniva trasferito a Randazzo, l’antica cittadina che tanto lustro aveva avuto nel Medioevo, dove avrebbe avuto modo di rafforzare non solo le sue attitudini all’insegnamento, ma anche la sua passione per la storia e l’arte, a contatto con un immenso patrimonio, di cui diverrà negli anni, il conoscitore più profondo e qualificato. In questo suo slancio e attaccamento troviamo il significato della sua ininterrotta presenza a Randazzo, dove rimase per il resto della sua vita. Da persona sensibile alla cultura classica e all’arte in particolare, dove si rimane incantato della vecchia città medievale che, sebbene già scalfita dal tempo ma ancora integra nell’originaria bellezza, gli offre un insieme architettonicamente omogeneo nelle mura di cinta e nelle torri di guardia, nelle chiese e nei campanili, nei palazzi e nelle case, nelle vie e nei vicoli, nelle piazze e negli slarghi, negli elementi decorativi e nei colori. Se a tutto questo si aggiungono ancora l’impareggiabile oreficeria, le ricche e originali suppellettili sacre, le magnifiche tele e pale pittorica, le pregevoli e maestose sculture, patrimonio di una gara esaltante tra la popolazione, che nei tre quartieri ritrovava nelle rispettive chiese di Santa Maria, Santa Nicola e San Martino il fulcro di ogni alterità partecipativa, si capisce subito come l’incanto del primo contatto si sia trasformato in un ardente desiderio di ricerca attenta e di studio meticoloso, volto a svelarne ogni particolare storico ed artistico.
Se i ricordi di una lunga collaborazione tra un maestro e un discepolo possono diventare testimonianza e messaggio, posso affermare che l’amore di Don Virzì per Randazzo nacque dalla consapevolezza scientifica che la città rappresentasse uno “scrigno di tesori” da custodire gelosamente per una migliore conoscenza di tutto ciò che i siciliani erano riusciti, sui tanti influssi portati dall’esterno, a realizzare attraverso un proprio ed originale processo creativo: Randazzo, per gli aspetti di presenza e di continuità nei tanti filoni dell’arte, rappresentava per don Virzì la più significativa chiave di lettura per comprendere l’insopprimibile bisogno espressivo del popolo siciliano. Non aveva Don Virzì, del tutto penetrato le pieghe del complesso patrimonio artistico dell’antica città medievale del valdemone, quando sopraggiunsero i terribili giorni del luglio-agosto 1943. Infatti, nel tentativo di forzare la ritirata dei tedeschi, attestatisi sull’Alcantara lungo il confine tra la provincia di Catania e quella di Messina, gli anglo-americani misero in atto una serie di incursioni aeree e di bombardamenti che rasero al suolo Randazzo. Nei giorni che seguirono, il giovane sacerdote mentre da un lato si prodigava a portare aiuto e sollievo alla provata popolazione, dall’altro non trascurava di annotare le distruzioni e le mutilazioni che l’insieme architettonico e artistico della città avevano subito. Va ricordato che don Virzì fu tra i pochi a sostenere che la municipalità randazzese avrebbe dovuto richiedere al governo centrale la costruzione di una città nuova, da erigersi in continuità con il centro storico, anch’esso da ricostruire e restaurare. Ciò avrebbe evitato l’obbligatorio intervento del privato che, da solo, non avrebbe assolutamente potuto salvare l’antico.
Difatti così avvenne, per cui alla distruzione della guerra seguì quella di una ricostruzione affrettata e disordinata, ma comunque necessaria. Il guasto si verificò sia sul fronte della salvaguardia che su quello, non meno importante delle legittime aspettative per avere un’abitazione dignitosa e adeguata ai tempi. Se vogliamo, su questa primaria esigenza, si pose, subito dopo, il doloroso esodo migratorio. Questa sua visione, va chiarito, non era assolutamente limitativa, quasi che lo studioso volesse mummificare il centro storico escludendolo da ogni attività futura, così come non intendeva certo alla ricostruzione di una città nuova avulsa dal suo contesto. Queste idee erano belle lontane dalla mente lucida e competente di Don Virzì.
Lo scopo, invece, era duplice: dare un’abitazione immediata alla popolazione, secondo l’urgenza, legata alle necessità di sopravvivenza che il momento richiedeva, salvaguardando il centro storico da una ricostruzione frettolosa, non per paralizzarlo, ma per attuarla in una fase successiva, secondo un programma ben definito di restauro e di conservazione degli elementi architettonici, stilistici ed estetici, per realizzare un complesso cittadino armonico, ordinato ed omogeneo, di cui il centro storico stesso avrebbe dovuto essere il fulcro. La linea di azione di Don Virzì, da quel momento in poi, non poté indirizzarsi, di conseguenza, se non verso una mediazione tra i bisogni della gente e le aspirazioni dell’uomo di cultura convinto che si dovessero conservare tutte le testimonianze del passato. Il fatto di non essere riuscito a fare capire il senso della sua azione gli provocò il dolore più grande della sua vita.
Tuttavia, va precisato che mentre sarebbe riuscito a comprendere e giustificare gli interventi di ricostruzione dettati da necessità, non avrebbe invece mai scusato la mancanza di volontà e di comprensione della classe dirigente nel non aver saputo porre il problema della Ricostruzione nei termini in cui andava condotto. Nello stesso periodo in cui maturarono questi avvenimenti, Don Virzì penso bene di dovere rivolgere la sua azione educativa verso i giovani.
E la frequentatissima scuola dei Salesiani gliene diede larga occasione. Ecco, quindi, i due filoni lungo e quali l’azione dello studioso si indirizzo: la ricerca e lo studio, da una parte, e la divulgazione dall’altra. Capì, altresì, che le sorti del patrimonio storico-artistico di Randazzo non sarebbero passate solo attraverso l’azione municipale, ma principalmente attraverso la sensibilizzazione degli uomini di cultura presenti a tutti i livelli.
E in questo la sua lezione fu senz’altro più incisiva e proficua: la città divenne punto di riferimento di quanti, ed erano pochi, continuarono a credere che la conservazione del patrimonio dei progenitori sarebbe stata di valido aiuto anche al risveglio dell’attività turistica. Ed è così che si concretizza la sua azione permanente di educazione, di sensibilizzazione e di divulgazione alla quale si dedica con impegno, passione e costanza: conferenze, dibattiti, articoli su giornali e riviste, tutto tende ad approfondire e a far conoscere Randazzo.
Nella città,come ebbe modo di affermare durante una conferenza, egli vedeva la “chiave della Sicilia sia per la storia che per l’arte”. Fu un conferenziere dalle qualità espressive stringate ma complete nell’essenzialità.
Il suo disquisire fu tanto interessante da fare perdere la dimensione temporale all’auditorium, il linguaggio usato nelle descrizioni tecnico e semplice, fu proprio di chi conosce la storia dell’arte in ogni sfumatura. Da corrispondente di molti giornali, con i suoi articoli, pubblicati su quotidiani e periodici a diffusione nazionale, riuscì a suscitare tale interesse nei lettori, anche stranieri, da indurli a visitare Randazzo per verificare se quell’atmosfera di suggestione che, con i suoi scritti, aveva saputo creare sulla cittadina, aveva riscontri con il reale. Ma la sua opera non si fermò solo alle conferenze e agli articoli. Pur privo di mezzi, ma non di volontà, andò oltre: animò l’istituzione della Pro Loco, fondò l’associazione di Storia Patria “Vecchia Randazzo”, divenne ispettore onorario della Sovrintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, istituì e tenne personalmente dei corsi per guide turistiche randazzesi. Ma il frutto più significativo e proficuo della sua attività sono le opere edite ed inedite. Ed è citandole che sono certo di rendere il miglior omaggio alla memoria dell’uomo, dello studioso, del sacerdote, del ricercatore attento che, con molta umiltà, mise il suo ingegno e la sua opera al servizio di Randazzo: “Randazzo e le sue opere d’arte” del 1956, “Randazzo” del 1965, “Il R. Castello di Randazzo” del 1968, “Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto del 1860 a Randazzo” del 1968, “Storia della città di Randazzo” del 1972, “Breve guida attraverso i monumenti artistici della Città di Randazzo”del 1973, “Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi” del 1975, “Alcantara” del 1975, “Taormina” del 1979, “Randazzo 1848” del 1980, “Un itinerario etneo” del 1983, “La Chiesa di S. Maria di Randazzo”del 1984. In ultimo, non si può non sottolineare un altro aspetto importante della personalità di don Virzì, cioè quello di educatore, che pose l’insegnamento a base del suo quotidiano lavoro. In più di 50 anni di cattedra, curò i rapporti con le tante generazioni in modo personalizzato, tanto che in Lui gli allievi videro sempre non solo il docente, preparato e puntiglioso, ma, principalmente, l’amico, l’uomo che, in ogni occasione, era pronto a dare consigli ed anche ad aiutare. Ed è per questo, maggiormente, che oggi tutti coloro i quali lo hanno avuto per maestro lo piangono.
Salvatore Agati . Randazzo Notizie n.19 del novembre 1986
Padre Antonino Maugerinasce a Randazzo il 4 settembre del 1918 primo di nove figli. La famiglia molto religiosa ha favorito la sua propensione e quella di suo fratello Rosario, di dedicarsi alla vita religiosa e spirituale. All’età di tredici anni entra nel Seminario Vescovile di Acireale e nel 1941 viene ordinato sacerdote.
Nel 1962 diviene Rettore della Basilica dei SS. Pietro e Paolo di Acireale dove rimane quasi 40 anni, stimato ed amato dagli acesi non solo per la missione sacerdotale, ma soprattutto per l’intelligenza e cultura. Appassionato di musica consegue il diploma di canto Corale ed Organo alla Scuola Diocesana di Musica Sacra di Como. Pianista, organista, compositore vince diversi concorsi di musica sacra.
Padre Antonino Maugeri è stato un sacerdote solare pieno di iniziative operoso nel suo ministero e nell’insegnamento.
Accanto a questa attività pastorale emerge anche la sua passione per la musica.
Si diceva che ” La scala musicale era per Lui capace di unire la terra ed il cielo, di favorire un più intimo contatto tra l’umano e il divino”.
A detta di tutti quelli che lo hanno conosciuto era ” spiritoso, gradevolissimo nel suo eloquio, in cui riusciva a mettere anche filosofia,teologia, poesia, letteratura, musica (la “sua” !) citazioni in latino e battute in siciliano. Fu Presidente della FUCI di Acireale.
Nel 1990 si costituisce e gli viene dedicata “La Corale Polifonica don Antonino Maugeri ” che ha fatto conoscere la sua musica dappertutto. Nel 2000 ha rassegnato le dimissioni di Rettore della Basilica nelle mani dell’Arcivescovo. Muore il 22 febbraio 2008 all’età di novanta anni nelle braccia del fratello che, racconta, fine all’ultimo minuto cantava la sua musica.
. Il 23 maggio 2007 gli è stato intitolato l’Auditorium dell’Istituto “G.Galilei” di Acireale
Il 22 febbraio 2018 nel decennale della sua morte e a cento anni dalla sua nascita è stato ricordato con una commossa cerimonia nella sua chiesa alla presenza di numerosi cittadini ed autorità. Per l’occasione il prof. Salvatore Licciardello ha presentato il libro: “ Tutto quaggiù è armonia. Don Antonino Maugeri: uomo sacerdote musicista” edita da “La Voce dell’Jonio” Editrice. Qui di seguito riportiamo alcuni articoli di questa manifestazione. FrancescoRubbino
Testimonianze / Don Antonino Maugeri è una benedizione di Dio
“Nessuno è profeta in patria”. Lo diceva nostro Signore stesso. Forse anche in questo caso è riscontrabile: non mi pare, infatti, che se ne parli tanto, non quanto meriterebbe a otto anni di distanza, da quando ha salutato questo mondo per salire alla casa del Padre. Padre Maugeri (è di lui che parliamo), di Randazzo, fratello di un altro sacerdote, a sua volta in fama di santa vita, don Rosario, che a Randazzo ha sempre portato la Parola del Signore, è stato una figura senza uguali nella nostra città, una vera benedizione del buon Dio. Coltissimo (non per niente è stato assistente Fuci), non faceva mai pesare la sua cultura, musicista (pianista, organista, compositore), amante degli animali, e dei gatti in particolare, come è giusto che sia un buon cristiano, sulle orme di san Francesco, ovunque portava il sorriso e il profumo del buon Dio
“facitivi Santi ca non vi costa mancu menza lira” Mons.Padre Maugeri
. La voce popolare lo chiamava “santo”, fin da quando è arrivato da noi, dopo un periodo in cui era stato parroco a Fiandaca (ne parlava sempre nelle sue “prediche”), ed era diventato canonico della nostra bellissima e amatissima chiesa di san Pietro e Paolo, in Acireale, la chiesa dove c’è la statua del “Divinissimo” Cristo alla Colonna, veneratissima, (e giustamente) da tutti gli acesi e già da secoli.
E quella resta sempre, per chi l’ha seguito per tanti anni, la sua “chiesa” (anche se, negli ultimi tempi della sua vita, è stato a san Paolo, con don Orazio Barbarino). Entrando in san Pietro, ancora sembra che lui sia lì, che da un momento all’altro debba entrare dalla porticina nascosta del “coro”, che debba subito togliersi il “trepizzi”, deporlo su uno scanno del “coro”, avviarsi all’altare e cominciare la Messa. Il suo sorriso, la sua parola. Chi, come chi scrive, ha avuto la fortuna e la grazia di Dio di poterlo seguire per tanti anni, sa cosa voglia dire l’espressione “portava il sorriso e il profumo del buon Dio”. Le sue prediche duravano sempre molto. E a quella messa, la sua, ci si andava proprio per le prediche. Avrebbe potuto parlare tutta la giornata: non solo non stancava mai chi lo ascoltava, ma dava gioia, ricchezza, spunti di pensiero, di riflessione. Erano una grazia di Dio le sue prediche. Chi scrive lo ha “scoperto”per caso, almeno 50 anni fa, più o meno. Perché una domenica, non avendo fatto in tempo per la Messa abituale in un altra chiesa, per caso ha trovato la Messa delle 11 a San Pietro. Ed ha scoperto un mondo ricchissimo e impensabile. Da allora, la sua Messa è stata sempre quella di padre Mauger
Padre Antonino Maugeri
i. Spiritoso, gradevolissimo nel suo eloquio, in cui riusciva a mettere anche filosofia, teologia, poesia, letteratura, musica (la “sua”!), citazioni in latino e battute in siciliano….. Parlare con lui, in confessione, o per la richiesta di un consiglio, era abbeverarsi ad una fonte di serenità e ricchezza. Persona coltissima, si diceva, (d’altronde proveniente da famiglia di grande cultura) e musicista. Sedici anni fa, nel 2000, vinse il primo premio in un concorso a Castagneto Carducci ( in provincia di Livorno) – categoria “Messa in latino”- con un suo “Credo”, che chi scrive ha avuto l’onore di dirigere, in sua presenza, ad Acireale, nella chiesa di Odigitria, grazie alla squisita ospitalità di padre Domenico Massimino, allora parroco di quella chiesa, ed ora, neanche a farlo apposta, a Randazzo, proprio nel luogo di provenienza di padre Maugeri. Del resto, come musicista, don Antonino era stato un “bimbo prodigio”, come si dice: per testimonianza della sorella prof. ssa Cecilia, abbiamo appreso che già a tre anni suonava il mandolino ad orecchio.
Moltissime sono le sue composizioni sacre (l’ inno a santa Venera, che ad ogni festa della santa viene cantato in città, è noto a tutti) ed alcune delle sue musiche sono state donate (così ci è stato detto) alla biblioteca Zelantea, altre al Seminario; altre sono sicuramente da qualche parte, in città.
Che aspettiamo a valorizzarle con maggiore assiduità e attenzione? A Santa Maria Ammalati c’è già una “Schola cantorum” intitolata a padre Maugeri: ci auguriamo che venga sempre più valorizzata. È vero che, ai nostri tempi, come diceva Tacito per i suoi, più volentieri che i nostri “externos colimus”, e che ben venga, anche i nostri valgono.
E padre Maugeri sacerdote meraviglioso, musicista, uomo di cultura, esorcista, persona sempre disponibile all’ascolto e al dialogo con tutti, capace di una parola buona con tutti, vale. E quanto vale! Ha amato la musica fino alla fine. È morto cantando (come ha spesso ricordato il fratello che gli era accanto alla sua morte), cioè componendo un canto, nel momento estremo, che pare fosse un omaggio alla Madonna, alla cui devozione esortava tutti. Anche dalla malattia ha saputo trarre santificazione. Padre Antonino Maugeri suonava l’organo, quando le sue mani non erano sulla tastiera, o alle prese con un manoscritto di musica, o innalzate a benedire, tenevano sempre fra le dita il rosario. Sempre! Nell’espressione che vediamo nella foto, in quel sorriso, c’è tutto padre Maugeri: la musica che si fa preghiera e gioia. Ed è giusto che ce ne ricordiamo.
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Un incontro volto al ricordo di una figura religiosa, quella di padre Antonino Maugeri, scandito dalla presenza della musica, eseguita a piccoli tratti, ma citata costantemente e resa protagonista insieme al sacerdote che l’ha coltivata lungo la sua vita, per parecchi decenni vissuta anche nel delicato servizio di esorcista.
All’interno della suggestiva Basilica dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Acireale, è stato presentato al pubblico il libro “Tutto quaggiù è armonia – Padre Maugeri: uomo sacerdote musicista”, edito da La Voce dell’Jonio, scritto dal prof. Salvatore Licciardello. Gli amici, i conoscenti di don Antonino, ma anche semplicemente chi frequenta la chiesa hanno partecipato numerosi alla serata in cui è stata delineata con chiarezza l’immagine dell’uomo che si è dedicato a Dio ed agli altri, con la passione per la musica sacra ed il canto.
Le varie testimonianze, sia quelle citate nella biografia su di lui incentrata, sia quelle degli intervenuti alla serata, ne hanno proposto la figura sempre sorridente e felice. Un sacerdote popolare, per la gente, che si prodigava nell’ascoltare tutti. Originario di Randazzo, da una famiglia ben salda nei valori e nel senso della fede, favorevole a questa sua propensione religiosa e spirituale, all’età di tredici anni entra nel Seminario Vescovile di Acireale e nel 1941 viene ordinato sacerdote. Nel 1962 diviene Rettore della Basilica dei SS. Pietro e Paolo. La sua dedizione alla musica è tale da fargli conseguire il diploma di Canto corale ed Organo alla Scuola Diocesana di Musica Sacra di Como.
“La musica era la sua seconda vocazione e la viveva con grande interesse interiore”, conferma mons. Guglielmo Giombanco, vescovo di Patti. Una figura “ poliedrica”, come l’ha definita il prof. Licciardello, che vi ha dedicato la sua ricerca meticolosa di fonti, testimonianze, aneddoti e ne ha fatto una biografia usufruibile per tutti ed utile a perpetuarne il ricordo all’interno della comunità e della diocesi tutta. “Il libro ha puntato l’attenzione su una figura importante per Acireale, che rinasce nella memoria collettiva. Con la biografia si è portato avanti il programma di riedizione del nostro Padre Maugeri. Bisognava assolutamente ricordarlo, non solo per lui ma anche per l’intera città, che è stata presente numerosa questa sera”, ha affermato l’autore.
Ha ribadito l’utilità del lavoro il vescovo di Acireale, mons. Antonino Raspanti: “Esprimo la gratitudine della diocesi di non lasciare fagocitare nell’oblio questa figura così talentuosa”. Don Antonino, infatti, svolgeva il suo ministero con la gioia della preghiera, del rendere grazie a Dio, dell’aiutare gli altri anche con il delicato ruolo di esorcista: “Trentacinque anni fa intervistai Padre Maugeri che mi parlò dell’esorcismo con una semplicità disarmante, ma che io feci fatica ad ascoltare fino in fondo, tanto che gli chiesi di fermarsi. Era un uomo fatto per la gente, semplice ma ricco di talenti che spendeva per gli altri”, ha raccontato il giornalista Giuseppe Vecchio, direttore de La Voce dell’Jonio, testata per la quale il prete ha collaborato con i suoi scritti per circa vent’anni.
Durante l’incontro è emersa, dunque, una persona semplice nella sua complessità. La sua musica gli nasceva spontaneamente e non poteva farne a meno “Serbo il ricordo personale di un uomo che metteva a disposizione sé stesso, che voleva capire meglio come la sua musica potesse servire per il suo messaggio evangelico. Era il suo modo di esprimersi per raggiungere immediatamente il cuore e la testa delle persone, c’è riuscito perfettamente e ci riesce ancora oggi”, così lo ha descritto lo storico della musica Gian Nicola Vessia, che lo ha conosciuto e ne ha condiviso la passione per le melodie.
La figura di don Antonino non sbiadirà nella mente delle persone che con lui hanno interagito e sarà abbracciata dalle musiche, dalle note generate dal suo animo per lodare Dio in modo gioioso ed allegro, per rispecchiare una fede carica di speranza ed amore.
Rita Messina
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A distanza di dieci anni dalla scomparsa, ne ricorre l’anniversario il 22 febbraio, ed a cento anni dalla nascita, il 4 settembre prossimo, padre Antonino Maugeri, per quarant’anni rettore della basilica dei SS. Pietro e Paolo di Acireale, viene ricordato nel libro, scritto dal prof. Salvatore Licciardello, dal titolo “Tutto quaggiù è armonia – Padre Maugeri: uomo sacerdote musicista”, edito da La Voce dell’Jonio.
La biografia è dedicata ad un uomo di Chiesa, che si proponeva agli altri con l’animo volto a Dio ed alla sua magnificenza e ne rendeva grazie attraverso l’immenso trasporto per la musica sacra e per il canto. Spiritualità e musica, un connubio che ha caratterizzato la sua vita fin dai primi anni di studio, da quando, all’età di tredici anni, entrò nel Seminario Vescovile di Acireale, dove ebbe modo di manifestare questa sua passione. L’ascolto della parola di Dio, la sua applicazione pratica nel quotidiano, si manifestava in lui con le mille attenzioni agli altri, a tutti coloro che lo hanno conosciuto e ne serbano un ricordo personale e, per certi aspetti, vario.
“Da ragazzo sentivo molto parlare di lui nelle varie parrocchie, del suo modo di agire e del suo operato. Era una grande personalità sia come sacerdote sia come musicista. Per lui la musica era il linguaggio divino. Era in grado di percepire Dio in tutto ed in tutti. Ad un certo momento io e mia moglie fondammo una corale polifonica denominata Don Antonino Maugeri, mi avvicinai molto a lui, nell’ambito della musica e ne ho apprezzato le doti”, ha affermato il prof. Salvatore Licciardello, autore del libro.
Un lavoro, il suo, iniziato tre anni fa. Un contributo che mira a preservare la memoria di una figura emblematica per la diocesi di Acireale. Padre Maugeri ha svolto, infatti, il suo ministero per circa sessant’anni. “Ho voluto realizzare questa biografia, che è stata una ricerca storica, una raccolta di documentazione, per dar possibilità e modo di ricordarlo a chi lo conosceva già. Per chi non lo ha conosciuto è occasione per apprezzarne la grande personalità. Lui era ed è un uomo di speranza per tutti. Con le sue omelie, con le sue parole riusciva ad entrare dentro il cuore dell’interlocutore. Le varie testimonianze raccolte hanno in comune l’immagine allegra e gioviale di padre Maugeri e quell’avvicinarsi a chi era in difficoltà senza risparmiare sé stesso. È stato un lavoro che mi ha appassionato particolarmente ma anche molto delicato, perché ha significato per me entrare dentro l’anima di una persona, mirando a rispettarla in totale”, ha continuato l’autore.
Tanti gli aneddoti, le immagini di vita riportate nella biografia. Il suo amore per la musica è ricordato attraverso gli innumerevoli fogli in cui era solito tracciare il pentagramma ed affidarvi le note che gli venivano in mente e che eseguiva con le “mollette della biancheria”, scuotendole come una batteria. Il suo infinito impegno si individuava nell’attività di prete, nel delicato ruolo di esorcista, nel ribadire l’eccesso di una moda eccessiva, ma anche nel saper essere amico, confidente, guida spirituale.
Sabato 17, nella Basilica dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Acireale, alle ore 18, la biografia sarà presentata al pubblico, in una serata ricca di spunti e di interventi, momento di riflessione su una personalità locale che molto ha dato e continua a dare agli altri, anche una volta terminato il suo cammino terreno.
Giuseppe Plumari, uomo di chiesa e di cultura, era nato a Randazzo il 17 agosto del 1770. Il padre, don Candeloro, faceva il notaio, e la madre, Paola Emmanuele, discendeva da un’antica famiglia locale. Nonostante appartenesse alla media borghesia, egli dovette sempre fare i conti con le ristrettezze economiche della famiglia, e se già il padre si vedeva costretto, per arrotondare i suoi magri proventi, a far l’organista nelle chiese, lui si trovò sempre a lottare da solo per raggiungere quei risultati che il censo non gli aveva dato già per scontati, e rinunciare nel corso della sua vita, a tante aspirazioni.
Aveva, per esempio, fatta istanza al Re per essere assunto come Cappellano Militare, e, forse dopo un accoglimento sfavorevole, dovette adattarsi all’ambiente del paese. Ambiente che inevitabilmente doveva andargli piuttosto stretto, sia per le naturali ambizioni dell’uomo, consapevole delle sue doti, sia per le invidie e ostilità in mezzo alle quali si trovò sempre costretto a vivere. Compì i primi studi presso il Convento dei Basiliani, e in particolare, per la retorica e le lettere, sotto la guida dall’Abate Giovanni Romeo. Fu proprio un episodio avvenuto in gioventù, un viaggio a Napoli nel corso del quale ebbe modo di visitare palazzi e musei, a risvegliare in lui l’amore per la storia e per le “cose antiquarie”. A 18 anni si recò a frequentare il Seminario di Messina, dove completò gli studi laureandosi in Teologia e Diritto. Fu ordinato sacerdote nel 1795.
Dopo un periodo di tirocinio a Palermo, ritornato nel paese natale, fu associato al clero della chiesa di Santa Maria, in qualità di Canonico della Collegiata.
Nel 1814, alla morte dell’Arciprete Don Alberto Salleo, partecipò al concorso per l’Arcipretura, vincendolo: “questo – dice lo storico don Salvatore Calogero Virzì– fu l’inizio di tutte le traversie della sua vita perché, contestata da uno degli sfortunati concorrenti, Don Antonino Vagliasindi dei baroni del Castello, la sua nomina ad Arciprete, fu tradotto davanti ai Tribunali”. Ma fu anche la molla che, involontariamente, fece scattare nel Plumari nuovi interessi, dandogli al tempo stesso la possibilità di assecondarli.
Infatti dovette trasferirsi a Palermo per due anni, dal 1815 al 1816, per seguire la causa, che poi avrebbe vinto in pieno, a seguito di tre diverse sentenze successive, ma la permanenza nel capoluogo gli offrì anche l’opportunità ed il tempo di frequentare archivi e biblioteche, di spulciare libri e documenti, scoprendo così la sua vocazione di storico, nonché di avvicinare dotti e studiosi del tempo, quali D. Vincenzo Castelli e D. Giovanni D’Angelo, che lo aiutarono ad affinare ed approfondire la già latente passione per la storiografia.
Da queste frequentazioni, da questi studi, che D. Giuseppe Plumari integrò con la lettura degli storici municipali, quali Pietro Oliveri, Antonino Pollicino, Pietro Di Blasi, Pietro Rotelli, il notaio Prospero Ribizzi e Onorato Colonna, doveva scaturire l’enorme mole degli scritti su Randazzo, la sua storia, i suoi figli più illustri. Di ritorno in patria, avrebbe potuto finalmente dedicarsi alla vita parrocchiale, preparando i giovani al catechismo, pronunciando orazioni e sermoni, e facendosi così apprezzare per le sue doti di oratore.
Ma per l’Arciprete Plumari la tranquillità era ben lungi dall’arrivare: entrò subito in contrasto con gli Amministratori dell’Opera De Quatris – l’azienda costituita da lasciti e beni immobili assegnati alla chiesa di S. Maria dalla defunta baronessa Giovannella De Quatris – che in seno alla comunità randazzese costituivano una vera e propria potenza economica, e, per di più, dovette vedere sempre minacciata e messa in forse la sua stessa dignità ed autorità di Arciprete.
Infatti, sulla scorta di una certa teoria, ormai da tempo consolidata, stando alla quale le chiese di Randazzo fossero ricettizie, ovvero istituzioni spontanee dove i vari membri godevano di parità assoluta, esercitando a turno, per esempio, le mansioni di parroco, la figura dell’Arciprete sarebbe venuta a ricoprire così un titolo privo di autorità giurisdizionale su tutto il resto del clero, e di conseguenza il Plumari dovette subire non poche angherie ed umiliazioni, specie da chi mal aveva digerito la sua nomina.
Di fatto egli riuscì, soltanto nel 1839, alla morte del Decano D. Antonino Vagliasindi, a sedersi tranquillo sulla sospirata poltrona di Arciprete, e ad assumere i pieni e reali poteri, nonché la dignità, che tale carica comportava: “assommando le due dignità nell’unica sua persona, non ha più da tribolare per il riconoscimento dei suoi diritti e delle sue ambizioni cui tanto sensibile era il suo carattere”’ (Virzì).
Si era anche fatto promotore dell’idea di creare una sede vescovile a Randazzo (la città allora, e fino al 1872, faceva parte della Diocesi di Messina), benché su questa sua proposta sarebbe poi prevalsa quella delle Autorità di Acireale.
Non è da escludere che egli accarezzasse il sogno segreto di poter indossare per primo, e in patria, le insegne di Vescovo…
Morì il 1° ottobre 1851. Probabilmente fu seppellito in S. Maria, tuttavia, sicuramente a seguito dei vari rifacimenti della pavimentazione della basilica, e allo smantellamento delle pietre tombali già esistenti, della sua tomba non vi è oggi alcuna traccia. Strano destino, questo, per un uomo che lasciò un’opera immortale, e cui la città deve tanto! Don Virzì, che è la fonte più dotta, esauriente e attendibile, che ne conobbe e studiò per esteso l’opera, e che a tutt’oggi ne è considerato il più degno erede e successore, così lo descrive: “carattere ardente, fattivo, in parte intrigante e ambizioso… Il suo agire in parte ingenuo, fu quello di certi uomini che pensano di essere chiamati a raddrizzare le cose storte… a riformare il mondo con uno spirito di intransigenza che rivela la loro personalità”. A ciò va aggiunta, da un lato, la perenne condizione di ristrettezza economica in cui il Plumari versò per tutta la vita, e dall’altro la costanza, l’accanimento con cui egli si batté, per tanti anni e con ogni mezzo, per raggiungere il traguardo del pieno riconoscimento di quella dignità dell’Arcipretura che con tanta ostinazione e spirito di ripicca gli fu osteggiata per lunghi anni.
Troppo complesso sarebbe descrivere le diatribe, i colpi bassi, le battaglie che caratterizzarono la rivalità col Decano Vagliasindi (si tratta diPaolo Vagliasindi Basiliano che nel “Discussione Storica e Topografica” confuta la tesi del Plumari sulla origine di Randazzo F:R.) e altri esponenti influenti del clero locale, ma la chiave di lettura di questa vicenda si potrebbe trovare forse inquadrandola nello scontro fra due classi sociali, un’aristocrazia titolata, fortemente aggrappata ai propri appannaggi e privilegi, cui era restia a rinunziare, ed una borghesia che, fattasi strada con i soli propri mezzi, vedeva negli studi una sorta di affrancamento e di riscatto sociale: a tal proposito non può sfuggire come Giuseppe Plumari non mancasse mai di aggiungere, al proprio nome, il titolo raggiunto con studio e sacrificio “Dottore in Sacra Teologia“, “Canonico in Sagra Teologia Dottore”, e finalmente “Unico Parroco Arciprete di Randazzo”. Abbondante la sua bibliografia, almeno a giudicare dai titoli pervenutici, a testimoniare un impegno pastorale e culturale notevole e continuo.
Fu grande oratore, convinto e infiammato, tant’è che pubblicò le sue omelie “animato, per non dire obbligato, dai buoni cittadini, che ascoltate le aveano con tanto piacere, e che avean veduto dalle stesse raccolto un frutto universale” come ebbe ad affermare con un pizzico di vanità, o piuttosto consapevolezza delle proprie capacità e dei propri meriti.
– È del 1821 l’Omelia nel giorno natalizio ed onomastico del Re Ferdinando I, – del 1822 la Felicità dei popoli sotto la Religione Cristiana e sotto il Governo Monarchico, e la Infelicità dei popoli sotto le segrete società tendenti a distruggere la Religione e il trono, – unaOrazione funebre in morte di Ferdinando I(1825). Altri scritti ancora furono dettati dall’intendimento di affermare le proprie tesi, come : – LeRagioni in difesa del diritto dell’Arciprete di Randazzo (1813), – Sulla elezione dell’Amministrazione dell’Opera De Quatris, fatta dai parrocchiani di S. Maria ai quali s’appartiene (1815), – unaAllocuzione in difesa dei beni ecclesiastici appartenenti alla Collegiata di S. Maria. Altri gli sono stati attribuiti: – Orazione fatta al consiglio civico di Randazzo al 25 agosto 1813, – Poche idee sopra talune leggi da farsi ai termini dello statuto politico per la Sicilia (1848).
Ma la mole più cospicua è costituita dagli scritti su Randazzo, opera cui Plumari dedicò l’impegno di una vita.
La Storia di Randazzo fu redatta in varie stesure, ne esiste pure un’edizione condensata presso la Biblioteca Zelantea di Acireale, depositatavi dall’Autore nel 1834.
Lionardo Vigo
Come egli stesso afferma, fu incoraggiato nelle stesura dell’opera dall’amico acese Lionardo Vigo:
“Avendo io nelle ore dell’ozio raccolte alcune memorie relative alla Storia di Randazzo, mia Patria, queste un tempo legger volle il Cavaliere Lionardo Vigo della Città di Acireale, qui venuto per curiosare… mi animò… Egli stesso a scrivere un Sunto della Storia mia municipale, con avermi incaricato di doverlo poi trasmettere ali Accademia de’ Zelanti di Scienze, Lettere ed Arti di essa Città di Aci-Reale. Tanto io praticai nello stesso anno 1834″.
Spiegherà poi che, trattandosi di un sunto, omise per brevità di citare gli autori consultati, offrendo così automaticamente il destro ad altri, in particolare all’altro storico dell’epoca, l’Abate Paolo Vagliasindi, di contestare le sue tesi, in particolare lateoria della pentapoli. Secondo questa teoria, Randazzo sarebbe stata originata, a detta del Plumari, dalla fusione di cinque città, Tiracia, Alesa, Triocala, Tissa e Demena.
Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale di Sicilia – fine primo volume.
Di fatto nella Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale di Sicilia, in 2 volumi, iniziata nel 1847 e conclusa nel 1851, l’anno stesso della morte, egli innesta la storia della Città sul ceppo della storia dei popoli e delle genti che abitarono la Sicilia e il Mediterraneo, fin dai tempi più antichi, attingendo agli autori greci e romani. La sua descrizione si fa via via più serrata e documentata, quanto più lo scrittore si avvicina ai tempi moderni. L’opera è corredata anche da disegni e schizzi, di mano dello stesso Plumari, d’indubbio valore documentario, per ricostruire monumenti non più esistenti o la topografia della città. Degno di menzione il Codice diplomatico, la Storia delle famiglie nobili di Randazzo, la Storia dei personaggi illustri di Randazzo che fiorirono per fama dì santità, concepita come un terzo volume della Storia. Proprio questo volume, per volontà dello stesso autore, non sarebbe stato depositato presso l’Archivio di Palermo, ma lasciato alla città di Randazzo, nel caso si fosse reso necessario attingere notizie utili alla causa di beatificazione o canonizzazione di qualcuno dei suoi figli più meritevoli. “Gloria primaria ed unica della storiografìa randazzese” definisce l’Arciprete Giuseppe Plumari, in un eccesso di modestia, don Salvatore Calogero Virzì, e prosegue: “Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo”. La sua importanza risiede anche, per noi moderni, nel potere attingere a piene mani, attraverso i suoi scritti, a fonti ormai perdute. Gli è stato rimproverato un eccesso di municipalismo, e qualche ingenuità storica.
Ma Plumari è, e si dichiara egli stesso, storico municipale, e, quanto al resto, lo stesso Virzì, pur riconoscendogli una certa ridondanza e qualche carenza di critica storica, giustifica tali pecche spiegando come la sua opera vada comunque valutata all’interno del contesto in cui si è generata, alla luce della storiografia del tempo. A noi non resta che inchinarci di fronte ad un impegno così costante, protrattosi fino alla morte.
Da quelle pagine manoscritte, in una grafia elegante, ordinata, trabocca tutto l’amore per la sua città,“un tempo celeberrima, a nessun ‘altra Città del Regno seconda”,ma anche per la ricerca e per la storia. Come si legge nella dedica della Storia di Randazzo, Diruta dum patriae numeras monumenta vetusta, tum patriae surgit gloria nobilior, c’è un moto di ambizione, naturale in chi si accinge a un’opera grande, ma c’è anche spirito di servizio.
E come sottovalutare tante descrizioni della Randazzo del suo tempo, quelle così puntuali di opere d’arte, edifici, le cronologie, le citazioni d’archivio, gli elenchi di chiese, di porte, beni in massima parte ormai inesistenti, distrutti o smarriti, e riscontrabili solo attraverso la sua testimonianza. Maristella Dilettoso
(Articolo pubblicato su Cultura e Prospettive n. 23, Supplemento a Il Convivio n. 57, Aprile – Giugno 2014)
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UNA GLORIA DELLA CITTA’: L’ARCIPRETE D. GIUSEPPE PLUMARI
Gloria primaria ed unica della storiografia randazzese è il famoso Arciprete Giuseppe Plumari, vissuto a cavallo dei Sec. XVIII e XIX. Ed è giusto che noi, moderni cultori delle glorie patrie, diamo il dovuto tributo di riconoscenza a quest’uomo che, ignorato del tutto nel passato, da studiosi e non studiosi, ci ha lasciato una grande opera, che ci parla di tutte le glorie della nostra cittadina. Dico ignorato, perché in verità ben poco la cittadinanza randazzese ha fatto per lui. Mentre, infatti, si sono giustamente onorati i caduti della grande guerra, intitolando al loro nome un intero viale (Viale dei caduti sulla Via Regina Margherita) e non poche strade del paese, purtroppo, col risultato di cancellare irrimediabilmente nomi tradizionali e popolari, ancora in parte vivi nel gergo popolare, con tanto danno dell’antica toponomastica urbana, che non ha lasciato traccia nemmanco negli Atti Ufficiali del Comune. Nulla si è fatto in Randazzo per l’Arciprete Plumari, che ha lasciato manoscritta la sua opera, ma solamente intitolando, non so in quale tempo al suo nome un vicoletto ignorato del quartier di S. Martino. Cosi per lui, cosi per tanti altri nomi prestigiosi della storia cittadina, facendo eccezione soltanto per il nome del deputato del principio del secolo, on. Paolo Vagliasindi, per cui si affisse al cantonale della casa di famiglia una candida lapide che ebbe la ventura di essere stata dettata dal grande Federico De Roberto ed inaugurata col concorso di tutto il popolo e di tutte le autorità, come ci testimoniano le fotografie del tempo. Grande personaggio arciprete Giuseppe Plumari ed Emmanuele, uomo di cultura e di abilità. Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una Storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo. Opera enorme in due grossi volumi che fu da lui compilata sulle memorie di cultori di storia patria e di notai che, purtroppo, noi non possediamo più, ma che egli ebbe la fortuna di avere in mano e sfruttare nella sua trattazione. In tale opera abbiamo un documento del suo impegno indefesso di ricerca che lo ricerca che lo spinse ad una immane fatica che solo chi ne è addestrato può valutare, del suo ardente amore per la patria, della sua gioia nel portare alla luce le sue glorie del passato, unica soddisfazione dello studioso e del compilatore. Ce lo riferisce egli stesso rivelandoci che il suo interesse crebbe a dismisura allorquando, nello studio dei documenti, trovava citato continuamente il nome della sua Randazzo e degli avvenimenti che la riguardavano. Tutto questo trasparisce da tali pagine. Stato d’animo, purtroppo, questo, che costruisce il punto più debole del suo lavoro, aggravato dalla sua complessità e spesso pletoricità. Mende, queste, di una certa gravità che sminuiscono il valore dell’opera, ma che non sono da imputare del tutto all’autore che, nato nel settecento, il cosiddetto secolo dei lumi, non poteva non risentire di quelle manchevolezze che la storiografia ancora registrava nella sua evoluzione. Per tali deficienze, più che personali, dovute al manchevole manchevole sviluppo scientifico del tempo, non seppe valutare con disinteressato discernimento le notizie raccolte e non seppe fare uso di quella storica che fa la vera storia.
Via Plumari – quartiere di San Martino
Dico ignorato, perché in verità ben poco la cittadinanza randazzese ha fatto per lui. Mentre, infatti, si sono giustamente onorati i caduti della grande guerra, intitolando al loro nome un intero viale (Viale dei caduti sulla Via Regina Margherita) e non poche strade del paese, purtroppo, col risultato di cancellare irrimediabilmente nomi tradizionali e popolari, ancora in parte vivi nel gergo popolare, con tanto danno dell’antica toponomastica urbana, che non ha lasciato traccia nemmanco negli Atti Ufficiali del Comune. Nulla si è fatto in Randazzo per l’Arciprete Plumari, che ha lasciato manoscritta la sua opera, ma solamente intitolando, non so in quale tempo al suo nome un vicoletto ignorato del quartier di S. Martino. Cosi per lui, cosi per tanti altri nomi prestigiosi della storia cittadina, facendo eccezione soltanto per il nome del deputato del principio del secolo, on. Paolo Vagliasindi, per cui si affisse al cantonale della casa di famiglia una candida lapide che ebbe la ventura di essere stata dettata dal grande Federico De Roberto ed inaugurata col concorso di tutto il popolo e di tutte le autorità, come ci testimoniano le fotografie del tempo. Grande personaggio arciprete Giuseppe Plumari ed Emmanuele, uomo di cultura e di abilità. Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una Storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo. Opera enorme in due grossi volumi che fu da lui compilata sulle memorie di cultori di storia patria e di notai che, purtroppo, noi non possediamo più, ma che egli ebbe la fortuna di avere in mano e sfruttare nella sua trattazione. In tale opera abbiamo un documento del suo impegno indefesso di ricerca che lo ricerca che lo spinse ad una immane fatica che solo chi ne è addestrato può valutare, del suo ardente amore per la patria, della sua gioia nel portare alla luce le sue glorie del passato, unica soddisfazione dello studioso e del compilatore. Ce lo riferisce egli stesso rivelandoci che il suo interesse crebbe a dismisura allorquando, nello studio dei documenti, trovava citato continuamente il nome della sua Randazzo e degli avvenimenti che la riguardavano. Tutto questo trasparisce da tali pagine. Stato d’animo, purtroppo, questo, che costruisce il punto più debole del suo lavoro, aggravato dalla sua complessità e spesso pletoricità. Mende, queste, di una certa gravità che sminuiscono il valore dell’opera, ma che non sono da imputare del tutto all’autore che, nato nel settecento, il cosiddetto secolo dei lumi, non poteva non risentire di quelle manchevolezze che la storiografia ancora registrava nella sua evoluzione. Per tali deficienze, più che personali, dovute al manchevole
sviluppo scientifico del tempo, non seppe valutare con disinteressato discernimento le notizie raccolte e non seppe fare uso di quella storica che fa la vera storia. Molte, infatti, delle sue conclusioni storiche non reggono alla critica moderna, avvalorata dai ritrovamenti archeologici e documentari. Ciò non toglie che egli ci ha lasciato una fonte preziosissima di tutto ciò che riguarda la storia della città, elegante, ben leggibile, due copie dell’ultima stesura della “ Storia di Randazzo” e ne depositò una nella Biblioteca Comunale di Palermo, ancora esistente e consultabile e ne regalò una al Comune di Randazzo, purtroppo da tempo scomparsa.
Giuseppe Plumari – Primo volume Storia di Randazzo
Giuseppe Plumari – secondo volume Storia di Randazzo
Notizia recentissima di questi giorni è che, nel clima instauratosi da qualche tempo nella nostra città per merito delle Autorità cittadine attuali,, ad ovviare al danno subito dalla comunità tutta con la scomparsa della copia manoscritta originale, il Comune è stato dotato del “Microfilm” dell’opera del Plumari, giacente nella sopradetta Biblioteca di Palermo, a servizio degli studiosi. IL PLUMARI, come egli stesso ci rivela in un breve profilo lasciatoci nella sua opera “Uomini Illustri di Randazzo”, nacque il 17 Agosto 1770 dal notaio D. Candeloro e da Paola Emmanuele. Giovanetto fu alunno, per i primi elementi di lettere e retorica, del basiliano Don Giovanni Romeo, Abate allora del Monastero di recente costruzione, il cui fabbricato diventò in seguito il “Collegio S. Basilio”. A 18 anni fu inviato dal Seminario di Messina dove compi i suoi studi e si addottorò in Teologia e Diritto, alla scuola di illustri professori che lo informarono all’amore dello studio.
Ordinato sacerdote nel 1795, fece un breve tirocinio ministeriale a Palermo, dove si distinse per la scienza e la sua abilità di oratore, ritornò, quindi, a Randazzo e fu associato al Clero della Chiesa di Santa Maria. Morto il degno arciprete, D. Alberto Salleo (1783-1814), assieme ad altri quattro, fu ammesso al concorso per l’Arcipretura e vinse (1814), ma questa vittoria fu l’inizio di tutte le traversie della sua vita perché, contestata la sua elezione ad Arciprete da uno degli sfortunati concorrenti, fu tradotto davanti ai Tribunali. Egli per difendere validamente il suo diritto e il beneficio ecclesiastico vinto, dovette trasferirsi per due anni (1815-1816) a Palermo dove ottenne con tre sentenze diverse una piena vittoria e un pieno riconoscimento del diritto. Un avvenimento particolare della sua giovinezza apri un nuovo orizzonte alle sue innate disposizioni e lo portò ad una scelta che avrebbe indirizzato il suo giovane animo alla cultura storica. Ce lo fa sapere egli stesso. “All’età di 18 anni, ritrovandosi in Messina in compagnia di alcuni cavalieri randazzesi (…) passa con li medesimi a vedere la capitale di Napoli e tutte le magnificenze della bella Partenope non esclusa la grande gala di corte solita farsi l’8 Settembre nella Festa di S. Maria di Piedigrotta. Dalla visita fatta alle antichità di Pozzuoli e al celebre Museo Borbonico, cominciò a prendere gusto allo studio delle cose antiquarie…”.
Questa passione si sviluppo negli anni e raggiunse la massima efficacia nel periodo, non poco lungo, che egli passò a Palermo dove frequentò archivi, biblioteche, persone della cultura, come un D. Vincenzo Caselli, principe di Torremuzza, grande studioso delle antichità della Sicilia, ed il can. D. Giovanni d’Angelo, che lo avviarono agli studi storici ed alla ricerca di documenti nella celebre Biblioteca del Senato ed in vari Archivi della Capitale. Di tutto questo materiale che, man mano, andò raccogliendo, integrato dalle memorie scritte dei randazzesi Pietro Oliveri, Antonio Pollicino, Pietro di Blasi, Pietro Rotelli, notaio Prospero Ribizzi e del benedettino Onorato Colonna, egli compilò una serie di volumi riguardanti la storia della città delle sue famiglie e delle persone illustri di essa, come si può vedere dal lungo elenco delle sue opere, che segue:
Storia di Randazzo, trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale della Sicilia – Ms. in 2 voll. 1849, presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
Storia di Randazzo – Ms. in un Vol. presso la Biblioteca Zelantea di Acireale, depositata dallo stesso autore l’8-1-1834.
Storia di Randazzo, prima stesura manoscritta, appartenente al compianto can. D. Giuseppe Finocchiaro, ora in possesso della famiglia Virgilio Pietro di Catania.
Codice Diplomatico – Ms. in un Vol. presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
Storia delle Famiglie Nobili di Randazzo – Ms. in un Vol. in possesso della Famiglia Scala, Giarre.
Storia dei personaggi illustri di Randazzo – Ms. in un Volume.
Allocuzione in difesa dei beni ecclesiastici appartenenti alla Collegiata di S. Maria – Palermo 1813.
Ragioni in difesa del diritto dell’Arciprete di Randazzo – Messina 1813.
Sulla elezione dell’Amministrazione dell’Opera de Quatris fatta dai parrocchiani di S. Maria ai quali s’appartiene – Catania 1815.
Omelia nel giorno natalizio ed onomastico del Re Ferdinando I – Catania 1821.
Felicità dei popoli sotto la Religione Cristiana e sotto il Governo Borbonico – Messina 1822.
Infelicità dei popoli sotto le segrete società tendenti a distruggere la Religione e il Trono – Messina 1822.
Carattere ardente e fattivo si rivelò il Plumari fin dal primo momento in cui egli fece parte della “comunità” della Chiesa di S. Maria, cui si aggregò non appena fu ordinato sacerdote (1795). Ritiratosi da Palermo ove, come si è detto, passò i primi anni del suo sacerdozio aggiudicandosi tanta stima, si immise in pieno nella vita parrocchiale della Chiesa con una grande dose di entusiasmo ad impartire lezioni di catechismo ai giovanetti, a pronunziare discorsi di circostanza e orazioni sacre che furono tanti apprezzati dai fedeli e dalla comunità ecclesiastica che, nello stesso 1795, dal R. Amministratore dell’Opera de Quatris, cui competeva il diritto, D. Giacinto Dragonetti, fu eletto canonico della Collegiata al diciottesimo stallo e scelto come curatore della “Festa della Vara”. Problema gravissimo che angustiò tutta la sua vita, furono le ristrettezze economiche della famiglia (il padre, notaio, per arrotondare le entrate faceva l’organista nelle Chiese) e perciò domanda al Re per essere assunto come Cappellano Militare e, forse in seguito ad una risposta negativa, si decise di adattarsi alla vita del paese anche in mezzo alle difficoltà che gli derivarono dalla famiglia e dall’ambiente. Non pochi, infatti, furono gli invidiosi ed i nemici dichiarati intorno a lui, suscitati dalle sue buone doti che lo facevano spiccare su tutti e, purtroppo, anche dal suo carattere deciso e non facilmente malleabile, quando si trattava della difesa dei diritti suoi e della Chiesa o di opporvi alle prepotenze, da qualunque parte venissero specialmente da parte degli Amministratori dell’Opera de Quatris che, essendo a capo di questa grande e ricca azienda, la più grande del paese, si sentivano investiti di autorità e strapotere cui tutto e tutti dovevano piegarsi. Anche in seno al Clero, in questo periodo torbido della storia della nazione, egli ebbe a soffrire ed a combattere le sue battaglie alla difesa dell’Autorità di Arciprete. Le teorie sovversive del tempo, il fermento politico che aveva portato in Randazzo l’istituzione di alcune vendite della carboneria, l’inquietitudine rivoluzionaria lasciata dalla invasione francese nel napoletano e dal regno murattiano, avevano disposto gli spiriti al sovvertimento delle vecchie istituzioni ed alla scelta delle novità più singolari. Tra queste una estrosa teoria che toccava direttamente il Plumari nella sua qualità di Arciprete, sostenuta da gente malevola ed illusa, proprio in questo scorcio di secolo, imperversò per tutto il periodo successivo facendo maturare, negli anni ’50 del secolo passato ed oltre, risultati distruttivi. Intendo accennare alla teoria pseudo-storica che sosteneva, senza documenti di appoggio valevoli, che le chiese di Randazzo erano “chiese ricetti zie”, cioè chiese formatesi nei secoli come istituzione spontanea il cui clero si era in esse raccolto senza istituzione canonica, per cui i membri godevano di una parità assoluta e di diritti uguali, esercitando il ministero sacramentale a turno con le specifiche mansioni, volta per volta, il parroco “ad tempus”. Ciò colpiva direttamente la posizione dell’Arciprete che, in conseguenza di ciò non godeva di beneficio ecclesiastico istituito dall’Autorità canonica, ma soltanto di un titolo spoglio di autorità giurisdizionale sugli altri preti, per cui il detentore del titolo di Arciprete, secondo tale teoria, era un semplice sacerdote come tutti gli altri, un “unus inter pares” senza diritti giurisdizionali di sorta. Conseguenza di tale teoria, che ebbe gli assertori più accaniti tra il clero di Randazzo, fu la contestazione dell’Autorità arcipretale del Plumari che, nonostante la sua difesa a base di documenti, dovette subire affronti e clamorose ripulse che arrivarono a formali disubbidienze ed opposizioni. Eppure, a leggere anche ora i documenti della fondazione della Collegiata, diventata con gli anni l’arbitra della Chiesa di S. Maria ed in seno alla quale si trovavano i più accaniti suoi oppositori, ben altre erano le disposizioni arcivescovili emanate nell’atto della fondazione, concedeva tutto ai Cappellani, ma chiaramente ribadiva la intoccabilità dei diritti dell’Arciprete sia nel Coro, sia nelle processioni, sia in tutte le azioni liturgiche e di rappresentanza, sia ancora nelle sue facoltà giurisdizionali. Grosso imbroglio, dunque, questo, che condizionò e tormentò la vita del Plumari che potè avere un po’ di pace soltanto quando egli fu eletto, nel 1840, Decano della Collegiata e che fu risolto soltanto alla sua morte dai Tribunali ecclesiastici ad opera del suo successore, il battagliero ed energico Arciprete D. Vincenzo Cavallaro, proprio nel decennio degli anni cinquanta dell’Ottocento. Nonostante gli assilli derivategli da ciò, che fu il cruccio della sua vita, il problema economico, cioè, ed ancora dalla difesa strenua dei suoi diritti di Arciprete, egli continuò ad esercitare il suo ministero di buon sacerdote e zelante Arciprete; non solo, ma anche a coltivare la sua occupazione preferita di indefesso studioso e, perciò, è opera dell’ultimo decennio della sua vita, anzi addirittura degli ultimi anni, la definitiva stesura dell’Opera sulla storia di Randazzo, come ci rivela la data segnata nella copia ancora esistente (1849), tempo in cui erano già sedate tutte le diatribe e le opposizioni alla sua persona e alla sua giurisdizione, perché erano venuti meno i suoi più acerrimi oppositori e si erano assommate nell’unica sua persona le due dignità del Clero di Arciprete e di Decano della Collegiata (1840).
Moriva nell’ottobre del 1851 e probabilmente fu seppellito nella Chiesa di S. Maria, ma della sua tomba si è perduto ogni ricordo.
Commossi, pertanto, e riconoscenti, rendiamo omaggio a questo degno figlio della nostra città, il quale nella sua opera ci ha lasciato la testimonianza più viva e veritiera di ciò che significa amore della patria e della scienza congiunti in un unico nobile scopo.
Quali ricordi di questo grande personaggio ci restano a Randazzo?
La casa del Plumari – corso Umberto 233/235 – Randazzo
In verità ben pochi: un vicolo – come abbiamo già detto – vicino alla sua casa di abitazione, nel quartiere di S. Martino, intitolato al suo nome; un libro che porta di suo pugno il nome; una qualche lettera nell’archivio della Chiesa, con intestazione a stampa dei suoi titoli e col bollo personale con il suo stemma; ed ancora, forse una statuetta della Madonna Addolorata, che apparteneva al clan. Caldiero, che l’avrà potuta ereditare da lui. Non un ritratto, non alcuna carta dei suoi numerosissimi appunti; non memorie dei contemporanei che ci facessero conoscere la personalità di quest’uomo tanto benemerito della sua patria. A lui, vada, pertanto, il nostro tardivo ricordo riconoscente; e questo profilo, da questa rivista, espressione divulgativa dei problemi e delle glorie della città, nel mio intento è l’omaggio di uno studioso che tanto gli deve ed una spinta a che i cittadini tutti, con a capo le autorità civili e religiose, rendano il dovuto tributo di riconoscenza con iniziative che possano far conoscere i grandi meriti di chi ha innalzato alla sua città con monumento “più duraturo del bronzo” (aere perennius).
(Forse non è inutile ricordare a noi tutti che, ahimè, l’esortazione di Don Virzì di rendergli i dovuti onori all’Arciprete Giuseppe Plumari, è rimasta fino ad ora totalmente inascoltata). Francesco Rubbino
Qui di seguito riportiamo le copertine ed alcuni dipinti e disegni dei tre volumi della “STORIA DI RANDAZZO ” :
Di seguito alcune pubblicazioni del Plumari. Li puoi trovare anche nella sezione LIBRERIA.
Il Faust goethiano diceva che nel suo petto abitavano due anime (“Zwei Seelen wohnen in meiner Brust”): ma bisogna riconoscere che nel petto dell’artista siciliano Nunzio Trazzera, che è nato a Randazzo nel 1948, di anime ne abitano parecchie, perché, nella sua multiforme attività creatrice, si è cimentato con uguale successo non solo nella pittura, ma anche nella scultura in bronzo, nella ceramica policroma e nella terracotta. Del resto, se chiedete a lui stesso una classificazione della sua arte, Nunzio Trazzera vi risponderà che egli non è un pittore o uno scultore, bensì un “pittoscultore”: cioè egli riconosce – e le sue numerose opere lo dimostrano – che nella sua vitalità artistica “pòntano ugualmente” (come direbbe Dante) sia la espressione pittorica che quella scultorea; e che queste due arti vanno intese nella più ampia gamma possibile di espressione, per cui, accanto alle tele e alle opere pittoriche, troviamo le statue e i busti e i bassorilievi in bronzo: ed accanto alle ceramiche policrome di notevoli proporzioni (come il “Cristo Re” di Montelaguardia, ed il “San Cristoforo” di Porta San Martino a Randazzo), troviamo pregevoli opere di terracotta, quali le formelle del “Trofeo S. Ignazio”, e gli artistici vasi che adornano le Piazze di Piedimonte Etneo, nonché gli smalti. La vigorosa poliedricità di Nunzio Trazzera – che storicamente si riallaccia ad una nobilissima tradizione siciliana, che partendo dal messinese Francesco Maurolico del Cinquecento (che fu al tempo stesso astronomo, matematico, storico e grammatico di vaglia), arriva al belpassese Nino Martoglio (che nel primo Novecento è stato giornalista, commediografo, poeta bravo tanto in siciliano quanto in italiano, nonché organizzatore teatrale e critico letterario non comune) – è stata messa in rilievo dal corale apprezzamento di illustri critici a livello nazionale, quali Senzio Mazza ed Orietta Giardi, che già nel 1979 fecero notare la dimensione cosmica e l’impatto cromatico della pittura di Nunzio Trazzera; ed è stata confermata dalle lodi unanimi che gli sono state rivolte da noti critici siciliani, quali l’indimenticabile don Salvatore Calogero Virzì, e i viventi Salvatore Agati ed Alfio Ragaglia da Randazzo, che hanno rispettivamente fatto notare l’innato talento creativo, la genuina interpretazione del messaggio umano, ed il reale contributo culturale che le opere di Nunzio Trazzera arrecano allo sviluppo spirituale del popolo siciliano in genere, e della comunità randazzese in particolare. Questa grande carica umana deriva a Nunzio Trazzera non solo dalla sua vocazione artistica, e del quotidiano contatto con i giovani suoi allievi, che riconoscono in lui non un docente, ma un Maestro: ma deriva soprattutto anche dalle sue vaste esperienze umane, dovuti ai suoi lunghi soggiorni fuori dalla Sicilia, e segnatamente in Lombardia: onde la sua arte risulta arricchita da questi corroboranti apporti extra-insulari. Io stesso ho avuto il piacere di conoscere Nunzio Trazzera non in Sicilia, ma a Milano, in una delle trasmissioni che negli anni Ottanta si tenevano a Radio Montestella per i Siciliani residenti al Nord, e che erano condotte da mio fratello comm. Pino Correnti, allora direttore del prestigioso Teatro Manzoni di Milano. Questo infaticabile artista, così ricco di creatività nei vari campi dell’arte figurativa, e che nelle sue opere vuole e sa esprimere il desiderio di pace, di lavoro, di libertà e di amore, che sono sentimenti profondamente radicati nel cuore dei veri siciliani, merita quindi l’apprezzamento e il plauso di quanti, come l’autore di queste righe, credono fermamente, e fermamente sostengono, che la Sicilia non è soltanto mafia, come mostrano di credere scrittori e giornalisti di grande nome come Sciascia o Bocca, perché invece la Sicilia è la inesausta generatrice di santi, di scienziati, di scrittori e di artisti, come Archimede, come Antonello, come Bellini, come Quasimodo, come Pirandello e come Verga.
Nunzio Trazzera, pittore e scultore nasce a Randazzo nel 1948. E’ stato docente di educazione artistica a Corsico, Rozzano, Milano, Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, Maletto e Randazzo. Fin dal 1966 ha partecipato a varie manifestazioni artistiche con mostre personali, collettive, rassegne e fiere in varie città italiane ed estere.
Nunzio Trazzera
Sue sculture in bronzo, ceramica, legno e pittoriche sono presenti in varie collezioni e arredi pubblici e privati.
Insignito di vari premi e riconoscimenti, figura con biografia, opere e articoli in numerosi libri, riviste specializzate, giornali ecc.
Nunzio Trazzera si presenta
NunzioTrazzera
Non è un’impresa agevole riannodare i fili di un cammino nell’arte figurativa, nato da una naturale inclinazione e vissuto in continua evoluzione. E forse è per questo che, anche oggi, nonostante le mete raggiunte, il mio animo non si sente appagato.
I miei sentimenti e affetti, la mia terra, la mia immaginazione creativa, i problemi dell’uomo, della società nel suo complesso e nel suo specifico, i contrasti etnici e religiosi, mi ispirano e mi sollecitano a nuovi impegni.
E’ un’agitazione interiore che mi punge e mi assilla e che non troverà quiete se non nel parto di nuovi lavori. Ma troverà mai quiete il mio animo?
Spero di no, perché quando un animo si sente appagato è orto, quando l’immaginazione e la fantasia si sono spente non si vive, quando l’ardore creativo si è esaurito la vita, intendo quella artistica (ma non solo) è finita.
Io non vorrei giungere a tale giorno, perché ciò vorrebbe dire che né la natura che ci circonda, né il calore degli affetti più belli parleranno più al mio cuore. Tutto questo ha animato e guidato, nel tempo, la mia attività e il mio impegno nel campo dell’arte.
Nunzio Trazzera
Nunzio Trazzera
La presente raccolta, pertanto, serve a documentare, da una parte, quanto fin qui realizzato: sogni vissuti e realizzati con le varie tecniche raffigurative; dall’altra vuole essere un omaggio ai miei familiari, agli amici ed estimatori, che, da sempre, con atti concreti e sinceri, mi sono stati e mi sono discreti sostenitori e pungolo per la mia attività. Vuole infine essere l’occasione per ringraziare quanti – e sono veramente moltissimi – hanno onorato e reso possibile la collocazione e l’esposizione delle mie opere, sia in Italia che all’estero; quanti le hanno richieste per utilizzare nella pubblicazione di libri o in riviste a carattere artistico-culturale e in giornali.
Questo consenso, accompagnato sempre da continui riconoscimenti ed autorevoli attestati, ha favorito e favorisce la crescita, l’evoluzione, la maturazione, l’autonomia culturale e ispirativa per la realizzazione dei miei sogni.
Ed in questo stato fortunato perché nato, formato e vissuto in quella parte della Sicilia orientale che si specchia nell’azzurro del mare Ionio, ricco di storia e civiltà; in quella parte dove maestoso si erge il vulcano etna con la sua mole cangiante, con i suoi sussulti ora lievi ora minacciosi, con le sue strade incandescenti tra zone ora aride ora innevate, sempre presente e vivo; in quella parte resa famosa per la bellezza e varietà delle sue coste e insenature, per i suoi pendii fertili e variamente colorati e profumati da estesi agrumeti e frutteti, da una lussureggiante vegetazione di boschi e sottoboschi.
Qui, ai piedi dell’Etna, sono nato, qui la mia mente si è dischiusa alla conoscenza del vero e del bello, qui il mio cuore ha cominciato a palpitare e a commuoversi. Loro nutrimento sono stati la natura aspra ma avvolgente, i contrasti cromatici, la purezza e il profumo dell’aria, la varietà della fauna e della flora, l’operosità e la calda sensibilità della gente, gli usi, i costumi, le tradizioni, le lotte, le sconfitte e le vittorie.
Nunzio Trazzera – Randazzo
Qui, in questa zona della Sicilia Ionica, mi sono formato, qui dove fin dall’antichità si sono avvicendati popoli diversi, Greci, Latini, Arabi, Normanni ed altri, lasciando mirabilissime testimonianze architettoniche, scultoreee pittoriche.
Qui in questa gemma dello Ionio, sono nati o vissuti artisti e pensatori la cui fama è universalmente nota ed onorata, quali Archimede, Pitagora , Antonello da Messina, Giovanni Verga, G. Sciuti, Domenico Tempio, Vincenzo Bellini, Santo Calì, Francesco Messina, S. Fiume. In questo grandioso scenario culturale ed artistico, la natura ha giocato un ruolo di vera protagonista.
Essa infatti di continuo genera, ispira, stimola, apre la mente e il cuore di coloro che sono dotati da natura ed educazione a quella particolare sensibilità che abilita a creare o ricreare nuove espressioni d’arte in tutti i campi, sia poetiche che letterarie e artistiche , in particolare figurative. Questa realtà, questo patrimonio naturale ed umano bastano da soli a mantenere viva e sempre attuale una tradizione di artisti e opere apprezzati presso tutti coloro cui stanno a cuore i più alti valori della cultura, del pensiero e del bello.
Nunzio Trazzera
Questa atmosfera, questa specificità della mia terra, ha forgiato la mia sensibilità, ha caratterizzato la mia arte nel suo divenire, ha generato le mie opere. Ancora giovanetto ho sperimentato una forte quanto fantastica sensazione: nel silenzio vivo della natura, con lo sguardo fisso nella cangiante atmosfera, fui attratto da una nuvoletta che candida si stagliava nell’azzurro del cielo.
Quasi giocando, la nuvoletta lentamente si dissolveva e si ricomponeva stuzzicando dolcemente la mia immaginazione, si sfibrava e lacrimava sulla terra, sugli alberi, sulle cose.
Questa semplice e fortuita visione ha segnato l’inizio di una ininterrotta riflessione sul ciclo perenne della vita, sul motto di Eraclito, sull’arte corinzia, su Buonarroti, sul dinamismo barocco, sui macchiaioli, sui futuristi e le varie avanguardie.
Inizia così quell’avventura esistenziale e artistica che solo in parte trova posto in queste pagine. Nell’opuscolo, infatti, sono presenti solo alcuni dei momenti di impegno e di confronto sereno con la natura, e questi mai statici ma sempre e in continuo divenire, dove protagonista è l’uomo, col suo impasto di sentimenti, passioni, desideri, vizi, virtù: tutto l’uomo, capace di condizionare in positivo o in negativo la realtà in cui vive ed opera.
NUNZIO TRAZZERA
Porta San Martino, Randazzo – Il San Cristoforo opera di Nunzio Trazzera.
Hanno scritto di Nunzio Trazzera
Artisti contemporanei alla ribalta di Salvatore Calogero Virzì
Nunzio Trazzera – E nato a Randazzo (CT) dove vive e lavora in via Portali 31. Pittore – scrittore.
Opere di Pittura: Maternità cosmica. Sacro e Profano. Simbiosi. Mediterranietà di Nunzio Trazzera
Se l’arte è tale quale fu definita “passaporto di libertà”, dobbiamo dire che Trazzera è definitivamente avviato verso questa libertà che raggiunge l’estasi della contemplazione in tutti i campi della sua creatività d’artista. Egli infatti si rivela vero artista sia come pittore, sia come scultore, come ceramista e fonditore.Il suo innato talento creativo rivela un tocco di disegno incisivo, una tavolozza cromatica varia, palesemente efficace che, vivificando il disegno e l’idea assoluta del soggetto, si innalza a dimensioni di vita che si avviano verso un cosmico dinamico. Questo del dinamismo delle linee e della scelta del soggetto più opportuna e atta ad esprimerlo per me sono le caratteristiche più immediate del Trazzera: movimento, ridda di colori sgrananti intramezzati da chiaroscuri evanescenti, movimento convulsivo che esprime un idea, una vita nuova che agita le sue rappresentazioni, di una efficacia talmente efficace che ci porta nel sogno e nello sbalordimento. Opera vasta questa ed espressiva che trova la sua completa espressione in soggetti presi dalla vita giornaliera visti con occhio d’artista cui si associa l’irreale e il cosmico pervaso tutto non da cerebralismo ma da un sentimento che parte dal cuore, da una esperienza vissuta da una realtà che ci colpisce momento per momento , raggiungendo vette di dolcezza, di soddisfazione, di rimpianto del momento che fugge. Paternità dunque cosmica, pervasa da una esperienza che diventa conquista e messaggio di vita: disegno incisivo., il colore astratto o a chiazza dai contorni netti o sfumati, il movimento convulso ma sempre contenuto e sempre pervaso dall’idea che vuole esprimere, fanno del Trazzera uno degli artisti più rappresentativi tra i giovani siciliani che hanno già raggiunto la loro identità e la loro personalità artistica.
Salvatore Calogero Virzì
Il dinamismo cosmico
Le opere di Nunzio Trazzera di Giusy Paratore
Novara – Che Novara amasse l’arte del dipingere era già noto; a far riscuotere numerosi consensi, però ha contribuito il numero impressionante di visitatori, che ha dedicato tante ore ad apprezzare le numerose mostre preparate con cura dall’Amministrazione Comunale Novarese. Le vie del centro storico, in questo caldo mese d’agosto, pullulano di artisti che, con l’esposizione dei quadri, stanno facendo rivivere le antiche tradizioni di Novara. Per rendere più surreale la mostra, oltre ad alcuni locali privati ed al palazzo <<Stancanelli>>, sono state messe a disposizione degli artisti alcune chiese.
Nel tempio di S. Francesco, fra luci soffuse, ha esposto dall’11 al 18 agosto le sue pregiate opere lo scultore e pittore di Randazzo, Nunzio Trazzera.
Il successo ottenuto dall’artista etneo con la mostra dal tema; <<il dinamismo cosmico>> le sue opere, infatti, sono state lungamente ammirate dagli amanti della pittura. Tutti sono rimasti colpiti e meravigliati dell’espressione artistica che Nunzio Trazzera riesce a trasmettere attraverso i suoi quadri. <<La sua pittura brilla di una luce interiore che evidenzia la luminosità dei colori – afferma Rosalba Buemi – vivifica l’espressività dei personaggi, anima la natura e le cose, trasportandoci in una dimensione cosmica, in una vitalità piena in un trionfo di luce e colori che ci fanno volteggiare nell’infinito come solo i grandi sanno fare. Nelle sue tele – prosegue Rosalba Buemi – l’armonia dei colori da origine alla linearità ed all’essenzialità delle forme.
Il trionfo cromatico ci trascina nell’interiorità del sentimento: l’amore, la gioia di vivere, gli affetti familiari, i problemi sociali, il dinamismo delle sue opere in ceramica, l’esempio più alto è sicuramente l’abside della chiesa di Montelaguardia di Randazzo, dove il Cristo muove le gambe e le braccia verso gli uomini per accoglierli nella sua infinitezza e le figure umane s’innalzano verso l’alto>>. Nunzio Trazzera, nella storica chiesa di S. Francesco, ha esposto opere che riguardano i vari campi della figurazione.
Lo scultore, nelle sue creazioni vere o fantasiose, è riuscito ad imprimere una forte personalità, le sue opere sono in continua trasformazione nella cromia, nei volumi e nelle masse senza corposità e peso.
La Donazione – Bronzo a c.p. di Nunzio Trazzera
L’artista di Randazzo è riuscito a fare sprigionare dalle sue <<magiche>> mani soluzioni originali di un particolare equilibrio, che portano al sogno, alla riflessione ed alla contemplazione.
Le sue opere riescono, con naturalezza, a rendere partecipe il fruire degli eventi instabili con quali è destinato a convivere con altri eventi moderni.
L’arte di Trazzera, attraverso lo sfocare volontariamente le figure, assume una funzione ludica; il pittore <<gioca>> per raggiungere una profondità psicologica, che porta a soddisfare le sue esigenze emotive.
Questi <<ingredienti>> hanno fatto conoscere ed apprezzare Nunzio Trazzera ed i consensi ottenuti saranno da stimolo per realizzare altre opere poliedriche di pittura e di scultore in terracotta ed in bronzo.
Giusy Paratore
Angelo Manitta: libertà e sublimità nell’arte di Nunzio Trazzera.
Bronzi 2012- Randazzo
L’uomo, con i suoi problemi, i suoi affetti e i suoi sentimenti di gioia, di coerenza, di amore e soprattutto di impegno sociale, sta al centro della composizione del Trazzera.
L’espressione “l’uomo misura di tutte le cose” in pochi pittori e scultori contemporanei è forse cosi vera come in lui, che parte dal passato, si forgia nel presente e approda nel futuro. In questa evoluzione l’emozione interiore si oggettiva e si solidifica in una visione unitaria e complessa che emerge da un sottofondo realistico e dinamico per giungere al “sublime”.
Il sublime è un’estasi laica, una contemplazione della vita nelle sue varie sfaccettature. Il sublime trascina il fruitore dell’opera d’arte “non alla persuasione – come afferma l’autore greco nel saggio “Il sublime”, ma all’estasi, perché ciò che è meraviglioso s’ac-compagna sempre ad un senso di smarrimento e prevale su ciò che è solo convincente e grazioso”.
La scultura “Danza” è espressione di questa sublimità e soprattutto di quella libertà interiore dell’uomo, espressa attraverso i movimenti agili e snelli delle due figure.
Nunzio Trazzera, nato a Randazzo (CT) nel 1948, insegna Educazione Artistica nelle scuole statali. Pittore e scultore, ha esposto i varie città italiane e all’estero con personali e collettive.
Molti critici si sono interessati alle sue opere, tra cui F. Sofia, S. Modica, S. Correnti, S. Mazza, O. Solipo, G. Gullo, G. Trabini, Insignito di vari riconoscimenti, le sue opere figurano in numerose collezioni pubbliche e private. Il suo percorso artistico, collocato nell’ambito del post-modernismo, ma volto verso il futuro, giunge ad una soluzione originale dell’arte, che affascina il lettore sia per il contenuto che per la forma.
La sua arte comunque ha sapore di classico e universale, ed è punto d’incontro tra l’interiorità che scorre ed opera nell’uomo (funzione soggettiva) e l’esteriorità che scorre ed opera nella vita quotidiana (funzione oggettiva).
GIOVANNI GENTILE E IL PROFESSOR PIETRO SILVIO RIVETTA TODDI ACCOLGONO L’AMBASCIATORE GIAPPONESE TOSHIO SHIRATOR
Pubblicò inoltre numerosi volumi riguardanti la cultura, la grammatica e la storia del paese nipponico. Personalità poliedrica, Rivetta si cimentò nel cinema, con la direzione del film Il castello dalle cinquantasette lampade (1920) e in seguito con la creazione a Roma della casa di produzione Selecta-Toddi nel 1922, dove fu principale regista e soggettista con lo pseudonimo Toddi, affiancato da sua moglie, la vignettista russa Vera D’Angara, «prima attrice» e anch’ella soggettista della casa.
Attiva per poco più di un anno, la Selecta-Toddi produsse complessivamente 12 pellicole, come “L’amore e il codicillo”, “Fu così che…” e “Italia, paese di briganti?”. Tra gli attori che lavorarono nella casa vi furono Diomira Jacobini, Giuseppe Pierozzi, Mario Parpagnoli, Renato Malavasi e altri.
Nel 1926 fu nominato reggente consolare in Giappone. Nel 1927 passò a Il Tevere, nel 1929 fu direttore della rivista satirica Il travaso delle idee e in seguitò collaborò con Il Popolo di Roma.
Nel corso degli anni trenta collaborò all’EIAR, e alla radio Rivetta ideò e condusse un programma radiofonico, L’ora del dilettante le cui trasmissioni partirono nel 1939 e che fu uno dei più popolari del periodo antecedente alla seconda guerra mondiale.
In precedenza Rivetta aveva ideato e condotto, insieme ad Achille Campanile, un altro programma radiofonico dal titolo Il mondo per traverso, ove narrava al pubblico le curiosità incontrate durante i suoi numerosi viaggi all’estero. Nel 1940 il film Validità giorni dieci diretto da Camillo Mastrocinque, il cui soggetto era tratto dall’omonimo romanzo di Rivetta, ottenne un discreto successo di pubblico e di critica. Nel 1941 fu direttore della rivista mensile italo-giapponese Yamato, organo della Società degli amici del Giappone fondata nel medesimo anno[4].
Sempre agli inizi degli anni quaranta, istituì a Roma la “Scuola del Benessere Integrale”, fondata sul principio del minimo sforzo e del massimo rendimento. Rivetta infatti fu tra i padri della demodoxalogia. Al termine della guerra fu docente alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma.
Scrittore molto fecondo e attivo fino ai primi anni del dopoguerra, Rivetta pubblicò numerosi volumi, inerenti per la maggior parte alla storia e cultura giapponese, ma anche manuali linguistici e divertenti libri in cui “giocava” con le regole grammaticali della lingua italiana, e altri scritti in varie lingue.
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I viaggi del Conte Pietro Silvio Rivetta, in arte Toddi
Nel 1921 in un albergo di via Basilicata a Roma, l’Hotel Elite et des Etrangers, il poeta Gino Gori aveva messo in piedi una sala di Cabaret, facendola decorare da Depero e dandole per nome La Bottega del Diavolo.
Il cabaret era composto da tre sale: Paradiso, in alto, Purgatorio, in mezzo, Inferno, sottoterra. Vi si esibivano in originali sketch e curiosi giochi, fatti con immaginifiche invenzioni (come il vatefonelettronico, una misteriosa ‘macchina calcolatrice di poesia’), ma anche in recital di poesie e messinscene, scrittori e artisti del futurismo italiano: il patron Gori, Luciano Folgore, Massimo Bontempelli, Massimo Prampolini, Filippo Marinetti e il Conte Pietro Silvio Rivetta, in arte Toddi. Quest’ultimo, amante più degli altri delle stranezze e delle possibilità combinatorie della lingua italiana (suo è uno dei primi libri di Enigmistica scritti in Italia), nonché delle originali proprietà paesaggistiche e monumentali delle città italiane, lasciando ogni tanto il teatrino romano con i suoi giochi dinamici e avveniristici, si dedicava a giri per la penisola alla ricerca dei luoghi dalle caratteristiche curiose e strane. Dai racconti di una serie di viaggi in Italia effettuati da Toddi dalla fine degli anni 20 ai primi anni 30, venne fuori un libro dal titoloItinerari bizzarri, pubblicato da Ceschina, nel 1934.
Tra i luoghi visitate da Toddi per la compilazione della sua geografia dell’Italia insolita e curiosa parecchi sono quelli siciliani e ad aprire il libro è la descrizione di Isola delle Femmine. Toddi ne fa un simpatico bozzetto: ‘Isola delle femmine non è un’isola e non vi sono femmine più che altrove. Ma che importa? Se si inviano cartoline illustrate, di qui, ciascuna di esse dà al destinatario l’impressione che il mittente abbia compiuto una avventurissima gita nel paese delle Amazzoni. Invece, a Isola delle Femmine si arriva comodissimamente in treno o in auto, da Palermo, costeggiando per venti minuti soltanto la sponda meravigliosa. Non lontano dal piccolo centro palermitano, Toddi, freneticamente impegnato sia come giornalista e direttore del Travaso delle Idee, sia come saggista e autore di manuali scolastici, sperimenta quale pace può dare Monte san Giuliano, piccolo paesino in provincia di Trapani, che nella sua tanto alta quanto isolata postazione sembra ‘volersi difendere dal contagio della modernità’: attraversato da uomini con mantelli che finiscono in un cappuccio a forma di elmo e da donne avvolte in manti di seta nera, sembra di stare, annota Toddi, ‘tra ombre del passato che scivolano senza rumore nel silenzioso paese del mistero. Ma la scoperta più curiosa Toddi la fa a Randazzo, grosso centro alle pendici dell’Etna, che per una sua specifica particolarità gli sembra ‘la città della perfezione.
Infatti, osserva Toddi, a Randazzo ovunque domina ed emerge il numero tre, che è appunto il simbolo classico della perfezione: tre sono le cattedrali, ognuna delle quali esercita la funzione di Chiesa Madre a turno per tre anni; in tre copie sono gli oggetti sacri posseduti dalle tre chiese; addirittura capitò, scrive Toddi che nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la Chiesa di San Nicola – che funzionava da Cattedrale del triennio – celebrò solenne funerale; ma, dato il caso specialissimo, anche le altre due chiese vollero celebrare il suo: e i funerali furon tre.
Spiega Toddi: ‘Questa tripartizione, corrispondente a tre rioni, si connette con l’origine di Randazzo, città composta da tre diverse popolazioni che, sino al XVI secolo, parlavano ancora tre dialetti diversi’. E se a Randazzo dedica un ampio capitolo del suo libro, ricostruendone storia, costumi e feste, non meno intrigante e strana gli appare l’area dello Stretto di Messina, carica di racconti mitici come quello di Scilla e Cariddi ( ‘Scilla è calabrese, Cariddi siciliana: forse perciò più turbolenta, ché più prossima a terra vulcanica: può mettere davvero in pericolo le imbarcazioni’), e leggendari come le vicende di Cola Pesce.
Ma al di là di questi e altri aspetti bizzarri che simpaticamente Toddi poteva cogliere vagando per la Sicilia (magari rivelando che Caltanisetta detiene il record della lunghezza onomastica provinciale essendo composta da cinque sillabe) e che tanto interessavano la gran parte dei suoi lettori (appassionati di rebus ed enigmi), agli stessi, e a un vasto pubblico nazionale, lo scrittore romano elencava i tanti aspetti di pregio di luoghi ancora poco noti, della Sicilia del primo novecento: la torre dell’isolotto di Isola delle Femmine, gli stupendi panorami di Monte San Giuliano da dove si può avvistare il Capo Bon della Tunisia, il magnifico e raffinato Museo Vagliasindi di Randazzo, pieno di rari e prestigiosi manufatti dell’antichità greco-romana.
Nel Libro ” Itinerari bizzarri – Curiosità italiche ” il Toddi scrive un intero capitolo ( XVI , pag 175/185) sulla nostra città intitolandolo: ” LA CITTA’ DEL 3 ” che qui riportiamo integralmente, ringraziando Salvatore Grasso per avercelo prestato.
LA CITTA’ DEL 3
Un laghetto periodico – La prediletta dell’Etna – Un parente di Ernani Involami – Le viventi statue digiune – il tempo è relativo .
Se – come afferma un detto latino non aureo ma secolare – omne trinum est perfectum – la città della perfezione è sulle pendici settentrionali dell’Etna: Randazzo.
Una locale tradizione vuole che Randazzo sia << città >> a causa di una illusione ottica di Carlo V: l’Imperatore, vedendo da lontano tre merlati campanili, li prese per importanti castelli e domandò: ” Come si chiama questa città che ha tre si dei castelli ? “
I notabili randazzesi, gongolanti per l’abbiglio preso dall’Imperatore, acciuffarono la bella occasione e ringraziarono Sua Maestà Cesarea per il titolo di << città >> che egli si era compiaciuto di conferire a Randazzo.
Ciò sarebbe avvenuto, secondo la tradizione, presso quel bizzarro lago di Gurrida il quale esiste solamente una parte dell’anno: in estate si asciuga e diventa pascolo.
Per trovare un altro lago periodico dobbiamo recarci all’estrema frontiera orientale d’Italia, nella Venezia Giulia, oltre Postumia, ove il lago Circonio è periodico anch’esso: il grande lago – che sol per un piccolo lembo è in territorio italiano, e gran parete in Jugoslavia – d’estate è coltivato a grano, chè le acque sono scomparse, inghiottite da caverne e pozzi.
Ma l’episodio di Carlo V sulle periodiche sponde del laghetto di Gurrida è pura leggenda: una delle tantissime che fioriscono qui: sgorgano e si solidificano come i getti di lava i quali nereggiano, a larghe strisce paurose.
Randazzo è la città più vicina al cratere dell’Etna: ne dista appena 15 chilometri. L’audacia di queste case medievali, ricamate di bifore e solide nelle mura massicce, non ha irritato il vulcano, il quale ha sempre risparmiato Randazzo, inerpicata a mezza costa da epoca remotissima.
Era certamente già << città >> – con onori ed oneri – nell’epoca in cui sarebbe avvenuto l’episodio di Carlo V. Negandolo, sicchè, non le si toglie nulla: anzi !
Che Randazzo sia di origine assai antica è fuori dubbio: che tutto il vicinato sia regione ricchissima di cimeli attici, sicelioti, italioti, è documentato dalla mirabile collezione del Museo Vagliasindi: ma la bella fantasia linguistica si è sbizzarita nelle più stravaganti filiazioni per stabilire la paternità del nome di Randazzo. E’ vero che la temerità etimologica non ha confini: e non si basa su una calunnia l’epigramma del cavalier Jacques de Cailly contro Gilles Mènage:
Alfana vient d’equus san doute:
mais il faut avouer aussi
qu’en venant de là jusqu’ici
il a bien changè sur la route!
Se il pedante maestro di Madame de Sèvignè riusci a far discendere alfana da equus, non c’è da stupirsi che si sia voluto far derivare Randazzo del Tiracium di cui parla Plinio (III, 91).
La foto dell’oinochoe presente nel libro di Toddi
Tra questa e altre etimologie – elleniche, latine o bizantine, collegate a nomi geografici o personaggi – assai sensata ci sembra l’opinione popolare: randazzu, in dialetto locale, non significa forse << grande, grandioso >>?
Ebbene: Randazzo è randazzu.
La grandiosità, Randazzo la conserva ancor oggi, pur semidiruta com’è, mentre si avvia a risurrezione per un intelligente piano regolatore, una bella strada che abborderà l’Etna per congiungersi a quella che ascende da Catania.
Saran messi in valore tutti quei gioielli d’arte che qui si incontrano ad ogni angolo: bifore, colonnine agili, rosoni, palazzi maestosi che han l’aspetto di maniero, portali ingenui di botteghe medievali. La V òlta di S. Nicolò, o via degli Archi degli Uffizi, è – pur cosi com’è ora – un idillio storico-pittoresco: quattro archi allineati su la viuzza stretta, in pietra cupa allineata da ciuffi vegetali: a sommo di una bifora ad esile colonnina tòrtile, forma giocondo irsuto pennacchio pallido un’acrobatica agave in cerca di sole.
Randazzo è << la città del tre >>. Cosi può chiamarsi questa bizzara cittadina in cui, ancor oggi, prosperano tre cattedrali.
Tutta la storia di Randazzo è, fondamentalmente, la storia della rivalità tra chiese: Santa Maria, S, Nicola, S. Martino.
Aspetto austero, esternamente, conserva la trecentesca Santa Maria, dalla poderosa struttura in lava: una lapide nella sacrestia che la costruzione cominciò nel 1215:
mille duecento decem quinque septena fluebant
tempora post Genitum Sanctae deVirgine…
Il resto della lapide è enigmatico o addirittura enigmistico e menziona, come artefice, un Leo Cumier del quale non si ha notizia.
Probabilmente questo Leo Cumier non è mai esistito: fu un Leo non meglio identificabile, chè, in vece Cumier, va letto culmine….
Il Leo Culmier menzionato autorevolmente da alcuni storici sarebbe sicchè un personaggio simile al Re Tappella o ad Ernani Involami.
All’altro estremo della città, presso il palazzo Ducale, è la chiesa di S. Martino, troppo rimaneggiata in varie epoche, ma che ha, salvo, un meraviglioso merlato campanile trecentesco in lava, con bifore e trifore che la lava e la pietra calcare pallida zèbrano graziosamente.
Fra le due chiese, nel centro della città, è la << statua di Randazzo vecchia >>, bizzarra figura umana che la compagnia di un’aquila, un serpente e un leone rendono sibillina.
Sono ancora tre curiosi simboli, in questa strana città ove domina il numero 3.
Scrive Toddi: ….giocondo irsuto pennacchio pallido, un’agave in cerca di sole”. Randazzo Via Archi degli Uffizi.
Chi sa con quali argomenti reconditi, si vuole che la statua sia la veridica effigie del ciclope Pyracmon. Del resto anche Virgilio ci fornisce pochi connotati di lui: ci dice (Eneide, VIII, 425) che fosse nudus: e questo Pirammone è nudo. Il pudore delle autorità randazzesi gli ha donato una metallica foglia.
Non ci fu modo, attraverso secoli, di conciliare con un compromesso qualsiasi le tre chiese, si che una sola- come ovunque altrove . fosse la cattedrale.
Perciò anche oggi le cattedrali sono tre: ognuna per un triennio, a turno.
E nessuna delle tre cede all’altra, nemmeno come primato artistico: ognuna possiede una ricca mazza pastorale, tre copie dello stesso lavoro. E cosi per i calici ed altri oggetti dei tre tesori.
Poco più che un secolo fa, nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la chiesa di S. Nicola – che funzionava da cattedrale del triennio – celebrò solenne funerale: ma, dato il caso specialissimo, anche le altre due chiese vollero celebrare ciascuno il suo: e i funerali furono tre.
Questa tripartizione, corrispondente a tre rioni, si connette con l’origine di Randazzo, città composta da tre diverse popolazioni che, siano al XVI secolo, parlavano ancora tre dialetti diversi.
Non c’è da stupirsi che avessero tre cattedrali, tre vescovi…
Unica, però, è la bara, strano appellativo – che nulla ha di funebre – di un singolare altissimo trofeo recato in processione nella festa dell’Assunzione: l’armatura, di legno e ferro, alta 20 metri e rivestita di cartone variopinto, sorregge figure simboliche viventi: sono fanciulli vestiti da pretoriani, martiri o angeli, legati a un grosso tamburo rotante.
I ragazzi – martiri tutti, anche se vestiti da pretoriani – dovrebbero soffrire di mal di mare, per il rotar del tamburo cui son legati: ma non c’è pericolo: per un paio di giorni sono stati tenuti prudentemente a digiuno.
Se la Randazzo medievale lascia un ricordo indimenticabile, una impressionabile non meno forte, diversa. L’archeologo, con occhi cùpidi, ammira quella ricca collezione di vasi, tra i quali la celebre oenochoe raffigura il mito dei Boreadi che liberano Fineo, re di Salmidesso, dalle Arpie. Intatto e perfettamente conversato, nella vernice neppur screpolata, è questo recipiente con cui si attingeva il vino dal kratèr per versarlo nel bicchiere, ventiquattro secoli or sono. Nel mondo d’oggi non ne son rimasti che tre, raffiguranti questo mito finèide: ma la pittura della oenochoe Vagliasindi supera le altre per bellezza.
Superano anche, in finezza di fattura i gioielli di qualunque museo di Europa quelli che son racchinosi nelle vetrine, qui, presso la finestra che si apre sulla valle dell’Alcàntara, la quale custodisce ancora chi sa quanti altri tesori. Il proprietario del Museo, podestà di Randazzo, ti mostra con legittimo orgoglio pithi e olpe, aryballi e trulle, helike e anelli: grossi recipienti di argilla, con coperchi a chiusura perfetta quanto quelli dei modernissimi thermos.
Ma soprattutto ti commuovono i piccoli vasi che ornarono la tavola di toletta delle belle dame, più che duemilaquattrocento anni or sono. Insinuando le dita nell’ansa graziosa, questa ti sembra ancor tepida, per il calore della mano giovane e bella che la teneva.
Le teorie einsteiniane affermano che il tempo è una nozione << relativa >>. Oltre Einstein lo dice, con più efficacia, anche la storia, quando la storia diventa bellezza e poesia.
Randazzo, febbraio 1934, XII.
Alcune pubblicazioni di questo strano, ma interessante personaggio.
PIETRO SILVIO RIVETTA
” Non tutto il male viene per nuocere ? Bugia ! Ogni male viene per nuocere. Se produce qualche beneficio , è un male fatto male “.
Nostra intervista esclusiva con l’egittologo Maurizio Damiano, randazzese.
Maurizio Damiano
Egittologo, archeologo, Maurizio Damiano è oggi in Italia e all’estero un’autorità in materia, un nome associato a numerosi scritti, a tante spedizioni, organizzate e dirette in prima persona, un’attività scientifica ad alto livello intrapresa con la caparbietà e la passione che soltanto i siciliani possiedono, quelli che sentono scorrere nelle vene il fuoco dell’Etna, e fin da piccoli sono avvezzi ad inerpicarsi per i suoi impervi sentieri. Nasce a Randazzo nel 1957, i genitori sono due medici, l’ambiente familiare piuttosto aperto e stimolante, non mancano i viaggi ed i riferimenti culturali, e poi c’è il nonno, Antonio Petrullo, con i suoi ricordi dell’Africa, a gettare inconsapevolmente un seme destinato a germogliare con gli anni.
Né va dimenticato lo zio materno, Alfio Petrullo, geniale scrittore, poeta e ricercatore del Tutto che pone i semi di un’apertura mentale, all’epoca di certo inusuale, nella mente del giovanissimo Maurizio. Quest’ultimo frequenta la scuola statale, le medie al San Basilio, ed il Liceo, dove incontra, come professore di Storia dell’Arte, don Virzì, ed ha modo di affinare, nei lunghi colloqui con lui, la già grande passione per l’archeologia, nata probabilmente dalla fascinatio esercitata su di lui da bambino dagli spettacoli al Teatro Greco di Siracusa che vedeva assieme ai genitori; una passione per l’archeologia indirizzata e resa più solida dalla preparazione con don Virzì, e che Maurizio esterna esplorando con gli amici il territorio circostante. A quel tempo coltiva anche l’hobby della pittura.
Poi la svolta: a 17 anni, assieme alla famiglia, lascia Randazzo, si iscrive a Medicina sotto la pressione dei genitori, ma poi la lascerà per Scienze naturali all’Università di Pavia, ma si laurea nell’88, perché nel frattempo premono altri interessi: la scintilla scocca quando visita il Museo Egizio di Torino, e ne incontra il direttore, Silvio Curto, poi sovrintendente per le Antichità Egizie in Italia, sotto la cui guida inizia gli studi di Egittologia.
Da quel momento ha incontrato la sua vocazione e la sua strada. Si specializza in Archeologia Egizia; poi in Storia ed Archeologia Nubiana, tiene corsi e seminari, diventa collaboratore del Museo Egizio di Torino, e dal 1998 inizia l’attività di docente all’Università Aperta di Imola.
A quella teorico scientifica si affianca un’attività pratica frenetica ed incessante: fonda e coordina il Progetto Nubia (1979-1988), finanziato negli anni da vari sponsor, tra cui il ministero per gli Affari Esteri e l’istituto Italo-Africano, lavora in Sudan con varie agenzie dell’ONU; dal 1979 effettua ricerche nei deserti d’Egitto e Nubia.
La Nubiologia diviene la sua prima specializzazione, il«Progetto Nubia»,infatti, è un progetto esplorativo e di catalogazione delle antichità della Nubia sudanese, grazie al quale si è resa possibile la creazione del primo archivio fotografico delle antichità nubiane e delle civiltà limitrofe(ad oggi uno dei più grandi archivi al mondo: oltre 1.000.000 di immagini dell’Egitto, Libia, Giordania, Israele, Libano, Siria, ecc., e una vastissima cartografia archeologica computerizzata). Al nome di Maurizio Damiano sono legate scoperte e rinvenimenti di interesse storico: numerose necropoli meroitiche, un tempio dello stesso periodo, necropoli dell’epoca di Kerma e centinaia di siti preistorici.
Tra l’altro è ideatore e coordinatore generale del «Progetto Prometeo», di ricerca nei deserti d’Egitto e Sudan, in seno al quale ha esplorato per primo le aree più lontane del Deserto Occidentale egiziano, realizzandone la cartografia; ha scoperto l’oasi di Zerzura (quella cercata invano dal protagonista del film II paziente inglese),la «pista di Alessandro Magno», un villaggio minerario egizio, cave, miniere, fortezze romane… colmando inoltre varie lacune storiche.
Maurizio Damiano
Ha contribuito a fondare il CISE (Centro Italiano Studi Egittologici) di Imola e fondato il CRE(Centro Ricerche Egittologiche) di Verona, organismo tutt’oggi da lui diretto che, fra l’altro, si occupa di realizzare la ricostruzione in realtà virtuale di intere aree archeologiche, e che ha ricevuto la concessione per la missione permanente di ricerca e scavo nel deserto presso la Valle dei Re e la costruzione di una sede a Tebe, poi mutata nell’ampia concessione per l’intero Deserto Occidentale egiziano, in cui le ricerche sono state portate avanti sino al 2011 e poi interrotte per le vicende politiche e la proibizione da parte dei militari a qualsiasi accesso nell’area, ritenuta pericolosa per la situazione libica.
Nel frattempo Maurizio Damiano, che è membro di varie associazioni culturali internazionali, organizza mostre, come quella del 1984-85 nella Galleria del Sagrato a Milano, tiene cicli di conferenze, partecipa a convegni, prende parte a servizi radiofonici e televisivi per la Rai e le Tv private, scrive libri, relazioni ed articoli.
Ne ha pubblicato circa un centinaio, per riviste italiane ed estere, quali Archeologia Viva, Historia, Farmacia Naturale, Nigrizia. Fra le pubblicazioni, che ad oggi contano 21 volumi in Italia e all’estero, ricordiamo: Oltre l’Egitto: Nubia (Electa, 1985), Il sogno dei faraoni neri (Giunti, 1994), Egitto e Nubia (Mondadori, 1995), Dizionario enciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà nubiane (Mondadori, 1996), la grande opera divulgativa Egitto. L’avventura dei faraoni fra storia e archeologia, in quattro volumi, edita anche a fascicoli per la Fabbri, la realizzazione di due Cdrom: I tesori del Nilo (1998) e La Valle ‘dei Re (1999), e i due DVD di 150 minuti: Le meraviglie d’Egitto. (2004).
Nell’immaginario collettivo l’archeologo è sempre stato una figura affascinante, che vive esperienze ed avventure misteriose.
Ma oggi il nostro personaggio, oltre alla vanga, usa anche il computer, e per condurre le sue ricerche e realizzare le sue opere si avvale di tecnologie moderne e sofisticate.
A dispetto di quanti, nell’era di Internet, vorrebbero mandare in soffitta tutte le discipline «antiche», l’archeologia oggi ha avuto un nuovo impulso, e sembra potere registrare ancora notevoli progressi proprio grazie al sussidio delle scienze informatiche e multimediali. Sposato dal 1987 e separatosi nel 2014 per il ritorno della ex moglie nella città natale (Parigi; e come non comprendere la nostalgia del paese natìo?), è padre di Louise e Colette. Abbiamo sentito di recente Maurizio Damiano, che oggi vive a Verona, abbiamo avuto modo di chiedergli della «sua» Africa, delle sue scoperte, dei suoi progetti, ma anche delle sue radici, di ascoltarlo raccontare e raccontarsi con quella colloquialità, scioltezza e disponibilità che contraddistingue le persone di una certa levatura.
– Com’è nato l’interesse per l’archeologia e per l’Egitto? Ci sono state figure determinanti per le sue scelte, o che abbiano contato in maniera speciale nella sua vita e nella sua formazione?
Per l’archeologia mi sembra di averlo sempre avuto dentro. Mio padre aveva nella sua biblioteca molti libri di archeologia, che io sfogliavo. A 6 anni chiedevo di portarmi qua e là, al teatro greco di Siracusa, di Taormina, a Paestum…. Sono stati determinanti i miei senza volerlo, poi don Virzì.
Conoscere don Virzì è stato fondamentale: questa passione “selvaggia” lui ha saputo incanalarla, andavamo in giro insieme a fare fotografie per Randazzo e come mi diceva sempre avrebbe voluto che io continuassi la sua opera; ma la vita ha deciso diversamente. Poi, quando sono andato al Nord, il prof. Curto è stato un Maestro e un padre spirituale per me.
– Negli ultimi anni si è assistito ad una sorta di revival, di riscoperta di massa dell’Egitto, attraverso viaggi organizzati, servizi televisivi, pubblicazioni a carattere scientifico e divulgativo, o best-seller come quelli di Wilbur Smith e Christian Jacq. Cosa ne pensa e che valore dà a questo fenomeno?
Maurizio Damiano
Questo fenomeno, in realtà, a livello internazionale è sempre esistito, in Francia ed in Inghilterra, fin dai tempi della Rivoluzione francese, e in Francia non è mai smesso. Napoleone teneva dei racconti di viaggi sul comodino, e portò in Egitto i soldati ma anche i “savants”: studiosi, cartografi, archeologi. Anche se militarmente la spedizione è stata un fallimento, dal punto di vista scientifico non lo è stata. Quanto a Jacq, ha smesso di fare l’egittologo per scrivere romanzi.
Non è un grande romanziere, ma i suoi libri hanno due meriti: poiché è un egittologo, il 60% delle cose che dice, l’ambiente che ricostruisce, sono abbastanza corretti, e ha il merito poi di aver fatto conoscere l’Egitto, mentre prima se ne occupavano solo le fasce medio-alte. Dopo Jacq c’è stata un ’impennata delle vendite dei libri più scientifici. Smith è un grande romanziere, un ottimo professionista, ma ciò che scrive non ha alcun valore egittologico. Purtroppo non sono corrette neppure le cose più elementari, ma la gente pensa di imparare leggendo i romanzi, falsando tutto.
– Indubbiamente quello degli antichi Egizi è un mondo affascinante, anche per i profani. Lei che, essendo un esperto in materia, ha potuto conoscere da vicino e a fondo questa civiltà, che lezione ne ha ricavato?
Tante. Gli Egizi erano più avanti di noi in molti campi: nel rapporto uomo-donna erano più avanti, non solo rispetto agli arabi, ma anche rispetto a noi. A certe conquiste noi ci siamo arrivati oggi, loro ci erano arrivati già. La donna era l’altra metà del cielo, c’era un rapporto paritario.
Dall’operaio al faraone, la donna era sullo stesso piano dell’uomo, sempre. Il dio creatore ha una parte femminile in sé, il Faraone non è completo se accanto non ha la regina. La dualità per noi è contrapposizione, per loro completamento e armonia. Un’altra grande lezione in campo sociale (che non poteva essere separato da quello religioso): l’umanità era il “gregge di Dio”, quindi andava rispettato. Gli Egizi avevano per tutti molta considerazione, anche per chi era in fondo nella scala sociale. Non c’erano gli schiavi. Questa convinzione è derivata da due fonti: la Bibbia, e la cultura greca, che sono le nostre basi.
La Bibbia doveva dare identità al popolo ebraico, e gli Ebrei sentivano come una cosa forzata le corvée obbligatorie che effettuavano gli egizi durante le piene del Nilo, quando non si lavoravano i campi, facendo tutti i lavori pubblici, ingaggiati dal Faraone.
L’altra fonte furono i Greci, in particolare Erodoto, che scrisse dopo 2000 anni circa, nel V sec. a.C.: poiché in Grecia, anche nell’Atene di Pericle, c’erano gli schiavi, per lui era ovvio che i templi e le piramidi li avessero costruiti loro.
– Oltre che come studioso, cosa le ha insegnato l’Egittologia come uomo? Pensa che dopo millenni i Faraoni abbiano ancora qualcosa da dire e da dare all’uomo del 2000?
Maurizio Damiano-Appia
Rispetto per l’essere umano, di qualsiasi categoria, sesso, razza. Era una società multirazziale, ma contavano quelli che si erano inseriti nella società, i prigionieri di guerra potevano anche far carriera. Quando disprezzavano il nemico, era per ragioni di guerra, non razziali. Il nubiano lo disprezzavano perché non egiziano, non integrato, mai perché nero. Il nubiano che, trasferitosi in Egitto si integrava, era un egiziano che poteva divenire poliziotto, ufficiale, generale. Per me il fatto di vivere lì con quella gente, parlando la loro lingua, mangiando assieme, mi ha formato, è stato parte integrante della mia vita.
– Quali lingue conosce?
L’italiano – posso dire anche il siciliano? -, il francese, l’inglese, l’arabo, lo spagnolo, naturalmente l’egizio antico, poi ho conoscenze di ebraico, greco antico e moderno, latino.
– Parliamo delle sue esperienze: che emozione si prova a penetrare in luoghi inaccessibili da secoli, da millenni, a scoprire una tomba, antiche tracce di esistenza? Può descrivercelo?
Continuo a rimanere un adolescente entusiasta, penetrare in una tomba, vedere che non è vuota, che ci sono ancora delle mummie, mi dà quell’emozione, quel batticuore, tutte le cose che potrebbe provare un profano. Magari il profano vuole toccare, mentre lo scienziato non tocca niente, fotografa, disegna, rileva, documenta tutto. Ma questa attesa, questa necessità di distacco aumenta la gioia della scoperta. Ma questo è vero anche per la scoperta di un sito preistorico nel deserto, o per l’emozione di scoprire una pittura rupestre o un graffito preistorico di 10.000 anni fa.
– Qual è la scoperta che le ha dato più soddisfazione? E quale ritiene la più importante?
La più importante forse è l’oasi di Zerzura, nel ‘92 – Rai 3 allora ha fatto un bel servizio – e poi la pista di Alessandro. È stato bello perché sono state scoperte ragionandoci a casa, studiando le cartine, mettendo assieme gli elementi del puzzle. Ho teorizzato, sono andato a vedere, ed è stata una soddisfazione, mentre altre cose sono state più “casuali”, benché l’esplorazione programmata a tappeto di aree vastissime non abbia nulla di casuale. Venendo ai nostri giorni, la “scoperta” è nella mente e nel lavoro di 37 anni che dà i suoi frutti: la creazione del “Velo di Iside”, la prima grande enciclopedia sull’Egitto, in 30 volumi. L’emozione non muore mai.
– Oggi che è un nome nel campo dell’archeologia, è soddisfatto? Si sente «arrivato»?
Non si è mai soddisfatti. Essere soddisfatti vuol dire fermarsi, stagnare. Non è solo per la fama: ho rifiutato degli inviti in TV quando mi accorgevo che non erano cose serie.
Non mi sento arrivato, spero di non sentirmici neanche a 90 anni. E in ogni caso,molti colleghi accademici (ovviamente italiani) mi guardano come qualcuno che non è affatto “arrivato” poiché ho dedicato una parte della mia vita alle pubblicazioni divulgative; la divulgazione è più difficile della specializzazione; Einstein diceva che per comprendere se sappiamo davvero qualcosa dobbiamo saperla spiegare anche a un bambino. Uno di questi colleghi mi ha detto che lui “non scrive per la piazza”; io si: ne sono fiero ed io stesso sono “la piazza”.
– Programmi per il futuro, progetti in cantiere da realizzare? A cosa sta lavorando?
Dopo la missione tebana, conclusa dopo pochi anni per la riapertura del Deserto Occidentale alle nostre ricerche sino al 2011, dopo il Cd-rom “I tesori del Nilo” e i DVD, dopo i 21 volumi, ho pensato che fosse tempo di pubblicare il frutto di una vita di lavoro e di scoperte, il mio archivio; ciò si concretizza nel “Velo di Iside”,l’Enciclopedia in 30 volumi cui ho accennato; ho interrotto tutte le mie attività, salvo l’insegnamento, per dedicarmi a quest’opera, la prima al mondo di questo tipo, che spero di finire entro un paio d’anni, anche perché usufruisco del valido aiuto nella grafica di mia figlia Colette che, nonostante i suoi 17 anni, è una “figlia dei computer” ed è bravissima nell’allegerirmi da questa parte di lavoro.
– Se permette una domanda più personale, ad un certo punto ha aggiunto al suo il nome di sua moglie, «incontrata nella libertà dei deserti di Nubia». Potrebbe spiegarcelo meglio?
Maurizio Damiano – Egittologo
L’ho preso “per amore”, altro insegnamento degli Egizi.
Lei aveva piacere che prendessi il suo cognome, Appia è un nome molto antico, romano, con delle tradizioni.
Per un periodo ho firmato come Damiano-Appia; poi, dopo 27 anni felici, ha vinto la nostalgia della patria natia e la nostra storia si è chiusa, lasciando due figlie meravigliose, un ricordo splendido e un immenso affetto.
D’altronde, come dicevo prima, io, siciliano lontano dalla mia terra, come potrei mai non comprendere quello struggente canto di sirena, quel desiderio immenso di tornare “a casa?”.
La sua casa è lì, ma la mia è qui, in un’Italia piena di difetti ma pur sempre meravigliosa.
E la mia opera deve essere italiana, deve vedere la luce qui; dovranno essere gli altri paesi, una volta tanto, a prendere qualcosa di italiano.
Da qui la separazione, ma nella serenità e nella luce di nuove vite.
Anche questo insegnavano gli Egizi: la vita è cambiamento, e i piani degli Dèi sono misteriosi.
– Quasi tutti i suoi scritti sono dedicati ai familiari. Che ruolo ha la famiglia nei suoi studi? E come riesce ad organizzare la vita privata con tutti gli impegni scientifici ed accademici?
La mia fortuna è di lavorare in casa, ho il mio studio a casa, e benché lavori anche dalle 8 alle 3 di notte, ho avuto sempre il tempo di stare con la mia famiglia; oggi la mia ex moglie non c’è più e altri amori occupano il mio cuore; la figlia maggiore vive e lavora a Parigi, con successo, e la minore vive con me. Abbiamo la nostra libertà, ma sappiamo dedicarci il tempo del calore umano, che non dimentichiamo mai. Nelle spedizioni, cercavo di non stare via più di 20 giorni, poi ho sempre rielaborato a casa il materiale.
– I Latini dicevano «nemo propheta in patria», e un proverbio randazzese dice: «cu’ nesci, rinniesci». È il suo caso?
Non lo so, non posso dirlo io. Una cosa posso dire di sicuro: le possibilità culturali che ho trovato al Nord sono diverse, l’Egittologia un tempo non avrei potuto svilupparla, non fino a Napoli almeno. Comunque, devo dire che Randazzo per quanto mi riguarda smentisce il proverbio, perché ha sempre riconosciuto il mio operato.
Maurizio Damiano
– Qual è oggi il suo rapporto con la Sicilia, col suo paese d’origine, con le sue radici?
Non manco di venire ogni anno, gli amici che avevo a 4-5 anni li ho tuttora.
La Sicilia è sempre viva in me, l’amicizia è un sentimento cui do molto valore, qui al Nord c’è ovviamente il concetto dell’amicizia, ma non proprio come sentimento prossimo, o piuttosto come sfumatura, dell’amore, come io lo considero.
L’amicizia è la cosa più bella che mi abbia dato la Sicilia, oltre all’amore per la natura. Allora uscivo sull’Etna a camminare, a correre fra i boschi; oggi ogni domenica vado con gli amici sulle splendide montagne del veronese, dal Baldo, che domina il Lago di Garda, alla Lessinia; sono fra i 16 e i 25 km in giornata (fra i 600 e i 1200 m di dislivello) e se faccio questo a 60 anni saltando (come dicono gli amici) come “uno stambecco dell’Etna” beh… lo devo alla mia Sicilia.
–Conta di stabilire ancora qualche legame con suoi luoghi d’origine?
Dipende da voi. Io il legame ce l’ho sempre. Sarebbe bello creare un bel museo didattico, questa è una cosa che mi piacerebbe fare per i giovani di Randazzo. Se vi sarà la volontà politica, le sale, i mezzi, io posso dare la disponibilità ed il materiale, queste cose posso farle per il mio paese. Pensavo ad un museo dove si alternino testi, fotografie, modellini, reperti; vede molti anni fa organizzai a Milano una grande mostra; ebbi la gioia di vedere prendere appunti dai bambini, e dal mio professore, Silvio Curto: questo è il tipo di museo che io vorrei, un museo didattico che sapesse raccontare la storia della nostra cittadina parlando a tutti, dai bambini ai più colti. Su un libro di Maurizio Damiano c’è una bellissima dedica (che qui l’autore aggiorna con l’aggiunta del nome della seconda figlia), che credo possa riassumere la sua vita, i suoi percorsi, le sue emozioni, i suoi affetti: «A Noelle, Louise, Colette, cui devo la gioia profonda che illumina la mia vita. Ai viaggiatori dell’infinito, ai cercatori del passato, ai compagni di strada. A chi crede nei sogni e a chi sa renderli realtà, per avermi accompagnato, per avermi reso ciò che sono. Al vento e alla sabbia, per avermi mostrato un riflesso di Dio».
Maristella Dilettoso Gazzettino n.23 del 17 giugno 2000, aggiornata con l’autore nel 2017
Carmelo Venezia nasce a Randazzo il 18 ottobre 1934 nella via Orales, 2. Lavora come ebanista specializzato in mobili antichi e per 7 anni ( dal 1950 al 1957) frequenta la Banda Musicale prima con il maestro Marrone e poi con Lilio Narduzzi suonando il clarino in si e mi bimolle. Dopo aver fatto il servizio militare a Verona nel XXI Battaglione Trasmissioni F.T.A.S.E. ( Forze Terrestre Alleate Sud Europa), con il grado di Caporale il 17 gennaio 1958 parte per la Francia e si stabilisce a Lione.
Anche qui lavora come ebanista specializzandosi nel restauro di mobili antichi dello stile francese. il 10 novembre 1960 si sposa con la signora Michele e dopo 4 anni nasce Francesca.
Nel 1979 si stabilisce nel Sud della Francia nel comune di Beausoleil ( nel 1900 è denominata la Montecarlo Superiore) confinante con il Principato di Monaco dove risiede tuttora. Carmelo Venezia ha partecipato, tra l’altro, al restauro del Teatro “Principessa Grace di Monaco ” ed alla ristrutturazione del Casinò di Montecarlo. Ovunque ha prestato la sua opera di artista/artigiano gli è sempre stato riconosciuto un talento naturale ed una serietà nel lavoro veramente encomiabile. La figlia Francesca gli ha dato un nipote Clemente che ora ha 28 anni e lavora come Ingegnere nella Ricerca Informatica. E’ rimasto legatissimo alla nostra/sua Città e ai suoi tesori artistici, storici ed architettonici. Infatti viene tutti gli anni anche per assaporare l’atmosfera familiare dei suoi amati parenti. Carmelo Venezia è il fratello maggiore della signora Anna, Nina e del non dimenticato Gaetano. Francesco Rubbino
Carmelo Venezia e Salanitri
Corso di Formazione dei Falegnami di Randazzo. – foto Carmelo Venezia
LE FORNACI DEL QUARTIERE DI SAN GIULIANO
Carmelo Venezia
Esistono, durante la vita di una persona, periodi di difficoltà morale, causati da circostanze dolorose ; lontananza, malattie, perdita di persone piu’ che cari. Per qualche anno, non ho più voluto continuare a scrivere il mio diario di un tempo piu’ che passato.
Innanzi tutto, debbo ringraziare il Prof. Nunziatino Magro ; malgrado le distanze che ci separano, telefonicamente mi ha incoraggiato a riprendere la mia penna, ridandomi il gusto per esprimermi e di rimemorare il mio passato.
Ma, prima di continuare, desidero chiedere scusa a tutti i miei amici e intellettuali, per l’uso del mio semplice vocabolario. In verita’ non ho mai frequentato le aule e i banchi delle Università. Rappresento una vecchia generazione randazzese possedendo semplicemente un modesto diploma elementare.
Ma , amo moltissimo , non solamente la mia città di Randazzo perche’ è stato il luogo della mia nascita, ma anche i resti delle sue opere d’arte che i nostri alleati non hanno osato demolire nel periodo dei bombardamenti del luglio e agosto 1943. Spesse volte, mi siedo alla terrazza del mio modesto appartamento, ammirando il panorama del Principato di Monaco, con le sue moderne costruzioni destinati ad una classe sociale privilegiata e milionaria.
Talvolta, socchiudo i miei occhi, facendo divagare la mia mente ed anche il mio pensiero, percorrendo le vecchie stradine dei nostri antichi quartieri di Santa Maria, S. Nicolò e San Martino della nostra città, luoghi riposanti, pieni di misteri, aneddoti, storie, li’ dove molti anni indietro, erano animati con la presenza di artigiani, carrettieri, contadini , musicisti, pastori, intellettuali, moltissime signorine ,sedute davanti le loro porte d’ingresso, ricamando la loro dote eseguendo un lavoro d’arte e talvolta prezioso, dando vita e animazione a questi luoghi storici.
In certi periodi delle stagioni, sentivamo gli odori del vino, delle mele e di altri frutti, che i nostri antenati e le nostre mamme avevano l’arte ed il segreto di conservazione per il periodo invernale.
Ma, ritorniamo alla realtà.
Qualche anno indietro, trascorrevo un certo periodo di vacanza presso i miei famigliari ; qualche giorno dopo il mio arrivo, ricevo un cortese invito dal Prof. Nunziatino Magro invitandomi ad una lunga passeggiata piuttosto storica. A bordo del suo veicolo, abbiamo percorso parecchi kilometri , salendo verso Santa Domenica vittoria. Ma, quale fu la mia sorpresa ? fermandosi, non solamente abbiamo ammirato lo stupendo paesaggio della nostra Randazzo ma anche il panorama dell’imponente Etna molto invidiata dai nostri turisti stranieri. La seconda, è stata la scoperta dei resti di una antica cappella situata sul lato Sud dei Nebrodi dedicata tempo passato a San Marco.
Da ragazzo, percorrevo spesso questo cammino per recarmi a Santa Domenica Vittoria soprattutto per assistere alla festa di S. Antonio , chiedendomi sempre , che cosa rappresentavano questi ruderi. Penso, che qualche secolo fà , è stato un luogo di raccoglimento di pellegrinaggio, di raduno e di preghiera non solamente per i contadini ,numerosi in questo settore agricolo, ma anche per gli abitanti delle masserie e dei comuni limitrofi.
Finalmente, dopo tanti anni, la mia curiosità è stata ricompensata. Penso, che qualche tempo indietro, questo luogo è stato citato dal Dott. Salvatore Rizzeri nel suo libro : Le Cento Chiese .
Riscendendo, dopo avere attraversato il Ponte di San Giuliano, l’ho pregato di fermarsi a sinistra su questo piazzale chiamato volgarmente da noi randazzesi : U Stazzuni , in quanto che, volevo far conoscere una antica costruzione dove attualmente esiste un mulino inefficiente chiamato dai nostri antenati : Il Mulinello.
L’accoglienza del proprietario è stato molto cordiale e soprattutto amichevole . Fiero di mostrare non solamente la vecchia costruzione, ma anche il resto delle vecchie macine o mole, con qualche resto di antichi accessori. La botte situata sul piano superiore , la quale serviva di riserva e di pressione, é in eccellente stato di conservazione e di curiosità per gli alunni di tutte le scuole e soprattutto per osservare e conoscere , i vecchi sistemi idrici usati nell’epoca passata.
Scendendo, e passando dietro l’antica costruzione, la nostra seconda grande sorpresa, è stata di scoprire una delle antiche fornaci , numerosissime qualche secolo fa , in questo quartiere di San Giuliano, destinate alla fabbricazione della calce e nello stesso tempo alla cottura delle tegole, mattonelle e recipienti di argilla.
Ed è proprio di questo soggetto, di quest’ arte , di questi artigiani più che artisti nella loro materia, dotati di una straordinaria esperienza e di un sapere sconosciuto dai nostri giovani, i quali non hanno mai avuto l’occasione e la gioia di ammirare il lavoro di questi talentuosi artigiani. Le fornaci erano state costruite principalmente in questo quartiere ; numerose nei dintorni di questo piazzale chiamato come avevo scritto prima : Stazzone : in dialetto randazzese, U Stazzuni. Sopra questa superfice , dove le costruzioni in duro non esistevano, c’erano circa quattro fornaci ; un certo numero appartenevano alle famiglie Arcidiacono, molto numerose fino agli anni 1960.
Altre, si trovavano nei dintorni della Via Regina Margherita , oggi chiamata in onore del nostro concittadino sindacalista e deceduto molto tempo fa, via Giuseppe Bonaventura.
Una di queste, apparteneva al Signor Egidio Arcidiacono, specializzato nella fabbricazione di anfore, giare , vasi , lampade ad olio, ed altri oggetti, i quali servivano per conservare l’acqua, l’aceto , l’olio di oliva indispensabile per la nostra buona cucina. Questo artigiano, ha smesso la sua attività dopo il 1950 immigrando come moltissimi dei nostri concittadini in Argentina.
Le ultime notizie del signor Egidio, le ho ottenute nel dicembre del 1987. Essendomi recato parecchie volte a Buenos Aires, e dopo nella città di Haedo , situata nella grande periferia della Capitale, dal nostro concittadino Nino Luca, fratello di Mario, Melino ed Arturo Luca, all’occasione di un incontro piu’ che affettuoso e nello stesso tempo, per la visita della sua , grande fabbrica di mobili .
Preciso, che in questa Citta’ , vivevano moltissime famiglie originarie della nostra Randazzo.
Il signor Egidio , si era stabilito in un’altra regione ; forse nella città di Mendoza.
Diverse fornaci, si trovavano nei pressi della chiesa del Signore della Pietà. Un’atra, apparteneva alle famiglie Mazza ; salvo errore da parte mia, questa era vicino la discesa del Ciapparo.
Mi chiedo sempre, perchè i nostri antenati , avevano dato questo nome. Oltrepassando la chiesetta, e andando a sinistra seguendo la strada che conduceva sia alle vecchie vasche di scarico delle fognature del comune ed anche al vecchio Mulino di Citta’ Vecchia, una di queste era proprieta’ del defunto Signor Alfio Bordonaro, padre del nostro concittadino Dottore Nunzio Bordonaro, il quale da professionista, aveva creato una vera piccola industria per la fabbricazione della calce e soprattutto produrre la migliore qualità del prodotto.
Altre fornaci si trovavano nel quartiere di Murazzorotto, andando verso il lago Gurrida .
Anni passati, questa zona era molto popolata, dove ancora si potevano contemplare molte antichissime casette costruite in pietra lavica a secco, esistenti forse anche all’epoca araba, le quali, potevano servire temporaneamente di alloggio per i contadini e nello stesso tempo , come riserve di foraggio per nutrire asini, cavalli ,muli, pecore , numerosi in quel periodo.
Ma quasi tutte sono state demolite per ignoranza ed incoscienza , costruendo casette certo moderne , ma senza stile ed in un modo piu’ che disordinato.
Un’ altra fornace molto antica, si trovava a fianco del muro di cinta della Citta’ tra il Convento di San Giorgio e la Via Duca degli Abruzzi esattamente a fianco dell’antica Porta dell’Erbaspina , chiamata anche , Porta del Quartarario ; esisteva anche una piccola fontanella chiamata dai nostri antenati, Fontanella dell’Erbaspina.
Questo artigiano lavorava esclusivamente l’argilla per la fabbricazione delle Quartare, vasi, e diversi recipienti in terracotta. Desidero precisare che questa porta con il suo semiarco e i suoi due pilastri, era visibile prima del Luglio 1943. Una parte è stata demolita dai bombardamenti ; il resto, dall’incoscienza umana. Le fornaci, potevano avere la forma di un grande cubo munito di una corta ciminiera oppure rotonde come un grande cilindro di un diametro di parecchi metri, munite sempre di una ciminiera. Il materiale utilizzato, erano le pietre laviche, murate con un impasto di calce e sabbia dell’Etna . L’ argilla in certi casi era utilizzata per la sua resistenza al calore.
L’ interno, era diviso in diversi piani ; si accedeva attraverso una apertura situata a piano terra. Il sottosuolo era riservato per il grande focolare, il primo perimetro , per la cottura delle pietre calcaree . Il piano superiore, per la cottura delle tegole, i mattoni, le mattonelle. In seguito, le anfore, vasi, ed alti oggetti ad esempio le lampade ad olio, molto utilizzate nel periodo della guerra e specialmente nel periodo dei bombardamenti del luglio e agosto 1943. I focolari, erano alimentati con parecchie tonnellate di legno proveniente dalle nostre foreste comunali ed anche da foreste private.
DA DOVE PROVENIVANO LE PIETRE A CALCE ?
La cava delle pietre a calce, si trovava sul versante Nord dei Monti Peloritani parecchi kilometri dopo il comune di Santa Domenica Vittoria.
Nella mia giovinezza, ho avuto una sola volta di visitarla in compagnia di un conoscente e concittadino carrettiere , offrendomi un passaggio. Preciso che questo signore, faceva il trasporto di materiale edile. Non mi ricordo il nome di questa contrada ; mi ricordo solamente che durante il tragitto , ho potuto ammirare il magnifico paesaggio, ma anche i lavori dei campi eseguiti dai nostri bravi contadini.
L’ estrazione delle pietre, era un lavoro molto faticoso e soprattutto pericoloso per gli operai. I mezzi meccanici moderni non esistevano. Tutto era eseguito con la forza delle loro braccia, a colpi di mazza , picco ed altri rudimentari arnesi per potere spaccare le grosse rocce, ottenendo cosi’ il volume desiderato.
Il trasporto era eseguito con l’aiuto dei carretti trainati dai muli e per i piu’ ricchi, dai cavalli. Moltissime famiglie di carrettieri della nostra città eseguivano il trasporto di questo materiale, approvvigionando i proprietari delle fornaci.
I carrettieri partivano nella notte, per ritornare di buon mattino evitando cosi’ l’afoso calore dell’ estate. Il lavoro degli artigiani carrettieri, era molto impegnativo e faticoso , anche per gli animali che in realtà erano ben nutriti , ben curati e ben protetti.
IL LAVORO DELL’ARGILLA
Lago Gurrida – Randazzo
Queste piccole imprese, erano proprieta’ di parecchie famiglie randazzesi. Desidero citare la famiglia Mazza, la famiglia Bordonaro e soprattutto, le numerosissime famiglie Arcidiacono. Sicuramente, ne esistevano altre , ma onestamente non ho mai avuto l’occasione di conoscerle.
Per quanto concerna la famiglia Arcidiacono, ho conosciuto i due fratelli , Luigi e Battista, intimi amici musicisti, che per molti anni, hanno fatto parte del Corpo Musicale di Randazzo, all’epoca in cui era diretto dal Maestro Lilio Narduzzi e sovvenzionato dal Comune di Randazzo e soprattutto con l’aiuto e la contribuzione degli abitanti molto fieri del loro complesso.
Parlerò di Battista Arcidiacono nelle prossime pagine.
La nostra argilla, era estratta nel piano della Gurrida. All’epoca, questo terreno , era molto argilloso. In certe stagioni il fiume Simeto e Flascio , non solamente alimentavano il lago Gurrida ma anche moltissime superfici adibiti a vigne e ortaggi. Alimentavano anche un piccolo corso d’acqua che scorreva ai piedi del Castello Svevo per finire nel fiume Alcantara.
Non posso precisare il luogo esatto dove l’argilla era prelevata. Sicuramente all’interno di certe proprietà private ed anche nei terreni comunali pagando una tassa. Questa materia, era trasportata con i carretti a Randazzo e depositata sul luogo di lavoro. Ma, prima di usarla, necessitava una lunga preparazione. Depositata al suolo ed al sole per moltissimi giorni l’ argilla si riduceva cosi’ in finissima polvere. In seguito, era depositata in un grande bacino dove era mescolata e dosata con una qualità di terra che ogn’uno di loro, conosceva il segreto ed il dosaggio.
Il lavoro piu’ faticoso, era quando tutta questa materia doveva essere mescolata, umidificata e pigiata da parecchi operai con la forza dei loro piedi e delle gambe, ottenendo cosi’ una materia omogenea , malleabile e pronta per la lavorazione .
Gli artigiani, lavoravano a cielo aperto. Moltissime erano le donne, figlie di artigiani adibiti a questo lavoro. Sopra i loro banchi di lavoro ,confezionati in legno oppure con i mattoni, avevano parecchi telai in legno duro molto resistente all’umidità; per le tegole di forma trapezoidale, per i mattoni rettangolari, per le mattonelle in terra cotta, i telai erano quadrati a secondo la superfice richiesta dai clienti.
Per la confezione delle tegole, l’argilla era spalmata con le mani, livellata con una piccola regola nel suo apposito telaio, e dopo averla uscita dal telaio con l’aiuto di una piccola cordicella, era depositata sopra una forma semi rotonda, e impermeabilizzata con un impasto liquido a base di argilla e depositata al suolo e al sole per molti giorni ; in seguito all’interno della fornace per la cottura. Cosi’ per i mattoni ed altri oggetti.
Giovane apprendista falegname, ho avuto parecchie occasioni di costruire molti di questi telai. Da ragazzino, vedevo lavorare molte donne ed anche uomini con una enorme rapidità. Questo lavoro era molto impegnativo ; per proteggersi dal sole, specialmente nei mesi estivi, il loro capo era coperto con un cappello di paglia oppure con l’aiuto di un grande fazzoletto .
Gli uomini, erano vestiti con un semplice pantaloncino, talvolta torso nudo e con i piedi scalzi, molto allegri, fieri della loro arte e del loro sapere.
COME LE FORNACI ERANO PREPARATE ?
Il primo lavoro, consisteva allo sgombero delle scorie del grande focolare situato nel piano inferiore ed alla pulitura del perimetro interno .
Le pietre a calce, erano squadrate con colpi di martello e mazza ; parecchi muri a secco erano costruiti all’interno , occupando cosi’ la prima parte inferiore.
Le tegole , le anfore , i grandi vasi ed altre oggetti da fare cuocere, erano situati sulla parte superiore. L’ entrata veniva murata, lasciando semplicemente un’ apertura per l’alimentazione del focolare con piccoli tronchi d’alberi , truccioli ed anche con enormi mazzi di legno secco di poco valore , usato generalmente per questo lavoro.
Il focolare acceso, la fornace doveva essere alimentata e soprattutto sorvegliata giorno e notte per parecchi giorni. Talvolta, e questo dipendeva della quantita’ del materiale da cuocere, circa una settimana.
Nel periodo della mia giovinezza, ho avuto molte occasioni di percorrere di notte in compagnia di mio padre Giuseppe e mio nonno paterno Carmine Venezia , mugnai di professione, la strada che partiva dal vecchio mulino di Città Vecchia, e che conduceva verso la chiesetta del Signore della Pieta’, soffermandomi vicino queste fornaci , per ammirare le fiamme che sgorgavano dal focolare e della ciminiera , creando cosi un gioco d’ artifizio , sviluppando non solamente un grande calore , ma anche un fumo molto denso , soffocante , rendendo ancora piu’ faticoso il lavoro degli operai . Durante la cottura della calce, le fornaci erano soggetti ai cambiamenti atmosferici. Un giorno, parlando con il Signor Bordonaro, proprietario di questa grande fornace situata in questi paraggi , mi spiego’ che un cambiamento atmosferico durante la cottura , poteva influenzare sulla durata del fuoco.
Non posso precisare quanti gradi erano necessari per ottenere una eccellente qualita’ di calce ; forse circa 900 gradi . Questi talentuosi artigiani pieni di esperienza e di maestria, conoscevano il momento in cui la fornace doveva essere spenta. Talvolta, una settimana di tempo era necessaria per raffreddare l’insieme di questa piramide, e accedere all’interno recuperando tutto il materiale il quale era venduto a tutti gli artigiani edili ed anche ai privati per la costruzione e la copertura delle nostre vecchie e moderne dimore.
Per la preparazione delle pietre a calce, i nostri artigiani muratori usavano un metodo molto semplice ; creavano un piccolo bacino di una profondita’ desiderata e secondo la quantita’ di calce da fare sciogliere. La pietra a calce già cotta, veniva depositata nel fondo di questo bacino e ricoperto con molta acqua. La calce al contatto con l’acqua, si scioglieva, sviluppando un forte calore che talvolta al contatto della pelle e del corpo, causava moltissime ustioni.
La calce sciolta, qualche giorno dopo , si otteneva una materia bianchissima e cremosa, la quale mescolata con la sabbia dell’Etna e con una certa dose di acqua, ottenevano cosi’ un impasto per la costruzione dei muri in pietra lavica ma anche per costruire case ed altre opere.
Serviva anche per imbiancare i muri e le pareti . Possiamo anche dire, che tutte le costruzioni della nostra vecchia Citta’, sono state eseguite e realizzate con questi materiali. Voglio precisare un dettaglio molto importante ; nei secoli passati, la calce prodotta dai nostri artigiani, era molto usata da tutti gli artisti frescanti , specializzati nelle esecuzioni degli affreschi . Ma, prima di usarla, ciascuno di loro, avevano il loro segreto di conservazione.
Moltissimi artisti di grande nome, conservavano la calce all’interno delle botti di legno per circa venti anni conservata per le future generazioni per i loro figli ed anche per i nipoti.
Non sono in grado di spiegarvi l’effetto e la reazione chimica di questa materia , dopo molti anni di conservazione . Posso invece affermarvi, che questo metodo è esistito. Onore ai nostri artisti del passato , i quali ci permettono di ammirare gli affreschi e capolavori dopo molti secoli passati.
Molte cose si potrebbero scrivere concernente la preparazione di questi lavori ; ma il soggetto è troppo importante. Nelle precedenti pagine, avevo accennato il cognome delle famiglie Arcidiacono. Mi permetto ancora di parlare di Battista e Luigi ; due fratelli che pur essendo specialisti dei lavori in terracotta , erano due eccellenti musicisti. Per molti anni, hanno fatto parte del Corpo Musicale di Randazzo ; prima sotto la direzione del Maestro Marrone , dopo sotto la direzione del nostro talentuoso maestro Lilio Narduzzi , deceduto a Roma. Ho avuto l’onore di averli frequentato dal 1950 a gennaio 1957 facendo parte anch’io di questo prestigioso Complesso musicale molto amato da noi Randazzesi .
Mi ricordo , che tutte le domeniche, giorni festivi e periodi estivi, i cittadini randazzesi , potevano assistere e ascoltare nelle piazze comunali ai concerti di musica lirica . Colgo l’occasione per ricordare un artista dimenticato da noi randazzesi , deceduto a Milano qualche decennio indietro. Battista Arcidiacono , da giovane, a parte le sue qualita’ artigianali, possedeva una eccezionale dote musicale . Primo Trombone solista del Corpo musicale sotto la direzione del Maestro Lilio Narduzzi . Battista, era sempre alla ricerca della perfezione , dei coloriti e della raffinatezza musicale. Una sera, e come tutte le settimane , tutti i componenti del Complesso , eravammo riuniti nella sala del Concerto della Via San Giacomo per la ripetizione generale di una romanza dell’opera Rigoletto di Giuseppe Verdi . Il maestro Narduzzi con la sua bachetta , chiama con un segno il primo trombone solista ! La risposta è stata piu’ che negativa ! nessun suono. Battista, invece di suonare, si é messo a cantare la romanza mettendo un po’ in collera il maestro ; ma dopo qualche secondo, la collera si è trasformata in un grande sorriso paterno facendo anche ridere tutti i componenti del Corpo musicale. Battista, possedeva una bella voce ,un orecchio piu’ che perfetto sempre alla ricerca della sensibilita’ musicale.
La sua esecuzione della Cavatina di Figaro del Barbiere di Siviglia era eccezionale ; un vero delizio per gli appassionati della musica lirica. Come moltissimi randazzesi, nel periodo del 1960 è partito a Milano, continuando a perfezionarsi nella storia musicale . Mi è stato riferito che dirigeva un complesso musicale, dedicandosi anche alla composizione. Ho avuto l’ occasione di rivederlo a Randazzo in periodo festivo prima del suo decesso , principalmente nei mesi di agosto , con il complesso Marotta presentando prima dell’esecuzione dell’ opera musicale, i dettagli storici dei grandi compositori italiani.
Tante storie potrei scrivere concernente certi componenti del vecchio Corpo musicale di Randazzo.
Non volendo cambiare i miei propositi , prima di terminare questo modesto diario, desidero semplicemente citare qualche cognome di concittadini , facendo parte del Corpo musicale negli anni 1950 ed anche dopo ; Gaetano Lazzaro , grande clarinettista, grande copista, dotato di una eccezionale calligrafia musicale . Abitava in Piazza San Martino , allievo del Maestro Marrone ; primo clarinetto A sotto la direzione del Maestro Narduzzi . Il nostro concittadino è deceduto a Milano , Carmelo Scalisi , primo clarinetto , di professione ebanista , Salvatore Mendolaro , clarinetto, di professione calzolaio, Salvatore Raciti , primo clarinetto , accompagnato dal figlio Mario Raciti trompettista . In realita’ Mario suonava parecchi strumenti. Pietrino Grasso , anche lui suonava il clarino ed anche i saxsofoni . Eccellente copista ; sicuramente che negli archivi del Complesso Marotta, si possono trovare ancora molte partizioni musicali trascritte dalle sue mani. Voglio ricordare ai nostri giovani randazzesi , che il Signor Salvatore Raciti , era un grande maestro scalpellino ; accompagnato dal figlio Mario, verso gli anni 1947 cioè nel dopo guerra, le dobbiamo il ristauro del Chiostro , colonne , banchine e finestre del nostro Palazzo Comunale , la realizzazione della scalinata del Santuario del Carmine , moltissimi lavori in pietra lavica , e innumerevoli monumenti funerari . Per completare, voglio accennare la fine delle nostre antiche fornaci. Nel quartiere di San Giuliano e nei pressi della Via Carcare, quasi tutte sono state demolite . Ci sarebbe da conservare e proteggere ancora qualche fornace piu’ che nascosta e che sarebbe dell’ epoca Araba , non voglio citarla , per paura della demolizione . Ricordo, la sera dell’ 11 agosto 2001 a l’occasione dell’ inaugurazione della Grande Esposizione in onore di Federico secondo , realizzata dall’artista siciliano : MADE’ : e presentata all’ interno del Chiostro Municipale di Randazzo dal nostro Rev.mo Monsignore Santino SPARTA’. Dopo la presentazione di questa grandiosa esposizione ,dei suoi oggetti preziosi e del suo libro, termino’ il suo discorso accennando la delicata questione della protezione e della conservazione dei resti antichi lasciati per miracolo in salvo dopo i bombardamenti del luglio e agosto 1943 . Ascoltai e ammirai il coraggio di questo eminente religioso , affermando pubblicamente che questi, non sono stati ne curati ne apprezzati da certi cittadini . Noi cittadini randazzesi ,dobbiamo essere fieri di avere un religioso intelligente , un uomo di lettere , dotato di un grande sapere , con moltissime buone idee non solamente al livello amministrativo , ma anche per la protezione dei nostri monumenti, e per lo sviluppo del turismo locale. Molte volte le sue buone idee non sono state ben seguite ed eseguite da certi dirigenti della nostra Amministrazione . La citta’ di Randazzo, ha bisogno di un grande sviluppo economico . Molti giovani diplomati e non diplomati, mancano di occupazione . Per rimediare a questa grande lacuna, male cangrenoso della nostra epoca, due soluzioni esistono ; rilanciare l’ agricoltura e il turismo. Non dimentichiammo che il nostro territorio, è stato sempre una grande zona artigianale e agricola. Producere locale, significa creazione di posti di lavoro e impieghi per i nostri giovani ,evitando cosi’ l’immigrazione e la separazione dell’unita’ famigliare. Nelle contrade del nostro Comune, esistono ancora bellissime proprieta’ agricole con sontuose palazzine antiche di una vera bellezza architetturale inestimabile.
Ammiro sempre, il coraggio dei proprietari, i quali con la forza fisica e mentale, malgrado gli inconvenienti amministrativi, riescono con molta volonta’ e gusto, al ristauro, trasformandoli in alberghi, ristoranti e luoghi di vacanza , creando qualche posto di lavoro per i nostri giovani . Ma, tutti i cittadini randazzesi amano le nostre antiche costruzioni ? Trovandomi molto distante della mia amata Randazzo, la mia risposta è forse negativa.
Senza la forza e la fede degli abitanti, un giorno o l’altro , moltissimi vestigi antichi e meno antichi, saranno distrutte . Non desidero impicciarmi di certi affari . Ultimo caso , la parte antica Est del vecchio palazzetto Germana’ ; questa piccola particella piu’ che antica, è rimasta per miracolo in piedi dopo i disastrosi bombardamenti del 1943. Da ragazzo, ho conosciuto il vecchio palazzetto ; potrei anche descrivere come era , il pianoterra, era occupato da parecchie botteghe di artigiani ; falegnami, barbieri, stagnini e venditori di buon vino. Era possibile salvarla ? questa particella, poteva essere inglobata nella nuova costruzione ? Non essendo un esperto in questa materia , non posso rispondere a queste spinose questioni.
Amici miei randazzesi, amministratori comunali di tutte le tendenze , avete pensato al salvataggio del nostro vecchio Convento di San Giorgio ? al nostro Convento dei Frati Cappuccini ? al nostro rinomato Collegio San Basilio ? volete che questi monumenti cadono in rovina e dare via libera ai demolitori ? Sarebbe un gesto ed un atto piu’ che grave .
Il turismo, si attira proteggendo le vecchie pietre e non costruendo muri in cemento oppure in calcestruzzo .
Ho avuto diverse occasioni di visitare molte regioni della Francia con i suoi sublimi antichi villaggi ; tavolta abbandonati a causa delle guerre e delle carestie , oggi rissuscitati dal disastro , con la forza e la volonta’ dei cittadini , ridando vita a queste antiche dimore , attirando molti turisti e molto benessere per gli abitanti.
Con la volonta’ e l’aiuto delle numerose associazioni locale, nei nostri antichi quartieri,molte cose si potrebbero imbellire ; molti abitanti lo fanno, mettendo in valore i lavori in pietra lavica , archi di porte , finestre, balconi ed altre belle cose. Di ritorno nella mia Randazzo, mi rendo conto che certe mentalita’ e principi, non cambiano ; pertanto, l’intelligenza e l’istruzione esiste . I cittadini randazzesi, possedono un enorme potenziale intellettuale , artistico e culturale . Non dimentichiamo che le belle realizzazioni culturali , intellettuali e archittetturali , si possono realizzare con le idee e la volonta’ di tutti gli abitanti , all’infuori della politica e delle idee politiche. Ringrazio il Prof. Nunziatino Magro e la sua equipe di T.G.R. Televisione Randazzo , il Signor Giuseppe Portale per le sue interviste , i suoi libri , per i suoi inteventi . Il Signor Francesco Rubbino per il suo sito internet « Randazzo . Blog il quale con il suo lavoro e le sue ricerche , ha onorato e onora la memoria dei nostri defunti illustri cittadini , ma anche a noi immigrati randazzesi presenti in tutti i luoghi d’Italia e del mondo . Grazie Signor Rubbino . Grazie a tutti coloro che hanno pubblicato sui siti internet , e consultati da noi residenti all’ estero. Non desidero dimenticare il nostro concittadino Dott. Salvatore Rizzeri per le sue pubblicazioni e per l’interessamento allo sviluppo turistico della nostra Citta’ di Randazzo.
Auguri a tutti i cittadini di Randazzo , e che la Citta’ sia sempre piu’ bella, piu’ prospera, più tranquilla.
Carmelo Venezia Beausoleil Agosto 2019 .
Camelo Venezia ha scritto due bei racconti, uno sul nostro Corpo Bandistico Musicale, l’altro sulle fornaci del quartiere di San Giuliano che puoi leggere cliccando qui sotto.
Giovannella De Quadro, conosciuta oggi come De Quatris (1444 – 15 luglio 1529, ma nonostante le documentazioni, non tutti gli studiosi concordano spostando la morte al 16 luglio o all’anno 1519) fu una nobile Baronessa che visse nell’arco della sua vita prima a Catania e poi a Randazzo, dove acquisì un ruolo di primo piano. Le origini della famiglia De Quadro furono scoperte solo di recente, il padre della Baronessa si chiamava Giovanni De Quadro e invece suo nonno si chiamava Gomes De Guadro (detto anche Gometro, Gomezio, Gomecio, Gomecii e Gomecium come riportano alcuni documenti storici), catalano giunto in Sicilia, ebbe un ruolo di primo piano nella città di Catania dove sposò la figlia del nobile Raimondo Capitano di Giustizia della città, alla presenza anche dell’infante Pietro fratello del re e del fratellastro Federico d’Aragona conte di Luna e successivamente divenne anche Patrizio di Catania. Il nonno della Baronessa conobbe sicuramente il Governatore di Malta Gonsalvo Monroi (detto anche Gondisalvo Monroy o Murroi) che gli cedette i feudi detti “Flascino, Flaxio o Frascino e Briemi o Brieni” oggi Flascio e Brieni. Il cognome della famiglia fu modificato da Giovanni suo padre, che nel suo giuramento di fedeltà al re riportava: “Giovanni De Quadro figlio di Gomes De Guadro”, si trattava quasi sicuramente di una traduzione voluta forse per nascondere le origini catalane o per favorirne la pronuncia nell’idioma volgare dell’epoca. Da questo momento in poi De Quadro diventa il cognome della famiglia, ma con la Baronessa fu poi nuovamente mutato da Quadro a Quattro, Quattris, Quadris fino all’attuale De Quatris che poi fu adottato da tutti, anche dai diversi studiosi. Tuttavia De Quatris è più un soprannome come riporta l’iscrizione nel suo monumento funebre in cui si specifica “detta De Quatris” a sottolinearne quasi la non originalità di questo cognome. Giovannella De Quadro ebbe nel corso della sua lunga vita due mariti; si sposa la prima volta con Pietro Rizzari (??-1512), discendente probabilmente dallo stesso Pietro Rizzari che anni prima fondò l’Università di Catania e che aveva conoscenza presso il re Alfonso. (Infatti secondo diverse fonti, una Tarsia Rizzari fu la concubina del re Martino I e gli diede anche un figlio il futuro Federico Conte Di Luna, di cui re Alfonso era per l’appunto il fratellastro.I siciliani volevano incoronare re proprio Federico, ma gli spagnoli nonostante Federico fosse stato educato in Aragona si opposero giustificandosi contro i suoi natali illegittimi e scegliendo quindi Alfonso). La Baronessa, non ebbe figli da questo matrimonio e prima della morte del marito fece testamento (nel 1506 ma per quanto riguarda questo testamento pare che forse ci siano altre copie redatte in date differenti, poiché alcune fonti riportano le seguenti date: il 5 marzo 1506, il 23 marzo 1506 e il 28 aprile 1506) affinché con il ricavato delle sue proprietà fosse conclusa la costruzione della chiesa di Santa Maria (oggi Basilica di Santa Maria Assunta) mantenendo l’usufrutto per lei e il marito. Morto il marito quando ella aveva 68 anni, si sposò la seconda volta con Andrea Santangelo discendente probabilmente dai baroni del Cattaino e secondo le fonti esso prese investitura dei feudi solo nel gennaio del 1517. Non fu ovviamente un matrimonio per avere dei figli, vista l’età avanzata, ma sicuramente di comodo o come azzarda qualche studioso per ragioni patrimoniali, oppure perché si suppone che Andrea Santangelo rivendicasse i feudi appartenuti ancora prima di Monroi dai suoi avi. Andrea Santangelo entrò quindi come usufruttuario e secondo le fonti, ostacolò non poco gli ecclesiastici di Santa Maria nella costruzione della chiesa, ma finché la Baronessa era in vita tutto fu fatto secondo quanto da lei disposto. Alla morte della Baronessa (morì all’età di 85 anni) nacquero infatti diverse questioni e furono promulgate persino scomuniche papali affinché nessuno potesse ostacolare quanto da lei disposto. Le due parti coinvolte erano la chiesa e il comune che a nome della comunità dovevano preservare gli interessi della nuova “Opera Pia” e di cui numerosi studiosi si sono documentati, anche schierandosi delle volte apertamente per l’una o per l’altra parte, fino a quando le ultime sentenze che ne definirono l’assetto oggi vincolante dell’Opera Pia della Baronessa Giovannella De Quatris la divisero fra le parti coinvolte. Il testamento diventò presto una questione complessa, che divise il paese per molti anni circa 3 secoli; infatti esso dichiarava che la Baronessa non aveva parenti oltre ad un nipote figlio illegittimo di un Francesco De Quadro chiamato Cosma o Comisso, ma alcuni studiosi riportano anche di una sorella della Baronessa (una certa Tuccia) che dopo la sua morte reclamava una parte dell’eredità e si suppone che tale Francesco De Quadro potesse essere un fratello della Baronessa deceduto all’epoca del testamento, così da giustificarne sia il grado di parentela con Cosma e sia la dichiarazione di non aver più parenti in vita, ma a tal proposito non sono state trovate fonti sufficienti per dissipare ogni dubbio e confermare quanto supposto.
In sintesi il testamento prevedeva che le onze ricavate dai feudi Flascio e Brieni servivano per:
1-La “Maramma” o “Fabbriceria” della chiesa di Santa Maria 2-Al completamento della chiesa, doveva costruirsi un Ospedale per i pellegrini 3-8 onze a vita venivano disposte per Cosma De Quadro 4-10 onze da destinare il 14 Agosto di ogni anno per matrimonio o ordine sacro alle giovani di famiglia nobile decaduta. 5-Per vigilare su quanto chiesto istituisce dei “Procuratori” laici eletti dai componenti della parrocchia e dal clero a condizione che siano persone oneste e di provata fede. 6-I feudi non potevano essere venduti o trasformati, ma dovevano servire solo per la causa testamentaria espressa. 7- I Procuratori trasgressori della sua volontà dovevano rendere conto ai “Giurati”.
Con gli anni le rendite aumentarono e le disposizioni iniziali divennero poi ricordo al completamento di quanto stabilito e così secondo alcune fonti, furono poi distorte per altri fini come: ai canonici per servire messa, all’organista o per altro scopo che fecero seguito a continue dispute tra il comune che intendeva amministrare per sé l’Opera e la Chiesa che ne richiamava diritto. Con il ricavato dei suoi feudi inoltre è stato realizzato anche l’altare della Chiesa di Santa Maria e lo ricorda anche il suo stemma nobiliare posto in cima e poi altre diverse e numerose opere, anche su disposizione del Vescovo di Messina che ottenne parte delle rendite per il completamento del Seminario diocesano, tuttavia queste opere che studiosi si sono chiesti se legittime, hanno forse dato ancor più valore alla grandezza della Baronessa, anche dopo la sua morte, perché portano tutte il suo nome e la sua generosità testamentaria. Nel corso degli anni alla Baronessa le fu attribuita anche la proprietà di un libretto in avorio, ma indagini hanno constato la presenza di questo già nell’Archivio dei Beni della Chiesa nel 1477, cioè già da quando la Baronessa aveva 33 anni e che forse invece rappresenterebbe una donazione fatta alla chiesa di Santa Maria da qualsiasi devoto, ma attribuitele forse per dare un maggiore riconoscimento al valore del manufatto. Intorno al 1790 inoltre la tomba della Baronessa fu aperta per via di un trasloco e il “Decano Canonico” di allora Antonino Vagliasindi, dichiarò in una lettera, che la Baronessa fu trovata intatta e che con lei vi era solo una corona di rosario in ambra che però gli prese per mandarla con altri suoi abiti e il libretto (nonostante non fosse con lei sepolto, a suo dire era appartenuto alla Baronessa), ad un ritrattista e ad uno scultore di Palermo, che quindi inventarono secondo la descrizione scritta del Decano il viso della Baronessa, avendo come indicazioni perfino i nei del viso. Il ritratto e il busto custoditi oggi nella Chiesa di Santa Maria, non corrispondono quindi al vero, ma più che altro alle fantasie dei loro creatori, secondo le disposizioni del Decano che voleva omaggiare la Baronessa per via della sua preziosa donazione, che con gli anni aumentava di profitti. La Baronessa Giovannella De Quadro è stata ed è ancora oggi una figura importante per la storia e la cultura di Randazzo, lo testimonia il suo atto di generosità a disposizione dei randazzesi. I diversi misteri che riguardano la sua vita, hanno sicuramente contribuito a darle una maggiore riconoscenza e un maggiore interesse, ancor oggi avvertiti con curiosità da parte di tutta la città di Randazzo.
La storia del nostro paese non è grande solo grazie a uomini, ma anche a donne: un ruolo importante sicuramente l’ha avuto la baronessa Giovannella De Quatris.
Non è certa la data della sua nascita, ma si può stabilire intorno al 1444 a Catania, perché nel sarcofago è presente la seguente frase: “Vixit annos LXXXV” cioè “visse 85 anni” e la data della sua morte, 1529.
Il cognome ne rivela le origini aragonesi. Trasferitasi a Randazzo, in seguito al matrimonio con Pietro Rizzari, non riuscì mai a realizzare il sogno di avere figli.
Vivendo e pregando nella chiesa di S. Maria, con gli abitanti di Randazzo, aveva potuto constatare la povertà e la miseria in cui molti vivevano e proprio per questo motivo decise di donare, con atto del 23 marzo 1506, alla chiesa che tanto amava, due feudi, Flascio e Brieni nel territorio di Randazzo, affinchè ne venisse realizzato il completamento.
Tale chiesa era stata luogo molto importante per la baronessa perché vi aveva potuto esercitare la fede in Dio con grande devozione.
Alla chiesa donò anche suppellettili vari, per l’abbellimento della stessa, come il famoso libretto scolpito in avorio, all’interno del quale si trovano foglietti in pergamena con delle miniature che rappresentano i misteri della passione di Cristo e le preghiere da lei recitate, descritte attraverso immagini, in quanto la Baronessa non sapeva leggere, essendo negato alle donne dell’epoca l’apprendimento attraverso la lettura.
La generosità di Giovannella è evidenziata dal fatto che la sua eredità si estende non solo alla Chiesa, ma anche alla vita di giovani donne; infatti con il testamento dispose che le giovani nobili decadute usufruissero di lasciti (10 onze il 14 Agosto di ogni anno) per la dote del matrimonio o di monacazione.
Un vitalizio di 8 onze all’anno fu lasciato anche al figlio illegittimo del padre.
Morto il marito Pietro Rizzari, Giovannella a distanza di un anno si risposò con Andrea Santangelo.
Grazie al suo lascito, nella Chiesa di S.Maria, nonostante le controversie con l’ultimo marito, che usufruì del feudo di Brieni fino alla morte (1560), furono molti i lavori e gli abbellimenti fatti.
La chiesa man mano assunse una forma decorosa e monumentale, per le snelle colonne gotiche, i capitelli floreali stilizzati, gli archi acuti, solenni e agili, e infine per l’immagine della bella Madonna di fattura bizantina posta sull’altare. La chiesa fu dotata di altri ornamenti, come nel 1567 l’imponete Ostensorio processionale, in argento dorato, che tuttora fa parte del suo tesoro.
Grazie all’eredità della baronessa De Quatris, quindi, si è potuta realizzare la bella Basilica di S.Maria, simbolo del nostro paese.
Anna Bagiante (Liceo Classico “Don Cavina” Randazzo ).
” a Vara” dedicata all’Assunta, è una suggestiva tradizione che dal 1500 è giunta fino ad oggi.
La storia non lo afferma con sicurezza ma, da scritti dell’epoca, da leggende e dalla memoria popolare, si fa risalire l’istituzione della festa alla baronessa Giovannella De Quatris. Sotto il suo patrocinio bravissimi artisti, artefici realizzarono il “Carro Trionfale” detto nel gergo popolare ” ‘A Vara ” la stessa nobile Giovannella, si dice abbia lasciato l’incarico alla Chiesa di S. Maria, oggi Basilica Pontificia, di tramandare ai posteri la manifestazione, dotandola all’uopo anche di mezzi finanziari, oggi sostenuta dalle amministrazioni comunali e dai cittadini. “‘A Vara “ viene allestita non perdendo nulla della originaria magnificenza e dei simbolismo primitivo.
Il sostegno centrale, un grosso tronco dei diametro di 40 cm., non è fisso, ma compie un movimento rotatorio continuo, che ha per immediata conseguenza la rotazione di tutto l’apparato, comprese le persone e le due grandi ruote già per se stessa mobili in altro senso. Dalla base al vertice dell’enorme ” simbolo ” si inseguono centinaia di figurine ornamentali in rilievo, nuvole d’argento, specchi a profusione delle dimensioni più svariate, una miriade di scaglie d’oro, argento, smeraldo, arancio, zaffiro.
Il brillìo gioioso di tanta ricca veste, i barbagli vivissimi che gli specchi lanciano colpiti dai raggi solari bastano da soli a sottolineare l’apoteosi della Vergine che accede al Trono dell’Eterno.
Il carro base ha un’ area di 1 8 mq. e ospita oltre al tronco centrale, un altarino con la reliquia della Madonna. Attorno all’ara trovano posto sacerdoti e chierici. Il complesso misura da terra al sommo vertice quasi venti metri.
Padre Luigi Magro da Randazzo, al secolo Santo Magro (1881-1951), dei Frati Minori Cappuccini nel suo libro ” Cenni Storici della Città di Randazzo” tratta molto dettagliatamente la questione della donazione della baronessa Giovannella De Quatris e di tutte le conseguenze che da essa derivarono.
Per un maggiore approfondimento vi rimando al suddetto libro ( cap.9 pag.258 ) che puoi trovare nel profilo diPadre Luigi Magro.
IL LIBRO DI PREGHIERE DI GIOVANELLA DE QUATRIS
Prof. Enzo Maganuco
Gelosamente custodito nel tesoro della cattedrale, il libro di preghiere di Giovannella De Quatris, (1444 – 15 luglio 1529) , nobile randazzese della fine del quattrocento, chiude fra due valve eburnee, intagliate duramente a basso rilievo, tre lamine pure esse eburnee, sulle quali poggiano attaccate e leggermente erose per lungo, ascetico uso, sei paginette in pergamena. Il piccolo codice, sul quale la baronessa De Quatris, illetterata, posava lo sguardo a contemplare i misteri della vita e passione di Cristo, misura, aperto, cm. 10×13. Le valve del dittico che formano come due coperture di guardia al codice miniato, sono divise in due zone. La prima contiene la Crocefissione in alto, e la Resurezzione in basso, l’altra rispettivamente l’Incoronazione e il Transito di N. D. Una cornice ricorre sopra ogni riquadro e consta di una serie di archetti pensili, ciechi di coronamento. Sono archetti acuti cuspidati, col giglio apicale di gusto francese e aragonese come se ne rivedono in tutte le tarde forme gotiche sotto la dinastia aragonese in Sicilia: in S. Giorgio a Ragusa Ibla, nell’arco di S. Maria di Gesù a Modica.
Randazzo – La Baronessa Giovannella dè Quatris
L’artefice del dittico ha voluto – con evidente squilibrio di tutto il valore ornamentale – decorare con fogline rampollanti anche la convessità degli archi i quali, nell’intradosso non portano l’arco tribolo come nel tardivo gotico francese dal quale derivano molti, intagli eburnei del tempo, ma hanno l’intradosso liscio e a larga bi concavità come nel gotico siculo. Egli nell’ingenuo sforzo per riempire tutti gli spazi vuoti con figure che dovrebbero concorrere alla risoluzione dell’episodio mostra subito, co l’accavallamento delle figure stesse senza alcun tentativo di gioco prospettico – non ancora risoluto nell’epoca del dittico – un arcaismo dal quale non si salvano in Sicilia neanche i pittori più egregi. Anche nella coimesis l’artista segue ancora lo schema bizantino dei mosaici e delle pitture su tavola di Sicilia; e non è da far le meraviglie se – data la persistenza iconografica bizantina in Sicilia – nella Chiesa di S. Maria in Randazzo e nella Chiesa dell’Annunziata in Comiso,GiovanniCaniglia (1548), pittore del cinquecento, arcaico ma non privo di piacevolezza e di originalità in certe gamme cromatiche e in certi impasti, nel transito di N. D. segua pure lo stesso schema iconografico. Ma nel riquadro del dittico, la sproporzione delle mani e delle teste che vorrebbero dare grandiosità e solennità, quel fare convenzionale dei capelli a masse parallele sfuggenti, trovano compenso nell’illeggiadrirsi delle pieghe naturali soavi attorno alle gambe della Madonna e attorno al corpo della figura accasciata e implorante a lato della bara, La madonna è tutta chiusa nella linea soave creata dalla curva del capo poggiante sul cuscino approntato da mano pia, mentre il volto ristà soffuso da uno spento sorriso smarrito. E le mani stilizzate, si incrociano con purezza, se pur convenzionalmente, al di sopra del drappo scendente in dure e orbacee pieghe del cataletto. Non è dubbia, in tutto il riquadro, l’influenza del goticismo francese che per questa opera arriva in Sicilia con un’ondata quasi spenta: basti pensare ai due avori francesi del XIV conservati al Louvre e pubblicati dal Malet. Ma negli avori del Louvre, nonostante l’insistenza dell’attitudine ieratica e convenzionale, la lunghezza delle mani eccessivamente affusolate, c’è nell’artista gotico una consapevolezza e una padronanza del senso decorativo che ci stupisce, un equilibrio nelle masse, in così dolce trapasso di piani nell’avvicendarsi delle pieghe ! E tanto armonica la linea decorativa sottintesa nelle figure secondarie e in special modo negli angeli tubicini e osannanti, che l’occhio ne rimane fermo e sorpreso. Invece del dittico di Randazzo eco lontana di quelle forme originali nobilissime che in tono minore ci riportano alla scultura monumentale dei portali e dei protiri delle cattedrali francesi, specie nel riguardo della coimesis , si sente un artista nostrano e primitivo nella distribuzione delle parti, che sostituisce alla fluida bellezza dei nordici modelli una robustezza anatomica delineata con rozzezza tagliente e con angolose sporgenze e rientranze: è musica insomma, concepita quasi, in tutte quattro i riquadri, in toni naturali, senza semitoni di trapasso. Maggior senso di proporzione, di dominio degli spazi, si ritrova nelle altre tre figurazioni. L’espressione dei volti riesce talora caricaturale poiché l’artista, nel definire coll’intaglio la mimica facciale, procede per approssimazione. Riso infatti, più che celestiale e ispirato sorriso, è quello dell’angelo che incorona Maria: allungatissime, forse a indicare il culminare del momento mistico e solenne, le dita benedicenti dell’Eterno, dell’Apostolo del Cristo nei due episodi della prima valva e nell’episodio basilare della Resurrezione nella seconda. In alto, a destra, nell’episodio della Crocefissione, lo spazio, diviso longitudinalmente in due dal corpo del Cristo contorto entro la tradizionale curva romanica, contiene due gruppi: a destra Longino e Nicodemo oranti e i soldati, affollati, delineati con aspri incavi che duramente sbalzano il drappeggio; a sinistra il gruppo delle donne, tra le quali Maria, esausta, irrigidita in una smorfia di dolore mal resa e convenzionalmente ottenuta dall’artefice, sorretta da mani pietose che stringono l’affannato torace. Qui l’ondeggiare e l’accavallarsi delle pieghe, resi con grande sensibilità di massa e per piani progressivi, mostrano come l’artista – meridionale probabilmente per l’atticciatezza delle figure e per la robustezza talora eccessive delle masse – si sia giovato, per l’intaglio, di qualche gruppo di modelli francesi del tardo gotico, mentre ha lavorato con proprio slancio di fantasia e con diverso ritmo creatore attorno a certi altri gruppi. Nel riquadro della Crocefissione vi sono, tra il gruppo circostante di sinistra e quello di destra, tali profonde differenze di concezione dell’anatomia e del drappeggio che se ne può facilmente dedurre la diversità di modello e d’ispirazione. Dalla Francia numerosi vennero in Italia ,i dittici eburnei e non è escluso che da noi abbiano avuto larga eco in varie riproduzioni simile, forse della stessa officina d’arte riprodusse il modello dittico, è quello di Sassoferrato (8) in cui però l’equilibrio degli spazi, la battuta larga ed armonica, la proposizione degli scorci anatomici ci portano lontano dal nostro e se mostrano la similarità fanno pur sentire la statura di un artista superiore. Ma la fonte della Crocifissione è ben riconoscibile : è il dittico della passione della Collezione Hainauer di Berlino. Il taglio quadrato, ancorché rettangolare, del piccolo lacunare contenente la scena, non ha permesso all’artista del dittico di Randazzo di addensare tutti i personaggi entro il riquadro e ha tolto Longino e Nicodemo d’attorno al Crocifisso. E ben probabile poi che il dittico di Berlino sia servito di modello mediato attraverso qualche copia o qualche replica: ché nel nostro dittico, benché le figure siano quelle del modello, più pigiate e addossate , v’è tale sciatteria che non sapremmo immaginare il diretto influsso dell’avorio francese eletto nella forma, squisitamente patetico negli atteggiamenti : del resto, evidente distanza di tempo separa le due opere. La prima, della metà del secolo XIV, la seconda della fine del secolo quando, spento ogni flusso di idealismo – sia pure trascendente e convenzionale – per l’introduzione del realismo straniero, l’arte fu portata a tendenze spiccate verso forme drammatiche e patetiche; certamente, non tutti gli artisti riuscirono compiutamente e rapidamente a togliersi dal solco della tradizione. Certo, esistono dei modelli perfetti : ma le derivazioni, pur conservando l’iconografia che potremmo dir nuova, mostrano eccesso, banalità, manierismi. La Vergine negli intagli eburnei tardivi, non sta più diritta fra i due angeli, una si curva verso di loro, sdraiata; nella tragedia del Calvario ognuno, come dice il Malet (9) , si torce sui suoi piedi col più melodrammatico dolore e il Cristo, curvo in due sulla Croce ondulante fra il gruppo delle donne e dei soldati come in balia di un vento violento. Le forme che la tradizione aveva imposto, imbevute di grazia impeccabile e concludenti gli episodi in disposizioni ingegnosissime donde balzava lo spirito altamente decorativo dell’artista, declinavano ormai; le forme sfociavano in un realismo gretto e greve. A questo periodo di realismo svisato, mal compreso e mal reso, crediamo che appartenga il dittico di Randazzo; il quale pur avendo con altri – come si è dianzi detto – termini di similarità persino nella cornice archiacuta di gotico fiorito, mostra nell’artista un valente imitatore che pur sentendo qua e là l’eleganza e lo slancio gotici, rimane, a nostro modo di vedere, specie nella durezza delle masse anatomiche e nell’arcaismo della distribuzione, un siciliano della fine del secolo XIV o del primo scorcio del XV.
LE MINIATURE
Di stile più prettamente francese sembrerebbero, in una prima visione sommaria, le sei miniature contenute nel dittico creato per certo a contenerle dopoché esse furono ritagliate da qualche “officium” per servire da guida spirituale alla De Quatris. Il largo margine vergine che corre attorno alle riquadrature delineate violentemente in sepia e a doppia squadratura, escluderebbero nell’artista la volontà a fare l’opera di decorazione comune ai miniatori palermitani e arabo-siculi che nelle cassette e sulle pergamene, in preda a uno slancio decorativo, ornano di racemi, di ori, di fuseruole, di bacche, di volute, tavole e pergamene. L’artista qui ha voluto soprattutto rappresentare; l’elemento decorativo è spostato: da esterno diventa intimo e concorre a rendere soprannaturale la scena che nella rappresentazione delle figure cerca di essere realistica o, per lo meno, naturalistica. Le figure, manchevole nel nudo, ma sode e ben postate quando sono vestite perché l’artista conosce il ritmo delle pieghe cascanti secondo la legge della gravità, profilate con precisione si ché coll’avvicendarsi delle e delle ombre ne risulti modellato tutt’altro che debole, sono immerse in un’atmosfera di sogno, talora, come nell’Annunciazione, sotto un cielo convenzionale in cui lo razzare della luce è inquadrato in una rete di righe aurate a quadri. Vano è parlare di veridicità cromatica, di corrispondenza al vero di pittura e tanto più quando si parla di miniatura; ad ogni modo l’artista non vuole solamente liricizzare il colore locale delle cose ma vuole addirittura portarci in un ambiente irreale nel quale si svolga però l’episodio con palpito e con naturalezza umana : l’artista vuol giungere al mistico attraverso l’equilibrio tra il reale plastico delle masse anatomiche e l’irreale convenzionale del colore ambientale e paesistico.
Il sacro lungo uso del delizioso libretto attenuato qua e là le tinte senza però troppo scialbarle né logorarle; l’effetto cromatico è ancora completo. Il cielo, nella scena dell’Annunciazione, che nello schema iconografico segue quello della corrosa Annunciazione della finestra basilare del trecentesco torrione di S. Martirio, è purpereo, e di un cremisi cupo è nella scena del Cristo alla Colonna. Quest’ultimo episodio, ingenuo nella rappresentazione degli alabardieri resi male per l’inversione della statura che porta a una errata valutazione della distanza prospettica , e ingenuo ancora per la goffa apparizione dell’Eterno, pur essendo dello stesso maestro che ha miniato gli altri fogli, mostra più a nudo le qualità negative dell’artista che nelle altre miniature se scopre delle manchevolezze attribuibili all’epoca in cui egli operò, mostra d’altra parte qualità di disposizione delle figure e soprattutto una spiccata tendenza alla musicalità del colore che ritroviamo poi sviluppate solo nel tardo quattrocento, nelle miniature palermitane. Nella scena dell’Annunciazione Maria, serenamente atteggiata, con un rotulo svolto sulle gambe, in ambio manto celeste lumeggiato dall’artista con un cobalto sereno che si risolve in accordo coll’azzurro d’oltremare delle pieghe cupe, profonde, sinuose, elegantemente contenute, ristà sotto un baldacchino di cadmio tutto dorato dai raggi del sole; l’angelo in lucco rosso e con ali acutissime che rammentano quelle delle miniature francesi del trecento, è genuflesso; e divide architettonicamente lo spazio in diretta corrispondenza coll’oggetto del baldacchino: da un ornato porta fiore emergono fogli e gigli; la scena si svolge su un pavimento a scacchi verdi e neri che chiedono con tono freddo e intonato tutta la gamma cromatica della composizione. La scena della Visitazione si svolge entro un recinto limitato da un incannicciato, il tradizionale e ancor comune “cannizzu” siciliano che si rivede anche nella Natività né mi pare sia questo un riempitivo di indole nordica. Torrioni apparsi nella lontananza che li separa, si ergono in alto, sulla collina retrostante. Anche qui il rosso mattone della veste di S. Elisabetta, è intonato colle tinte espresse nella miniatura. Più solida nel colore è la miniature della Presentazione al Tempio; stridente pel contrasto che nasce da gridellino dell’abito di Giuseppe di fronte all’azzurro di cobalto del manto della Madonna immersa in una fiamma convenzionale, amplissima che la circonfonde e l’altra raffigurante la Natività; ambedue queste miniature mostrano qualità di disegno e un senso così marcato della plastica e della profondità – che diventa ammirevole risoluzione prospettica nello sfondo della trabeazione, costituito da un loggiato – da far pensare quasi che l’artista abbia cominciato dalla Crocefissione e dal Martirio alla colonna e che dopo varie incertezze e inciampi nella risoluzione dei vari problemi anatomici e paesistici abbia meglio padroneggiato i suoi mezzi sboccando con vero lirismo pittorico in quelle figurazioni che cronologicamente sono anteriori nella vita del Redentore.
***
Ma ci occorre il problema del collocamento cronologico e della provenienza. Dissi sin da l’inizio che le miniature appaiono francesi. Ed è verosimile che l’artista sia stato educato a modelli francesi. Un’analisi minuta ci porta ben lontani. Nelle presenti miniature il convenzionalismo, se c’è non è gotico; è nel colore e questo può essere frutto di quella spiccata tendenza al colore irrazionale che i siciliani ereditarono dai bizantini e dagli arabi. Né vale che spesso siano state illustrate leggende cavalleresche o sacre di sapore provenzale come nello steri o nel tetto di S. Nicolò a Nicosia, o nel tetto del Duomo di Messina ; in Sicilia la tendenza al colore irrazionale fu intimo bisogno di decorazione sognatrice, non convenzionalismo di importazione straniera; né d’altra parte affiora in questi fogli miniati quell’eleganza slanciata ma chiusa e fredda del gotico tardivo francese. Nel Nostro codice, l’elemento figurato, umano o divini, sematico insomma, è reso con quel naturalismo stentato, ma naturalismo, che ritroviamo in Sicilia verso il quattrocento; quivi l’arco acuto comparso prima dell’evento del gotico, scompare presto e il primo rinascimento quattrocentesco ci dà nuovamente l’arco molto schiacciato, quasi a pieno centro, dal quale è bandita ogni idea di goticismo; e ricompare qualche decorazione cosmatesca come nel palazzo Ciampoli di Taormina, nel palazzo Clarentanoe nelle case di via dell’Agonia a Randazzo; nella miniatura dell’Annunciazione la decorazione del mur0 di cinta del baldacchino, se pure aprossivamente, rammemmora la decorazione cosmatesca; e nella Presentazione lo sfondo è pienamente quattrocentesco nella semplicità del loggiato, nella rotondità degli archi ; e questo maestro che in luogo di giocare per impasti di tinte preferisce dipingere a forti tinte locali, lumeggiando poi per sovrapposizioni filiformi e chiare, porta nella sua tecnica, nella comprensione prospettica, nella variazione cromatica dei piani, gusto strano e rozzezza e dev’essere stato un primitivo siciliano del quattrocento educato soprattutto alla scuola di quei freschisti della Sicilia centrale che negli affreschi di S. Andrea di Piazza Armerina e di S. Spirito a Caltanissetta fanno sentire come le miniature in questione siano lontana e indiretta filiazione di quegli affreschi.
I candidati che hanno partecipato alla competizione sono:
Del Campo Ernesto (voti 3539) – Mangione Michele (voti 2366) – Lanza Antonino (voti 1837)
Al ballottaggio: Del Campo Ernesto (voti 4225) – Mangione Michele (voti 2358)
Consiglieri Comunali dal 2013 al 2018
N.
COGNOME E NOME
PARTITO
VOTI
1
Grillo Antonino
Articolo 4
2
Gullotto Maria Cristina
Articolo 4
3
Ceraulo Vincenzo
Articolo 4
4
Mollica Sebastiano
Articolo 4
5
Anzalone Gianluca Giuseppe
Randazzo Democratica
6
Priolo Carlo
Randazzo Democratica
7
Sindoni Sara Anna
Randazzo Democratica
8
Emmanuele Grazia
Impegno per Randazzo
9
Ragaglia Alfio
Del Campo Sindaco
10
Russo Maria Serena
Del Campo Sindaco
11
Giarrizzo Carmelo
Del Campo Sindaco
12
Pillera Alfio
Insieme per Francesco Sgroi
13
Salanitri Stefania Milena
Insieme per Francesco Sgroi
14
Scalisi Carmelo Tindaro
Insieme per Francesco Sgroi
15
Arrigo Maria Loredana
PDL
16
Rubbino Carmelo
PDL
17
Gullotto Giuseppe
Il Paese Che Vogliamo
18
Minissale Franco Giuseppe
Il Paese Che Vogliamo
19
Guidotto Antonino
Angela Vecchio Sindaco
20
Foti Concetta Carla Luisa
Vivi Randazzo
Le amministrative del 2013 sono elezione con sistema elettorale misto con elezione diretta del sindaco in un unico turno.
I candidati che hanno partecipato alla competizione sono:
Mangione Michele (voti 2195) – Sgroi Francesco (voti 1597) – Del Campo Ernesto (voti 1213) – Vecchio Angela (voti 698) – Proietto Umberto (voti 696)
Consiglieri Comunali dal 2018 al 2023
N.
COGNOME E NOME
PARTITO/LISTA
VOTI
1
Giardina Maria Enrichetta
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
453
2
Pillera Alfio
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
432
3
Proietto Maria Rita
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
393
4
Gullotto Giuseppe
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
376
5
Padalina Carmelita
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
323
6
Scalisi Carmelo Tindaro
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
318
7
Ragaglia Alfio
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
301
8
Petrina Chiara
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
299
9
Lo Castro Giuseppe
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
199
10
Crimi Stigliolo Marco
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
198
11
Bordonaro Alessia
Insieme Per Randazzo – Sgroi Sindaco
190
12
Antonino Grillo
Vivere Randazzo – Grillo Sindaco
(*)
13
Anzalone Gianluca
Vivere Randazzo – Grillo Sindaco
329
14
Ceraulo Vincenzo
Vivere Randazzo – Grillo Sindaco
328
15
Sindoni Sara Anna
Vivere Randazzo – Grillo Sindaco
243
16
Caggegi Carmela
Vivere Randazzo – Grillo Sindaco
240
Le elezioni amministrative del 2018 si sono svolte con sistema elettorale maggioritario con elezione diretta del sindaco in un unico turno. Il candidato sindaco che ottiene il maggior numero di voti è eletto con una maggioranza di 11 consiglieri, il candidato sindaco primo dei non eletti (*) è proclamato consigliere, vengono eletti n. 5 consiglieri della lista che risulta la seconda come numero di voti riportati.
I candidati sindaci che hanno partecipato alla competizione sono:
di Maria Antonella Cocchiara – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 63 (2004
Vito La Mantia
LA MANTIA, Vito. – Nacque il 6 nov. 1822 a Cerda, piccolo comune del Palermitano, da Francesco e da Rosa Arcara, entrambi appartenenti a famiglie dell’agiata borghesia terriera. Compiuti gli studi superiori a Termini Imerese, si trasferì a Palermo per iscriversi alla facoltà giuridica, dove ebbe tra i suoi maestri E. Amari e B. D’Acquisto. Negli anni di studi universitari fu insignito del premio Angioino per l’economia politica e del premio Di Giovanni in lingua greca e latina, storia sacra e storia di Sicilia. A uno di tali premi è legata la sua prima pubblicazione, Sul modo di procurare la ricchezza e la civiltà delle nazioni (Palermo 1843), in cui il La Mantia professava un’incondizionata adesione al liberismo economico, pur differenziando le proprie posizioni da quelle della scuola degli economisti siciliani di matrice autonomistica e liberale, quali R. Busacca e F. Ferrara. Dopo qualche anno di pratica legale presso lo studio di P. Calvi, nel febbraio 1846 conseguì la laurea in giurisprudenza, dedicandosi, dopo un vano tentativo di ottenere un incarico universitario, all’avvocatura. Antinapoletano convinto e prudente sostenitore del movimento liberale siciliano, restò tuttavia estraneo all’esperienza rivoluzionaria e costituzionale del 1848 e, di conseguenza, all’ondata di persecuzioni successive al ritorno dei Borbone. Fino all’Unità, continuò a esercitare la professione di avvocato. Risalgono a questo periodo diverse memorie difensive e il progetto di dotare il foro siciliano di una rivista di legislazione e giurisprudenza, gli Annali di legislazione e giurisprudenza patria e straniera: nel 1858 ne pubblicò il primo (e unico) volume, seguito dalla raccolta di Decisioni della Corte suprema di Sicilia (Palermo 1858), relativa al primo decennio di attività della Suprema Corte siciliana (1819-29). Nel 1856, il L. sposò Antonina Salemi, sorella del democratico-radicale G. Salemi-Oddo. Dalla loro unione nacquero quattro figli, Francesco Giuseppe, Giuseppe – futuri collaboratori del padre e autori anch’essi di numerosi lavori storico-giuridici -, Rosa e Maria Concetta. In un contesto culturale impoverito dalla fuga di cervelli causata dalla repressione borbonica, il L. avviò il primo nucleo di studi di storia dell’antico diritto siciliano. Nell’opuscolo Discorso sulle basi della legislazione seguito da un progetto di storia del diritto civile e penale in Sicilia (Palermo 1853), presentò l’ambizioso disegno che, con qualche modifica resasi ancor più necessaria a seguito dell’unificazione territoriale e legislativa del Regno d’Italia, avrebbe preso corpo con la pubblicazione della Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia (I-IV, ibid. 1858-74). L’opera, che gli avrebbe dato ampia notorietà, è ancora oggi punto di riferimento per gli studi di storia del diritto siciliano. Articolata su due grandi aree temporali (dai tempi primitivi all’espulsione degli Arabi dall’isola e dalla conquista normanna sino ai suoi giorni), la Storia della legislazione, dopo i primi due volumi pubblicati nel 1858 e nel 1859, fu completata dopo l’Unità d’Italia (Palermo 1866 [ma 1868] e 1874), finendo per costituire una sorta di testimonianza dell’impatto con il processo di unificazione e codificazione nazionale. Il 6 agosto 1860 il La Mantia fu nominato giudice del tribunale civile di Palermo, entrando così a far parte della rinnovata magistratura siciliana. Nei trentacinque anni di attività giudiziaria, il L. continuò a coltivare gli studi di storia del diritto, spesso anteponendoli a interessanti prospettive di carriera e affrontando con rigore la difficoltà di conciliarli con i doveri del suo ufficio. All’età di 73 anni, pressato dal carico di lavoro connesso ai compiti di consigliere di Corte di cassazione, chiese l’anticipato collocamento a riposo, per dedicarsi totalmente alla ricerca storico-giuridica e, in particolare, ai lavori sulle consuetudini siciliane. La dimensione praticistica dei suoi studi, sollecitati sin dagli anni giovanili anche da esigenze di natura professionale, trovò alimento nell’attività di magistrato: le indagini per risolvere le controversie sottoposte alla sua cognizione si associavano alla ricerca storica sulle fonti, ritenuta necessaria per dominare un sistema giuridico di tipo codicistico, ma con vaste influenze dell’antico sistema giurisprudenziale del diritto comune. Rivelavano interferenze tra il lavoro di giudice e l’impegno di storico del diritto i numerosi approfondimenti su argomenti presi in esame in ragione del suo ufficio. Si ricordano, in proposito, le ricerche in tema di prescrizione centenaria, di diritti del Pubblico Demanio sulle spiagge e terreni adiacenti, di decime siciliane e di tonnare. Su quest’ultimo argomento il L. pubblicò la monografiaLe tonnare in Sicilia (Palermo 1901), che riprendeva una nota alla sentenza della Corte di cassazione di Palermo del 22 marzo 1890, di cui era stato estensore. Lo studio ricostruiva, con ampio corredo di fonti documentarie e normative, la regolamentazione giuridica delle tonnare siciliane, ripercorrendone le tappe: dal sistema della libertà della pesca, riconosciuto dal diritto romano, alle concessioni di età normanna, sveva, angioina e aragonese, fino alla normativa di età borbonica e alla vigente legislazione unitaria. Un esame già effettuato in occasione del giudizio di cassazione, non per gusto antiquario ma per ragioni processuali, poiché, pur nel vigore della normativa nazionale, il caso concreto esigeva, per accertare il titolo del possesso, un’indagine storica sulle fonti. Riconducibili ai suoi percorsi di carriera furono anche le ricerche sugli statuti di Roma, primo passo verso l’ambizioso progetto, rimasto incompiuto, di scrivere una storia della legislazione italiana. Il L. iniziò questo filone di studi quando, nel 1877, trasferito a Perugia in seguito alla promozione a consigliere di corte d’appello, fu costretto ad allontanarsi dagli archivi siciliani e quindi a sospendere le ricerche da tempo intraprese sulle consuetudini delle città di Sicilia.
Avviate in occasione del rinvenimento di un codice membranaceo custodito nell’Archivio segreto Vaticano, le indagini sfociarono in un breve saggio intitolato Statuti di Roma: cenni storici (Roma 1877), che costituì il primo lavoro critico intorno agli statuti romani di età medievale. L’illustre Eugène de Rozière elogiò il lavoro, conferendo al L. notorietà e consensi negli ambienti storico-giuridici e letterari d’Oltralpe e consacrandolo come l’iniziatore di quegli studi.
Affrontato in un più articolato saggio dal titolo Origini e vicende degli statuti di Roma (Firenze 1879), il tema sarebbe stato successivamente ripreso e sviluppato nella memoria I Comuni dello Stato romano nel Medio Evo (s.l. 1884) e, quindi, nella più vasta opera Storia della legislazione italiana, I, Roma e Stato romano (Torino 1884). A questo volume fu riservata, però, un’inattesa, negativa accoglienza da parte della intelligencija accademica. Se la parte relativa alla ricostruzione delle fonti – la cosiddetta “storia esterna” – fu unanimemente apprezzata, il metodo storico-sistematico, con il quale il L. seguì cronologicamente l’evoluzione del diritto, degli studi giuridici e della giurisprudenza per aree politico-geografiche differenziate, suscitò aspri giudizi. Il tentativo di passare da una dimensione localistica a una storia del diritto nazionale produceva una somma di storie regionali che prendevano in sostanza le mosse dall’età comunale. Scelta infelice in anni in cui proprio alla storia del diritto italiano e al diritto romano si affidava il compito di saldare i nessi dell’unità culturale della nazione italiana, all’insegna della continuità tra l’antica Roma e l’ottocentesco Regno d’Italia. Forse in conseguenza di quelle critiche, il L. archiviò il progetto di una storia generale del diritto italiano e tornò a dedicarsi agli studi sull’antico diritto siciliano e, soprattutto, ai lavori sulle consuetudini delle città di Sicilia, che suscitarono interesse e approvazione tra i contemporanei e ai quali ancora oggi è in gran parte legata la sua notorietà.
Avviati intorno agli anni Sessanta, con la pubblicazione di una raccolta diConsuetudini delle città di Sicilia (Palermo 1862) in cui si limitava a includere i capitoli di diritto civile ritenuti utili per risolvere questioni pendenti in giudizio, gli studi sulla legislazione cittadina sarebbero stati da lui approfonditi in successivi lavori: Notizie e documenti su le consuetudini delle città di Sicilia, monografia pubblicata a puntate nell’Archivio storico italiano, poi raccolta in estratto (Firenze 1888); le Consuetudini siciliane in lingua volgare, in Il Propugnatore, XVI (1883), pp. 3-73; Leggi civili del Regno di Sicilia: 1130-1816 (Palermo 1895).
Seguirono altri saggi che confluirono nell’ampia sillogeAntiche consuetudini delle città di Sicilia (ibid. 1900), comprensiva non solo dei testi delle consuetudini in senso stretto, ma di gran parte dello ius proprium, costituito da privilegi, capitoli, ordinationes ecc. Una scelta apprezzata, che avrebbe consentito di registrare in modo organico l’estensione delle libertates vantate, in tempi diversi, dalle varie città siciliane. Socio dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo e della Società siciliana per la storia patria, il L. fu anche assiduo collaboratore del più originale tra i cenacoli culturali palermitani, il Circolo giuridico, editore dell’omonimo periodico (dopo la morte del fondatore, Circolo giuridico Luigi Sampolo), fra le cui pagine pubblicò, a puntate, dal 1883 al 1894, il saggio Diritto civile siciliano esposto secondo l’ordine del codice italiano. Il lavoro, in cui ripercorreva la tradizione giuridica isolana in aderenza con la sistematica del codice civile del 1865, fu poi dato alle stampe, nella redazione completa, nel citato volume Leggi civili del Regno di Sicilia. Protagonista di vivaci polemiche con storici del diritto italiani e stranieri (particolarmente aspre quelle con O. Hartwig, A. Del Vecchio, A. Todaro della Galia), che rivelavano l’intransigenza e la spigolosità del carattere, fu peraltro legato da rapporti di amicizia e cooperazione con illustri esponenti della cultura giuridica nazionale, da F. Sclopis a P.S. Mancini, su invito del quale scrisse diverse voci dell’Enciclopedia giuridica italiana. Collaboratore di prestigiose riviste storiche e giuridiche nazionali, il L. pubblicò, tra monografie, saggi, memorie, recensioni e scritti polemici, oltre cento lavori. Coadiuvato dai figli il La Mantia completò altri lavori originali in materia di diritto consuetudinario, come quelli sulle Consuetudini di Paternò (Palermo 1903) e le Consuetudini di Randazzo (ibid. 1903), riproponendosi di dare alle stampe in tempi brevi un volume conclusivo sulla legislazione cittadina siciliana di età medievale e moderna.
Il progetto non si realizzò. Vito La Mantia morì a Palermo, dopo breve malattia, il 16 giugno 1904.
Apparve postumo, per cura dei figli, il volume L’Inquisizione in Sicilia. Serie dei rilasciati al braccio secolare, 1487-1732. Documenti su l’abolizione dell’Inquisizione 1782 (Palermo 1904), che completava il suo precedente lavoro sull’Inquisizione siciliana (Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, ibid. 1886). Si tratta di un’opera ricca di documenti inediti, capace di suggerire interessanti itinerari di ricerca, e in grado di offrire agli studiosi un prezioso materiale per indagini ancora passibili di sviluppi.
Il libro “Consuetudini di Randazzo” di Vito La Mantia (che puoi sfogliare cliccando sui link sottostanti) è una gentile concessione di Angela Militi –
Calogero Mannino detto Lillo nasce ad Asmara (capitale dell’Eritrea) il 20 agosto del 1939.
Il papà Salvatore (nato a Randazzo il 3 novembre 1911) con la mamma originaria di Sciacca, il 30 agosto 1938 emigrano ad Asmara.
Nel 1950 rientrano a Randazzo rimanendovi alcuni mesi per trasferirsi definitivamente a Sciacca. Lillo è il primo di quattro figli – Marisa, Pasquale, Roberto – ha un figlio Salvatore ed è nonno di due bambine. Laureatosi in Giurisprudenza e successivamente in Scienze Politiche diviene Assistente di Scienze delle Finanze presso l’Università di Torino. Nel 1960 inizia il suo impegno politico quando ad appena 21 anni viene eletto Consigliere Provinciale di Agrigento. Deputato all’Assemblea Regionale Siciliana dal 1967 al 1976. Assessore Regionale alle Finanze dal 1971 al 1976.
On.le Calogero Mannino
Nel 1976 viene eletto deputato al Parlamento Nazionale nella circoscrizione della Sicilia Occidentale facendo parte della Commissione Finanze e Tesoro della Camera. E’ il più giovane deputato della Camera allorquando è relatore per la maggioranza del bilancio previsionale dello Stato. Viene riconfermato deputato nelle elezioni del 1976, 1979, 1983, 1987, 1992 con la Dc, nel 2008 con l’Udc (partito col quale nel 2006 fu eletto al Senato). In tutti questi anni ha ricoperto le seguenti cariche istituzionali: Sottosegretario al Tesoro nel governo Forlani (1980-1981), ministro della Marina mercantile nello Spadolini I e II (1981-1982),ministro dell’Agricoltura nel Fanfani V (1982-1983) nel De Mita e nell’Andreotti VI (1988-1991), ministro dei Trasporti nel Goria (1987-1988), ministro degli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno nell’Andreotti VII (1991-1992). ( con il suo intervento viene sbloccata finalmente e definitivamente l’iter per la costruzione della scuola materna di via Dei Romano).
Nel 1994 inizia il suo calvario giudiziario.
Il 24 febbraio 1994 la Procura di Palermo avvia un’inchiesta nei suoi confronti con la notifica di un avviso di garanzia; viene arrestato il 13 febbraio 1995 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: secondo l’accusa, poi rivelatasi insussistente, Mannino avrebbe stretto un patto con la mafia per avere voti in cambio di favori.
Dopo un periodo di detenzione (nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari), durante il quale si mette in moto un’ampia mobilitazione sostenuta anche da una raccolta di firme per la scarcerazione motivate dalle sue precarie condizioni di salute, nel gennaio del 1997 viene rimesso in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Ne2001 Mannino è assolto in primo grado perché il fatto non sussiste.
L’assoluzione viene impugnata dal pubblico ministero e la corte d’appello di Palermo, nel maggio 2003, lo riconosce colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1994, e condanna Mannino a 5 anni e 4 mesi di reclusione.
Nel 2005 la Corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna riscontrando un difetto di motivazione, rinviando ad altra sezione della corte d’appello. Nell’occasione il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna, così si esprime:
“ Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta…”.
Il 22 ottobre 2008 riprendendo la sentenza di primo grado, i giudici della seconda sezione della corte d’appello di Palermo assolvono Mannino perché il fatto non sussiste. La procura generale di Palermo in seguito impugna l’assoluzione, facendo ricorso in Cassazione.
Il 14 gennaio2010 la Corte di Cassazione assolve definitivamente l’ex ministro democristiano, confermando le tesi contenute nella sentenza d’appello.
Ma non finisce qui.
È indagato nell’ambito della trattativa tra Stato e mafia. Il 24 luglio 2012la Procura di Palermo, con il Pm Antonio Ingroia ha chiesto il rinvio a giudizio di Mannino e altri 11 indagati. In tale inchiesta Mannino è accusato di violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato.
Nel 2012 Mannino chiede e ottiene di procedere al processo tramite rito abbreviato.
Il 4 novembre 2015 il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella assolve Mannino dall’accusa a lui contestata per “non aver commesso il fatto”. . Per Mannino, unico imputato del processo a scegliere il rito abbreviato, la procura aveva chiesto 9 anni e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. «Sono talmente stanco che non provo più emozioni e non riesco neppure a parlare». Si chiude un capitolo doloroso… «Già e io sono ancora qua, vivo, nonostante tutto» ha dichiarato Lillo Mannino dopo la sentenza.
Nel 2007 si dimise dalla presidenza del Cerisdi (Centro ricerche e studi direzionali della Regione Siciliana) a causa della sua vicenda giudiziaria (la Prefettura non gli rilasciò il certificato antimafia).
Calogero Mannino associa all’attività politica quella di produttore viti-vinicolo. A Pantelleria è titolare dell’azienda vinicola Abraxas, il cui prodotto principe è il passito naturale, che nel 1999 ha ricevuto la medaglia d’oro alla fiera Vinitaly. Nel dicembre 2012 l’azienda è fatta bersaglio di un attentato che provoca la perdita di 700 ettolitri di passito, in pratica le intere annate 2010-2011 e parte di quella 2012.
Lillo Mannino è un personaggio di primo piano nel panorama politico italiano, basti pensare che si era pensato a Lui quale Presidente del Consiglio dei Ministri in alternativa a l’on.le Giovanni Goria.
Preparato, serio, profondo conoscitore dei problemi del nostro Paese soprattutto della Sicilia, disponibile al dialogo e stato per lungo tempo, e lo è tuttora, punto di riferimento per le sue analisi sociologiche e politiche.
Per le sue attenzioni nei confronti della nostra Città il Consiglio Comunale nella seduta del 27 novembre 1989 gli conferisce la Cittadinanza Onoraria. Il conferimento avviene durante una manifestazione nel gennaio del 1990 davanti ad un numerosissimo pubblico di cittadini e di autorevoli personalità del mondo politico, economico ed istituzionale. Dopo la relazione del sindaco, l’avvocato Giuseppe Fisauli presidente della CPC di Catania traccia una breve biografia della famiglia Mannino e della carriera politica di Mannino. Il ministro dell’Agricoltura on,le Calogero Mannino nel prendere la parola, emozionatissimo, ringrazia la Città per non averlo dimenticato, fa una analisi della situazione economica della nostra Isola indicando alcune soluzione e auspica un avvenire migliore per tutti noi.
Per un approfondimento della personalità di Lillo Mannino e delle vicende che lo hanno profondamente segnato abbiamo riportato alcuni articoli di giornali. Non so se questo doveva essere il suo destino, ma so per certo che la nostra Terra non ha potuto utilizzare appieno uno dei suoi migliori figli. Francesco Rubbino
Il figlio Salvatore nel giorno delle nozze
La grave indifferenza per lo stalking giudiziario contro Mannino
Accusato, incarcerato, assolto e ora nuovamente preso di mira dai magistrati di Palermo in cerca di scalpi giudiziari. Ora basta.
Sino a quando gli italiani dovranno avere la pazienza di sopportare in silenzio le marachelle di un gruppo di procuratori della repubblica di Palermo eterodiretti dal canuto Giancarlo Caselli? Ci riferiamo alla vicenda giudiziaria di Calogero Mannino accusato prima di concorso esterno mafioso e poi di essere stato uno degli autori della famosa trattativa Stato-mafia. Anni di carcere e assoluzioni a gogò di Mannino non hanno fiaccato lo stalking che Caselli, Scarpinato, Ingroia e Di Matteo ed altri di quello strano ufficio di Palermo che hanno praticato per 25 anni contro Calogero Mannino, uno degli uomini di punta della democrazia cristiana nazionale. Perché a guardare bene la vicenda proprio di stalking si tratta e la riprova l’ha dato l’ultimo ricorso della procura generale di Palermo retta da Scarpinato, collega e collaboratore stretto di Giancarlo Caselli. Mi chiedo: perché bisogna avere rispetto di chi non si scusa per il male e il danno che ha fatto quando dei parlamentari, dei singoli ministri, dei presidenti del consiglio si dice di tutto e di più senza che nessuno alzi un sopracciglio? La separazione dei poteri significa che uno di quelli è al di sopra degli altri? Noi abbiamo trattenuto la nostra indignazione per anni sino a quando abbiamo letto il ricorso alla Cassazione della procura generale di Palermo contro l’ennesima assoluzione di Mannino. In quella sentenza abbiamo letto una puntuale e circostanziata critica dei comportamenti tenuti dall’accusa. Forse sarebbe necessario che quella sentenza venisse inviata alla procura di Caltanissetta per verificare se ci siano elementi sui quali indagare. Ma torniamo al ricorso in Cassazione contro Mannino. La procura generale di Palermo non contesta alcunché nel merito anche perché non potrebbe farlo per legge dopo due assoluzioni con formula piena ma s’inventa un qualcosa che testimonia lo spirito di persecuzione di cui abbiamo parlato. Il motivo addotto è un’originale cavillo che non sta né in cielo né in terra. I grandi persecutori chiedono che la cassazione riconosca una possibile illegittimità costituzionale della sentenza assolutoria emessa dalla corte di appello di Palermo per non aver voluto ascoltare i pentiti Giovanni Brusca, Francesco Onorato e Filippo Bisconti e rinvii alla Corte costituzionale il tutto perché esamini la vicenda mandando così la palla sugli spalti.
Naturalmente non vale il fatto rilevato dalla stessa corte di appello di Palermo che i pentiti citati da Scarpinato e compagni siano stati più volte sentiti nei vari processi a carico di Mannino risoltisi tutti con assoluzioni con formula piena.
E perché mai dopo 24 anni di collaborazione con la giustizia e dopo diverse deposizioni dinanzi a più corti di giustizia Brusca, Onorato e Bisconti dovrebbero ricordare cose avvenute in un tempo lontano? Non è forse lecito sospettare che, ad esempio, il più noto dei due, Giovanni Brusca, possa essere stato sollecitato a “ricordare più attentamente” qualcosa? Ricordiamo male o nel 1996, due mesi dopo il suo arresto, Brusca, dichiarando di volersi pentire, cominciò a parlare di Luciano Violante e del suo famoso volo del dicembre 1993 Roma-Palermo con l’allora presidente della commissione antimafia?
La vicenda di Brusca è piena di misteri non ultimo il fatto che è rimasto forse l’unico degli arrestati per l’omicidio Falcone e di tanti altri cui non sono stati applicati gli sconti di pena previsti dalla legge per i pentiti di mafia visto che è in carcere da 24 anni. Probabilmente pur avendo lo status di pentito i magistrati inquirenti non lo ritengono affidabile del tutto. Noi speriamo che la Cassazione reputi irricevibile un siffatto ricorso per la assoluta inconsistenza delle motivazioni fatto da una procura i cui comportamenti dovranno richiedere prima o poi una commissione di inchiesta parlamentare anche perché nel fantasioso processo sulla trattativa Stato-mafia emergeranno presto omissioni, depistaggi e fantasie a tutela di altre questioni. Ma di questo avremo modo di parlare prendendo ancora una volta atto che i procuratori della repubblica non sempre si mostrano all’altezza, purtroppo, dei loro colleghi giudicanti.
***
Mannino contro tutti. Dai pm al giornalista “guitto”.
PALERMO – Calogero Mannino chiede un po’ di tempo per riordinare le idee. Per metabolizzare la notizia dell’assoluzione. Poi, scende dalla sua abitazione e attacca a testa bassa. Ce l’ha con i pubblici ministeri. È chiaro fin da subito: “Io spero che sia stata scritta la parola fine. Certamente è stata scritta su questo atto con una decisione coraggiosa che conferma il mio convincimento. Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, non nei pm che rappresentano l’accusa, molte volte in maniera ostinatamente pregiudiziale”.
Sta dicendo che da parte della Procura ci sarebbe stato un accanimento nei suoi confronti? “Non capisco perché lei parla di Procura della Repubblica, dovrebbe parlare di alcuni pubblici ministeri. Allora le dico di sì, c’è stato decisamente un accanimento. La tesi dell’accusa è fantasiosa, l’abbiamo dimostrato. Leggete l’atto di rinvio a giudizio del Gup, lo stesso Morosini (Piergiorgio Morosini, ndr) si poneva il problema delle prove e affidava ai pm l’incarico di dimostrarle. Non avevano prove, perché non ci sono fatti. In questa vicenda io sto da un’altra parte, ho sempre servito lo Stato e la Repubblica con lealtà. Senza la mia azione politica non ci sarebbero stati due fatti importantissimi: il sostegno politico all’iter complesso e travagliato del maxi processo e quello che ha portato Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali. Fu una scelta non personale ma di tutto il governo Andreotti, che fece propria la strategia di Falcone”.
Cos’è stato allora, un processo politico? “No, tranne Ingroia che poi è fuggito, questi pm non hanno una dimensione politica, hanno dimostrato di avere delle debolezze, qualcuno per altro è assuefatto alla ostinazione accusatoria. Di Matteo è il pm che ha fatto condannare persone innocenti a Caltanissetta. E nessuno gli chiede conto e ragione di ciò, forse con la sua ostinazione voleva ripetere l’errore. I pm si sono dimostrati privi del senso comune, pensare che potessi condizionare tutti è ridicolo”. Se accanimento c’è davvero stato, lei si sarà chiesto il perché “Questa domanda va rivolta ai pm. La funzione dell’accusa non è esercitarsi liberamente, ma valutare se sono state trovato prove o meno”.
Lei è considerato l’ispiratore dei contatti fra ufficiali dei carabinieri e Cosa nostra. In pratica avrebbe dato il via alla Trattativa. “È ridicolo. Chi conosce l’Arma dei carabinieri sa che è fedele nei secoli”.
La sua assoluzione rischia di minare il processo ancora in corso in Corte d’assise? “È una una valutazione che non intendo fare. Per quel che mi riguarda sono stato assolto per non avere compiuto il fatto. Sono esterno ed estraneo ad ogni possibile Trattativa”.
La Trattativa ci fu o no? “Ne dubito. Ci sono stati carabinieri che hanno fatto il loro mestiere”.
La Procura dice che impugnerà la sentenza? “Male. In realtà non è la Procura ma un pm. Ha già annunciato che farà appello (il riferimento è ad Antonino Di Matteo, mentre il procuratore Francesco Lo Voi ha detto che prima bisognerà leggere le motivazioni per valutare cosa fare, ndr). È la prova dell’ostinazione che dovrebbe essere spiegata da questo pm (Di Matteo, contattato dall’Ansa, ha replicato che “non può rispondere alle dichiarazioni di un imputato).
Mannino si sente, dunque, vittima della giustizia? “Non della giustizia, ma vittima di alcuni pm che continuano ha seguire la linea politica a loto impartita a cavallo dagli anni Novanta”. Impartita da chi? “In quella fase dalla convergenza di interesse fra una parte del Partito comunista e una parte della magistratura”.
Nella vicenda Trattativa sono stati coinvolti diversi politici. C’è stata pure la deposizione in aula dell’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Cosa ne pensa? “È stato penoso. Si è portato Napolitano in un’aula giudiziaria senza avere riguardo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Mantengo non pochi rapporti con rappresentanti di molti paesi e so benissimo che ha pesato negativamente. Ma questo non interessa a questi pm. A loro interessava lo spettacolo che un guitto ha fatto in alcune sale cinematografiche in cui impartiva loro gli indirizzi relativi al processo”.
Scusi, chi sarebbe il guitto? “Un suo collega, un giornalista. (tra i cronisti c’è chi fa il nome di Marco Travaglio). Me lo sta dicendo lei, non confermo e non smentisco (sorride ndr)”. È pensabile che un processo così delicato sia stato impostato su quello che lei definisce un guitto? “No, ci ha fatto qualche libro e ci ha guadagnato un po’ di soldi”.
In questi tre anni ha mantenuto la fiducia nella giustizia? “Ero sicuro della mia innocenza e poi vi sono moltissimi giudici, i più, che sono limpidi e sereni”.
Oggi come si sente? “Sono contento soprattutto per mio figlio e per i mie nipoti. In questa vicenda non c’è spazio per un contributo dell’immaginazione. Nel 1991 l’esplosione della rabbia di Cosa nostra si è trovata coincidente con interessi politici interni al paese ed esterni che volevano la fine della Dc. È un dato di fatto, un obiettivo realizzato”. L’INTERVISTA di Riccardo Lo Verso. ( LiveSicilia ).
***
Calogero Mannino intervistato dal “Foglio “
“Per me si conclude una venticinquennale tortura giudiziaria”, Calogero Mannino è seduto sulla poltrona nello studio biblioteca della sua casa palermitana di fronte a Villa Sperlinga.
A pochi metri c’è la moglie Giusi che lo guarda in silenzio e, di tanto in tanto, scuote il capo. “Questo calvario mi ha condannato a una vita agra, come il titolo del romanzo di Luciano Bianciardi”.
E se nel romanzo il protagonista si trasferisce dalla provincia a Milano, disorientato e scosso dalle conseguenze del boom economico degli anni Cinquanta, nella vita reale di Calogero Mannino il boom giudiziario lo obbliga a un mestiere nuovo. “Difendersi è un lavoro che ti occupa la giornata intera. Vai a Roma, incontra gli avvocati, raccogli i ritagli di giornali, procùrati i documenti, nulla può essere lasciato al caso. Ho trascorso così gli ultimi venticinque anni. Che cos’è questa se non una persecuzione?”. 1991: per la prima volta un pentito tira in ballo il nome del referente della Dc siciliana, lo accusa di rapporti con la mafia, la procura di Trapani indaga ma nel giro di qualche mese il caso è archiviato. 1995: la procura di Palermo lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Mannino trascorre nove mesi dietro le sbarre e tredici ai domiciliari. Nel 2010 è definitivamente assolto. 2008: Mannino è indagato per la presunta trattativa stato-mafia. Per l’accusa avrebbe ispirato e istigato un accordo volto a porre fine alla stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dal 41bis.
Oggi il gup di Palermo Marina Petruzzella lo assolve per non aver commesso il fatto.
“Gli stessi pm che mi accusavano di essere socio esterno della mafia mi hanno imbarcato capricciosamente nel processo che mi vede assolto”, il riferimento non troppo velato è ai magistrati Antonio Ingroia e Vittorio Teresi. “Appena Giancarlo Caselli s’insediò a capo della procura palermitana, i due cominciarono a indagarmi.
Non sono riusciti ad ottenere una condanna.
In compenso Ingroia si è lanciato nella politica, ha fallito e non mi risulta che il suo libro abbia riscosso un gran successo di pubblico. Travaglio ha più fortuna”.
Mannino ha passato gli ultimi venticinque anni a difendersi nei processi, come se il processo non fosse in sé una pena. “Difendersi dal processo è un diritto perché la difesa in un’aula di tribunale comporta una fatica immane. Varcare la soglia del palazzo di giustizia è un dolore. In questi anni mi è stato impedito di vivere. La nevrosi mi ha tolto il sonno, mi aggiro per casa alle due di notte, ingoio del pane per calmare l’ansia. Se mi avessero ucciso non avrei patito il medesimo travaglio”.
Ingroia, autore dell’impalcatura accusatoria sulla presunta trattativa stato-mafia, ha abbandonato il processo all’apertura del dibattimento. “Voleva evitarsi una brutta figura, e ha lasciato la patata bollente al collega Nino di Matteo”.
Il quale ha già annunciato che la pubblica accusa ricorrerà in Appello, sebbene il procuratore capo Francesco Lo Voi lo abbia poi corretto riservandosi di valutare il caso dopo il deposito della sentenza. “Che credibilità può avere un pm che annuncia il ricorso senza aver letto le motivazioni?”, si domanda Mannino. “Lo sa che io mi muovevo con la scorta? Nel 1983 da commissario della Dc siciliana nel congresso di Agrigento misi fuori dal partito Vito Ciancimino, ben sapendo che ciò avrebbe generato risentimento nel suo milieu apertamente mafioso. Il maxiprocesso ha segnato una svolta, ed è stato un risultato dello stato. Dal gennaio del ’93 in poi i capi di Cosa nostra sono stati catturati”.
Per la mancata perquisizione del covo di Riina altri uomini dello Stato, l’allora capo del Ros Mario Mori e il carabiniere Sergio de Caprio, sono stati processati e assolti. “E’ un’aberrazione tutta italiana: chi combatte concretamente la mafia si ritrova alla sbarra accanto ai mafiosi. Contro di noi hanno puntato il dito pm e criminali in una occasionale convergenza dei contrari. Questo processo, infarcito di errori di torsione cronologica, fa acqua da tutte le parti perché si basa su una suggestione buona forse per gli storiografi ma non per le aule di tribunale”. Intervista al Foglio
Diteci chi restituirà adesso 25 anni di vita a Calogero Mannino, l’ex ministro Dc ieri assolto a Palermo dal gup Marina Petruzzella «per non aver commesso il fatto», dall’accusa di «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario», ossia di avere dato l’input, facendo pressioni sugli alti ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, alla trattativa Stato-mafia (fine della stagione stragista in cambio di un alleggerimento del carcere duro per i mafiosi).. Glieli restituiranno forse le procure siciliane che da oltre un ventennio lo perseguitano, prima per rapporti con uomini d’onore (indagine del 1991 del sostituto procuratore di Trapani subito archiviata), poi per concorso esterno in associazione mafiosa (inchiesta della Procura di Palermo finita a processo, costringendo Mannino a un calvario durato 16 anni, alla fine del quale è stato assolto in Cassazione perché «il fatto non sussiste»)? O magari glieli restituirà il pm Antonio Ingroia, che nel 2012 ha aperto una nuova indagine nei suoi confronti (poi portata avanti dai pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), indicandolo come primo ispiratore della trattativa dello Stato con la mafia, cioè come colui che avrebbe tramato per favorire addirittura Totò Riina, accettando le sue richieste contenute nel “papello”? O piuttosto glieli ridarà indietro Marco Travaglio, l’editorialista de Il fatto quotidiano, che da anni racconta la vicenda Mannino in articoli e in un recital poi confluito in un libro, sostenendo sempre la stessa tesi: cioè che il «patto di Mannino con la mafia sia accertato» e che in cambio l’ex ministro Dc si sia salvato la pellaccia, evitando la fine di Salvo Lima; e questo nonostante la sentenza del gup ora reciti il contrario, perché dopo tutto a Travaglio non interessano le verità giudiziarie ma le sue congetture personali, che lui ha la presunzione di definire “fatti”: «A me interessano poco i reati e molto i fatti», ha scritto ancora oggi in un fondo. La verità è che quegli anni, quel pezzo di vita, un terzo della sua esistenza (ché oggi Mannino ne ha 76, di primavere) non glieli renderà nessuno. Non glieli restituiranno neppure le sentenze dei tribunali, che ora paiono rendergli giustizia. Non glieli ridaranno le riabilitazioni postume dei media e magari della storia. E di certo non glieli concederanno i risarcimenti economici che Mannino ha già chiesto per ingiusta detenzione (è stato in carcere 9 mesi e 13 ai domiciliari tra 1995 e 1997 come misura cautelare per l’accusa di concorso esterno) e si è visto rifiutare dalla Corte d’appello di Palermo nel 2012. Forse glieli ridarà indietro, ma solo simbolicamente, la sua nipotina che lui – come ha confessato a Il Foglio – ha subito chiamato dopo l’assoluzione, dicendole: «È tutto finito, il nonno non ha più pensieri». Qui non si valutano le responsabilità politiche dell’uomo Mannino, in una stagione complicata di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, in cui il vuoto di potere in Italia è stato spesso riempito da soggetti para-statali, di natura criminale; e in cui allo stesso tempo, insieme a una classe politica e alle bombe dei mafiosi, è esploso il fenomeno giustizialista all’italiana. Qui si valutano le sue responsabilità penali che – esiti dei processi alla mano – sono nulle. Da cui la rabbia nel vederlo costretto in aula, messo alla sbarra o dietro le sbarre da indagato, imputato e arrestato, e nel vederlo massacrato come “colpevole” dal giudizio superficiale dell’opinione pubblica, alimentato dalla convinzione di qualche pm e di qualche firma nota della stampa, quando invece (e una doppia sentenza lo ha ribadito) era innocente.
Paolo Vagliasindi era nato il 16 settembre 1858, terzo di 13 figli, da Francesco Vagliasindi, barone del Castello, e Benedetta Piccolo di Calanovela.
Nel 1882 si laureò in giurisprudenza a pieni voti presso l’Università di Roma.
Dopo aver esercitato la professione per qualche tempo, intraprese la strada della politica, che sentiva più congeniale: veniva eletto sindaco di Randazzo nel 1885, a soli 27 anni,e una seconda una volta nel 1887.
Erano tempi difficili: si cominciava ad agitare la vertenza per l’Opera De Quatris, che si trascinò per oltre 50 anni, e vide le opposte fazioni schierate su posizioni contrastanti, e per di più nel 1887 si diffuse un’epidemia di colera, che il giovane sindaco affrontò in maniera “disinteressata, fattiva, responsabile” (Virzì), organizzando lazzaretti, soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo i propri collaboratori, tanto da meritare più tardi l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo. Dimostrò il suo impegno alla guida del paese nel curare le strade, e nell’imprimere un nuovo impulso all’agricoltura, in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava l’economia di Randazzo. Pensando di compiere un “salto di qualità” e di candidarsi al Parlamento, consapevole dell’importanza tanto di una base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostò il suo centro d’interessi verso il capoluogo, riorganizzando a Catania l’Associazione Monarchica, poi “Associazione Costituzionale”, di cui fu presidente fino all’anno della morte, e rilanciando il foglio La Sicilia, trasformandolo in un giornale rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”. Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli,il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale, senza alcun rapporto di continuità. Paolo Vagliasindi si candidò per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, schierandosi con i “Conservatori liberali”, per il Collegio Catania II (Acireale), ottenendo un brillante risultato. Fu eletto deputato una seconda ed una terza volta nel 1894 e nel 1897 per il Collegio di Bronte, una quarta volta sarà eletto nel 1900 (XXI legislatura) per i Collegi di Bronte e Giarre, optando per Bronte. L’anno 1899, durante il secondo gabinetto Pelloux, data anche la particolare competenza dimostrata nel trattare i problemi connessi all’agricoltura, fu chiamato a ricoprire l’incarico di Sottosegretario del Ministero all’Agricoltura, Industria e Commercio, dicastero allora retto da Antonio Salandra. Manterrà l’incarico dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo. Nel 1897 si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale avrà cinque figli: Laura, Benedetta, Emilio (l’unico maschio, che morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903), Maria ed Ersilia. Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
L’anno seguente con R.D. 4.3.1900 otteneva il rinnovamento del titolo di barone, che diversamente sarebbe spettato solo al fratello primogenito Giuseppe, barone del Castello.
Nel 1903 il partito monarchico, rappresentato a Catania da Gabriello Carnazza, Guglielmo Carcaci, il principe Manganelli, dopo la sconfitta elettorale, decise di riorganizzarsi, e ne assunse la guida Paolo Vagliasindi. Fra i tanti che vi aderirono, vi fu anche Giovanni Verga,alieno per temperamento ed educazione dalle lotte politiche.
L’organo del partito fino allora era stato il settimanale Le Marionette, ritenuto da molti troppo frivolo e polemico, cosicché il Vagliasindi disciplinò la stampa del partito, concentrando nelle sue mani, di fatto anche se non di nome, la direzione del quotidiano La Sicilia. Divenne in breve tempo il capo indiscusso del partito costituzionale a Catania.
L’esponente di spicco della parte avversaria era Giuseppe De Felice, leader della sinistra catanese.
L’antagonismo fra i due personaggi si esasperò in occasione della municipalizzazione del pane, voluta proprio da De Felice, cui seguirono lotte e disordini, e conobbe, in seguito, momenti di aspra rivalità, che culminarono in una sfida a duello, ma vi furono anche momenti di sana e leale competizione. Paolo Vagliasindisi ricandidò per le elezioni del 6 novembre 1904 nel Collegio di Bronte, ma non fu rieletto.
Dai numerosi carteggi emerge come la sua rielezione fosse stata fortemente osteggiata in tutti i comuni del Collegio dall’azione del Prefetto Bedendo, longa manus di Giolitti nella provincia etnea, che favoriva invece l’elezione a deputato di Francesco Saverio Giardina, di Bronte, uomo di Giolitti.
Il Vagliasindi avrebbe poi sostenuto con prove documentarie e testimonianze, davanti alla Giunta delle Elezioni, come quelle votazioni si fossero svolte in un clima di intimidazioni e minacce ai suoi sostenitori, in tutto il Collegio di Bronte, messe in atto ad opera dell’opposta fazione e del prefetto stesso, ricorrendo anche alla violenza ed alla corruzione.
Caduto il governo Giolitti, Bedendo fu deposto, allontanato da Catania e sostituito a Palazzo Minoriti dal comm. Trinchieri. Paolo Vagliasindi presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si attendeva che la Giunta delle Elezioni emettesse le deliberazioni definitive, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, finiva di vivere a Catania il 23 dicembre 1905, a soli 47 anni.
Monte Colla foto di Paolo Vagliasindi
La sua prematura scomparsa suscitò grande cordoglio, giunsero telegrammi da Ministri e Deputati, visite dalle maggiori autorità civili e religiose di Catania, la città si vestì a lutto, innalzando bandiere a mezz’asta, come la natia Randazzo, il giornale La Sicilia di cui era collaboratore pubblicò un necrologio a tutta pagina, oltre 5000 firme furono apposte sul registro delle visite. Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”. Solenni e partecipati i funerali, cui presero parte, tra gli altri, molti tra i maggiorenti randazzesi. L’ultimo saluto fu dato proprio dall’avversario di sempre, Giuseppe De Felice e dall’avv. Gabriello Carnazza. che di lì a poco avrebbe preso il posto dell’estinto nella politica. Paolo Vagliasindi, politico e giornalista, visse in una città piena di fermenti politici e culturali qual era la Catania di fine ‘800 e inizio ‘900, fu amico di De Roberto, Capuana e Verga, conobbe anche Martoglio, che in “Cose di Catania” gli dedicò un sonetto satirico. Tra le tante testimonianze, contemporanee e postume, vogliamo citare quella dello storico don Virzì: “Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelava le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici…”. Nella politica ebbe un ruolo notevole, sempre in prima fila, sia che si trovasse nella maggioranza, sia che si trovasse all’opposizione, da sottosegretario fece numerosi interventi, propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia.
Tra i tanti scritti, a carattere personale e pubblico, va ricordata la proposta per combattere la fillossera della vite, intervento molto documentato, dove il Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura, Industria e Commercio il 04.12.1899, esponeva la sua proposta per combattere la malattia della vite, con competenza e scioltezza di linguaggio. Nel 1° anniversario dalla morte, lo scrittore Federico De Roberto (La Sicilia n.335 del 23.XII.1906), rese una toccante commemorazione dell’amico fraterno. L’autore de I Viceré, volle ricordare Paolo Vagliasindi nel suo “nido d’aquila”, la tenuta di Monte Colla dove era stato spesso ospite, e, così concludeva: “Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi”. Il 19 aprile 1914, a Randazzo, nel corso di una cerimonia cui parteciparono numerosi cittadini, e le varie associazioni del tempo, dietro iniziativa del sindaco Alberto Capparelli, veniva inaugurata una lapide, scolpita da Antonino Corallo, e posta sul cantonale del Palazzo Vagliasindi in via Umberto I, il cui testo, dettato proprio da Federico De Roberto, recita:
“Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.”
Un proclama del Sindaco del tempo (1914), l’avv. Alberto Capparelli invitava i cittadini randazzesi ad una cerimonia inusitata per la domenica 19 Aprile 1914: lo scoprimento di una lapide commemorativa in onore di uno dei più degni figli della nostra cittadina l’on. Paolo Vagliasindi deceduto, tra il rimpianto di tutti i buoni e degli amici, il 23 dicembre 1905. Accorsero in folla i cittadini, come ci testimoniano le fotografie del tempo; onorarono il raduno, con la loro attiva partecipazione, tutte le associazioni del luogo con le loro bandiere: partecipò il Collegio Municipale salesiano con la sua associazione sportiva “La Vigor”, macchia vivace di colore tra la folla amorfa dei partecipanti; allietò la cerimonia la banda musicale coi suoi squilli argentini e riscaldò i petti con la sua parola vivace e cordiale il buon Sindaco Capparelli che inneggiò a quest’uomo, onore della famiglia e gloria cittadina. Ma chi era questo Paolo Vagliasindi che ebbe l’onore di una epigrafe dettata dal grande Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita con amore dal più abile scultore della città, Antonino Corallo? Paolo Vagliasindi, nato il 16 Sett. 1858, era figlio del Barone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo, uno dei tanti figli che allietarono la famiglia più eminente della cittadina. La sua giovinezza fu guidata dall’assistenza del padre e dall’esempio cristiano della madre che infusero nel cuore del futuro onorevole il più sentito ideale della patria e della religione.
Giovane ancora fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi per quella via, la politica, che lo avrebbe portato al Parlamento ed al Governo. Fu Sindaco di Randazzo nel 1885 e 1887 “portando nell’amministrazione della cosa pubblica quella fierezza, integrità e correttezza che furono le doti non comuni del suo carattere”.
Il Palazzo Vagliasindi nel corso Umberto – Randazzo
Tempi difficili in verità, sia per la nazione sia per la comunità randazzese, furono quelli in cui visse il nostro personaggio. Ho qui davanti una memoria del fratello Diego, uomo singolare del paese, estroso, intelligente, entusiasta, buon parlatore e forbito scrittore che, con stile aggressivo e realistico ci fa un ritratto della vita pubblica politica del paese in questi tempi a cavallo dei due secoli: corpo elettorale inadeguato, Consiglio Comunale imbelle e diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare con onestà gli eterni problemi del paese, vita pubblica dominata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, pensando di essere gli unici investiti del diritto al comando, e in questo marasma di contraddizioni, di risentimenti e di bramosia del potere, ecco inserirsi, con una violenza inaudita, la vertenza “de Quatris” che agitò la vita del paese per anni con le azioni più irriverenti contro la Chiesa si S. Maria che, colpevole di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella de Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vede, dalla violenza settaria dei nobilucci del paese, seguiti, violenti o nolenti, dalla massa del popolo ignorante ed illuso, spogliare del suo patrimonio con mistificazioni ed orpelli avanzati da legali senza coscienza che imbrogliarono talmente le cose nei cinquanta e più anni che durò la vertenza, da fare desiderare dai cuori onesti la pace anche a costo di subire ingiustizie e danno. In questo clima operò Paolo Vagliasindi come Sindaco che, seguendo il programma, fatto poi suo, esposto nel citato articolo del fratello Diego, si occupò delle strade del paese, delle campagne circostanti; diede un impulso efficace alla agricoltura; si industriò ad aprire nuove vie al commercio del vino, cespite primo del paese. Ma quello che rivelò agli amici ed ai nemici le alte qualità di buono e responsabile amministratore, fu la sua azione disinteressata, fattiva, organizzativa, responsabile, in occasione del colera che imperversò nel paese nel 1887. Si vide il giovane Sindaco ad organizzare i lazzaretti, a soccorrere i colerosi, personalmente, senza alcun timore e ritrosia; infuse in tutti i responsabili suoi collaboratori tale carica di impegno da fargli meritare gli elogi più alti dalle autorità governative che si sentirono in dovere di ricompensare tanta abnegazione con la medaglia d’argento al valore civile perché con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità. Purtroppo ben poco sappiamo e possiamo aggiungere e specificare di quanto egli fece come Sindaco, dato l’ormai inesistente Archivio Comunale, ma l’esperienza di pubblico amministratore di un paese così contrastato lo aprì verso nuovi ideali più complessi, più responsabili, più vasti in cui avrebbero potuto esplicare gli ideali che formavano la sua personalità. In verità anche la politica italiana di questo ultimo scorcio del sec. XIX, fu un garbuglio tale da dovere assistere ad una successione continua di Ministeri purtroppo effimeri ed inattivi.
Per cui dobbiamo dire con lo storico che non furono anni molto lieti per l’Italia questi che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo.
Anni tra i più oscuri e depressi della vita nazionale “senza grandi ideali e senza speranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta”: grandi dissesti finanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali specie con la Francia e con il Vaticano e, “dulcis in fundo”, sotto il Ministero del Marchese di Rudinì, il 22 Aprile 1897, il primo attentato al Re ad opera opera dell’anarchico P. Acciarito, la morte in duello di Felice Cavallotti “bardo della democrazia” (6/III/1898) ed i moti sovversivi in Piemonte, Sardegna, Milano sottoposta ad uno “stato d’assedio”, seguito dalla chiusura dei circoli socialisti, dalla soppressione di giornali di personaggi di sinistra, e dal conflitto con lo Arcivescovo di Milano.
Non valsero le azioni decise del Di Rudinì, dei due ministeri del Pelloux, dello Zanardelli e dell’avvento del nuovo astro della politica italiana della sinistra moderna, on. Giolitti, perché il triste e travagliato periodo politico si concluse con l’atto più orrendo per una nazione, il regicidio di Monza (29-VII-1900). In questo tremendo periodo politico si innesta l’attività del nostro onorevole Paolo Vagliasindi. Preparatosi alla lotta elettorale e politica riorganizzando l’Associazione Monarchica di Catania, andata in sfacelo per lotte interne e per difficoltà di organizzazione, si lanciò con entusiasmo nel giornalismo, facendo rivivere a nuova vita il foglio che sarà la palestra della sua battaglia “La Sicilia” operando, in modo che esso, da foglio per un pubblico esclusivo, diventasse un giornale rivolto ad una folla sempre più vasta. Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelano le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per es., il famoso De Felice, dominatore della sinistra catanese che, violento e intransigente, pur avendolo provocato ad un duello, come era stile del tempo, seppe apprezzare la nobiltà del suo nemico quando, prigioniero delle patrie galere a Volterra, ebbe, commosso, la visita consolatrice di chi meno si aspettava, il Barone Paolo Vagliasindi.
Atto questo che si innesta e lumeggia la personalità di quest’uomo, signore nei modi, nel sentimento, cavaliere di stampo antico che seppe perdonare con nobiltà e con nobiltà vivere, agire con correttezza anche in quella vita pubblica piena di scontri, di amarezze, di opposizioni e tradimenti che avrebbe dovuto affrontare nella sua breve vita politica durata appena soltanto per 4 anni. Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, fu eletto con una bellissima votazione, facendo parte dei “Conservatori liberali” del partito di Destra. Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così potè essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, 1897, 1900 nei due Collegi di Bronte e di Giarre.
Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua perizia mostrata nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Ministero Pelloux ad affiancare il Ministero Sonnino come sottosegretario all’Agricoltura, Industria e Commercio, distinguendosi per zelo, per appropriati interventi portando in quel dicastero “un soffio di vitalità e di energia”, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguardavano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo constatare dal volume delle “Cronache Parlamentari” del tempo, religiosamente conservati fino a qualche tempo fa dalla famiglia e da me attentamente sfogliati nelle copie fornitemi gentilmente dal nipote Ing. Edmondo SCHIMIDT di FRIEDBERG di Roma che volle venire a Randazzo a rivedere i luoghi originari della sua stirpe.
“Gli interventi suoi furono particolarmente numerosi – mi scrive il sopraddetto nipote da me interpellato, cultore appassionato delle memorie familiari – nell’anno in cui fu Sottosegretario, e spaziavano su un orizzonte nazionale ed internazionale… buon oratore, con qualche punto di felice ironia e competenza degli argomenti trattati.
Ma soprattutto uomo di onore nel senso migliore della parola” a lui si deve la proposta di provvedimenti che riguardavano la Sicilia come risulta dalle sopracitate “Cronache Parlamentari” del tempo, e dai numerosi documenti che giacciono a Torino e dal numeroso epistolario (oltre 2000 lettere) che egli scambiò con i più rappresentativi uomini politici del suo tempo, “Salandra, Sonnino, Sangiuliano… Giustino Fortunato”.
Ma purtroppo, nonostante questa sua intensa e costruttiva politica come membro del Governo, nelle susseguenti elezioni, inaspettatamente, fu sopraffatto dai brogli e dalle violenze di un Prefetto venduto (tale Bedendo) che incitò la plebaglia contro di lui, liberò perfino i delinquenti carcerati che scatenarono l’inferno tra gli elettori, con la tacita e consapevole accondiscendenza e il segreto verdetto dell’allora dominatore della politica italiana, on. Giolitti, che nella ultima composizione del precedente Ministero Zanardelli, aveva potuto valutare la forza e il valore di un tanto avversario.
Campanile San Martino – Randazzo
Si ribellarono gli elettori, si pretese la nomina di un Comitato ispettivo delle votazioni, ma il verdetto non arrivò più giacchè la tragedia si era inaspettatamente abbattuta sulla Famiglia Vagliasindi: il 23 Dicembre alle ore 14,30 1905 il Barone Paolo Vagliasindi, curato invano dai medici di famiglia, assistito da parenti ed amici, visitato affettuosamente dal Cardinale Nava, Arcivescovo di Catania, salutato ed affettuosamente abbracciato dall’amico-avversario De Felice, tra lo sbalordimento delle piccole figlie innocenti e della moglie (aveva sposato a Torino una dolce e nobile fanciulla, Ottavia Caissotti di Chiusano nel 1897), portando nel cuore la tragedia della morte immatura dell’unico figlio, moriva questo impareggiabile e nobile lottatore, come “un gladiatore romano”. Sbalordì la città che in tre giorni appena si era potuto concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato e ammirato che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata dagli avversari, il vanto dei parenti e della città natia. Questo spiega il fatto che i funerali furono un trionfo: accorse tutta la città, memore delle battaglie sostenute da lui per la difesa dei suoi diritti: accorsero folti gruppi da Bronte, Adrano, Biancavilla, S. Maria di Licodia, Acireale, Randazzo.
Il lungo corteo che si svolse per la via Vittorio Emmanuele alla fioca luce di tutti i fanali abbrunati e sotto la nuvola di petali di fiori gettati a piene mani dai balconi sulla bara portata a spalla dagli amici più cari e sostenuta coi cordoni in mano alle Autorità più alte: Prefetto, proSindaco De Felice, Presidente del Tribunale, Sindaco di Randazzo, vari Senatori. Una folla di bandiere di tutte le Associazioni catanesi e della provincia chiudevano il corteo lungo la interminabile via facendo una breve sosta alla Chiesa di S. Agostino dove un gruppo degli amici Salesiani impartì la benedizione alla salma.
Alla Porta Garibaldi l’estremo saluto ad un personaggio che tante simpatie aveva suscitato nel popolo tutto appartenente ad ogni ceto che affettuosamente lo accompagnava portando ben 46 corone di fiori, fu detto, tra le lacrime dei più cari amici dall’on. De Felice e dal senatore prof. Carnazza Amari.
Né qui si chiuse il ricordo della giornata terrena del nobile uomo. Manifestazioni imponenti si svolsero nella ricorrenza di trigesima e per vari anni nel giorno anniversario.
Si fecero presenti con lettere e lunghi telegrammi una colluvie di alti personaggi della politica e del Governo sia della Sicilia che del resto della Nazione.
Solenne fu la commemorazione all’Associazione Costituente che volle nella sua sede un suo mezzobusto, alla Federazione Operaia Monarchica che depose sulla tomba una corona floreale di bronzo, alla Camera dei Deputati dove presero la parola nella vasta assemblea dai seggi stipati, gli onorevoli Riccio di Scalea, e Fortis i cui discorsi si conclusero con l’invio di un telegramma di circostanza alla moglie Baronessa Ottavia da parte del Presidente on. Marcora.
Vasta fu l’eco della stampa, i cui stralci ho qui davanti a me assieme ai tre opuscoli che ripetono discorsi e testimonianze: si commossero i poeti che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse l’amico del cuore, il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto con l’articolo pervaso di poesia e delicato sentimento che segue questo breve profilo e col dettare il testo della lapide che, come abbiamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palazzo di Famiglia che ancora possiamo leggere sul niveo marmo: PAOLO VAGLIASINDI – nelle lotte della vita pubblica – portò la forza e la gentilezza – di un cavaliere antico – in Parlamento e al Governo – fu propugnatore immutabile – di libertà con ordine – crudelmente troncata – prima di dare tutti i suoi frutti – l’opera nobilissima – del Cittadino esemplare – vive nella memoria dei contemporanei – rivivrà nella storia – di questa diletta sua terra.
Con profonda gratitudine e commozione ho ricevuto la sua richiesta, e molto mi rallegro per l’amorevole iniziativa verso la memoria di mio padre, che veramente ritengo sia stata una figura esemplare come lealtà e rettitudine, carità di Patria, chiaroveggenza politica, passione di lotta per il trionfo del bene.
on.le Paolo Vagliasindi
Lo attestano antiche opinioni di amici e collaboratori ormai trapassati, ma in modo speciale il culto devoto e la non mai affievolita affezione di mia madre che, per tutta la vita, serbò nel cuore il suo luminoso ricordo. Nel 1897, mio Padre aveva infatti sposato Ottavia Caissotti di Chiusano, torinese come tutta la famiglia di lei. Matrimonio sotto ogni aspetto felice, non mai offuscato dalla benché minima nube. Purtroppo le nozioni che potrò fornire personalmente saranno scarse e un po’ vaghe, sia perché alla morte di mio Padre eravamo 4 sorelle ancora proprio bambine, sia perché la tardissima età, nonché un incidente stradale quasi mortale, mi hanno ridotta allo stato di rudere. Sappiamo comunque che mio Padre è stato direttore del giornale “La Sicilia”che, se ancora esiste, avrà certamente in archivio tutti gli articoli scritti da lui e su di lui. Sappiamo che fu eletto deputato per ben 4 volte e che la 5^ legislatura gli venne bocciata dai delinquenti appositamente usciti di carcere e liberati per opera dei suoi detrattori. Tutte queste angherie, e in modo speciale la morte dell’unico figlio maschio – dolore straziante sopportato con cristiana fermezza e rassegnazione – hanno certamente contribuito a debilitare l’organismo di mio Padre, e a provocare la prematura scomparsa. Ricordo in modo confuso il clima di appassionato conflitto nei riguardi di un certo “De Felice” che io mi figuravo come una specie di mostro. Ricordo che mio Padre ebbe un duello in proposito.
Ricordo la sua devozione all’ideale monarchico e conservatore. Come Sindaco di Randazzo sappiamo che si adoperò con piena dedizione alla cura del colpiti durante l’epidemia di colera. Ricordo… una frase scritta da lui in cima ad un mio quaderno: “Chi impara a conoscere se stesso, impara anche a migliorarsi”. Qualche anno fa ho avuta la sconvolgente sorpresa di vedere mio Padre ritratto in televisione, a grandezza naturale, mentre in Parlamento citava versi di Dante! Ulteriori dettagli potranno forse esserle forniti da mio nipote Edmondo Schimidt di Friedberg, figlio di mia sorella Benedetta, il quale è un competente di tradizioni familiari, e sempre ha nutrito grande ammirazione per il Nonno mai conosciuto. Voglia accogliere i più devoti omaggi e commossi ringraziamenti da una superstite di altri tempi. Laura Vagliasindi
NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DELL’AMICO BARONE PAOLO VAGLIASINDI
Lo vidi disteso sul letto di morte, lo seguii verso la fossa e credetti di non poterlo più ritrovare altrove fuorchè nell’intimo mondo delle memorie.
Il suo spirito aleggia ancora sulla vetta di un monte.(nota: m. Colla presso Randazzo, che era di sua proprietà).
Palazzo Vagliasindi – Randazzo
E’ una delle più alte cime dei Nebrodi orientali: nessun’altra la sovrasta fin dove arriva lo sguardo, tranne quella dell’Etna; ma il vulcano, troneggiando da lungi, oltre l’immenso solco del fiume, non la schiaccia, le dà anzi più spicco. E dal fumante culmine della montagna del fuoco, l’occhio corre, di là dai vaporosi abissi del mare, alle isole del vento (Eolie), emergenti come per incanto dall’incerto orizzonte.
In quel nido d’aquila, tra il candore delle nubi e delle nevi, fuori delle vie del mondo, in mezzo e dinanzi ai primigenii elementi, egli edificò la sua casa: una casa vasta e forte come un castello, ma tutta illeggiadrita dall’edera che la veste come di un verde merletto, ma tutta profumata dal parco che le è cresciuto d’intorno.
La volontà pertinace e l’intelletto d’amore trasformarono quella cima nuda e deserta in un soggiorno delizioso ed in un campo fecondo. Dove mani imprudenti divelsero e distrussero la secolare foresta, una mano accorta e paziente piantò e difese i nuovi rami che già proteggono l’erta pendice.Quella mano industre prodigò l’alimento al suolo per accrescerne le energie, e tracciò gli argini per infrenare le acque, ed eresse i ricoveri agli armenti che dovevono popolare i pascoli pingui e dissetarsi alle cristalline sorgenti. A quel suo piccolo regno dove, pieno di vita, egli mi aspettò nei giorni che le fonti della erano esauste in me, io salii troppo tardi, quando la terra aveva ricoperto da tempo la sua fredda salma.
Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi.
Discorso tenuto dal Sindaco di Randazzo Ernesto Del Campo il 5 settembre 2009, in occasione della posa del Busto in bronzo e dell’Intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo Vagliasindi del Castello.
E’ con sommo piacere che oggi, sabato 5 settembre 2009, accogliamo, in questa nostra Città di Randazzo, i rappresentanti della Famiglia Vagliasindi, una delle più antiche e più nobili di Randazzo, in occasione dell’inaugurazione del Busto in bronzo e dell’intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo, che, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò alla nostra città ed alla Sicilia tutta. Riteniamo che occasioni come questa siano utili per conoscere, capire, approfondire il nostro passato, la nostra storia, la nostra cultura. Ho detto in occasione della recente intitolazione della Piazza di Montelaguardia all’Avv. Gualtiero Fisauli e mi piace qui ricordarlo “Una società che dimentica le proprie origini, la propria storia, indipendentemente dal ceto sociale, dal ruolo o dall’appartenenza politica dei relativi protagonisti, è una società senza memoria. Un popolo senza ricordi, senza capacità critica, senza dialogo e senza riflessione non ha futuro, anzi ha difficoltà a comprendere persino il presente”. Ma chi era questo nobile uomo della nostra terra? Riteniamo opportuno tracciarne un breve profilo biografico che, certamente, non pretende di essere completo ed esaustivo tenuto conto dell’intensa attività svolta in ogni campo dall’uomo, dal politico, dallo statista, sia qui a Randazzo, dove fu Sindaco, sia al Parlamento Nazionale, dove fu Deputato, sia ancora al Governo, dove fu Sottosegretario di Stato, apprezzato tanto che ebbe l’onore di una epigrafe dettata da Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita dal più abile scultore della città, Antonino Corallo. Paolo Vagliasindi, nato il 16 settembre 1858, era il terzo di 13 figli del Barone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo di Calanovella.
Casato illustre, quello del Vagliasindi, presente a Randazzo già alla fine del XVI secolo, ripartitosi successivamente, dal ceppo principale, in numerosi altri rami, così come altrettanto illustre era, ed è, quello dei Piccolo che, tra i suoi, annovera personaggi di spicco illustri come il grande scrittore Lucio, discendenti da antica nobiltà siciliana, imparentati con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, altro celebre scrittore, noto per il suo romanzo “Il Gattopardo”. La famiglia Vagliasindi aveva avuto sempre un ruolo di primo piano nella vita cittadina, protagonista in ogni attività socio- economico-culturale di Randazzo.
Busto di Paolo Vagliasindi nella sala della Giunta – Palazzo Municipale Randazzo
Ancora giovane, fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi verso la politica, che lo avrebbe successivamente portato al Parlamento ed al Governo. Nel 1885, a soli 27 anni, veniva eletto Sindaco di Randazzo, carica alla quale venne riconfermato nel 1887, portando nell’amministrazione della cosa pubblica la fierezza e correttezza che furono le doti principali del suo carattere. Non erano anni facili, né a livello locale, né ancor meno a livello nazionale. Leggiamo, infatti, in un ritratto della vita pubblica politica del paese in quegli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo fatto dal fratello Diego, uomo singolare, estroso, intelligente:
“corpo elettorale non sempre all’altezza della situazione, Consiglio Comunale il più delle volte diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare gli eterni problemi della Città, vita pubblica dominata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento, ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, e – nel marasma di contraddizioni, di risentimenti e di bramosia del potere – , ecco inserirsi, con una violenza inaudita, la vertenza De Quatris che doveva trascinarsi per oltre 50 anni, fino al secolo successivo, schierando su posizioni diverse le opposte fazioni.
Vertenza che agitò la vita della nostra Città per tanti anni, con le azioni più irriverenti contro la Chiesa di Santa Maria che, “colpevole” solo di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella De Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vide spogliare, alla fine, del suo ingente patrimonio”. Per di più, nel 1887 si diffuse una tremenda epidemia di colera, che il Nostro giovane sindaco affrontò in maniera responsabile, organizzando i lazzaretti e soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo pure i suoi collaboratori, tanto da meritare, più tardi, l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo proprio perché, con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità. Dimostrò, inoltre, il suo impegno alla guida della Città nel curare le strade, ma soprattutto imprimendo un nuovo impulso all’agricoltura, ed in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava, allora, la nostra economia.
Coincide, infatti, con quest’epoca l’importanza del porto di Riposto da cui partivano navi e bastimenti carichi di vino diretti in tutto il mondo, Russia compresa. E ciò a dimostrazione del significativo rilancio in quel tempo della viticoltura etnea.
…la scienza ha nell arte la funzione di metodo, fornisce gli strumenti per l osservazione oggettiva del fatto umano e cerca di ricostruirlo in totale aderenza al vero nell arte quel che più ci attrae è sempre la vita Romanzi importanti: Giacinta e Il marchese di Roccaverdina A list of procedures and steps, or a lecture slide with media. Luigi Capuana. 23.
Da rilevare, ancora, che fu proprio durante la sua sindacatura che vennero iniziati, e successivamente portati a termine gli scavi archeologici in Contrada S. Anastasia, i cui reperti sono stati catalogati e resi fruibili nel nostro Museo Archeologico dedicato all’altro cugino Paolo Vagliasindi, oggi vero punto di forza dell’offerta culturale della nostra città. L’esperienza di pubblico amministratore di una cittadina così contrastata lo aprì verso nuovi interessi, più complessi e più vasti, in cui avrebbe potuto esplicare gli ideali che formavano la sua personalità. Paolo Vagliasindi meditava di compiere quel “salto di qualità” che da una cittadina di provincia del “profondo sud” lo avrebbe portato ai palazzi della Capitale. Iniziava, così, a preparare il terreno per il momento in cui avrebbe presentato la sua candidatura al Parlamento Nazionale. Consapevole dell’importanza tanto di una solida base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostando il suo centro d’interessi verso il capoluogo etneo riorganizzò a Catania l’Associazione Monarchica – che diventerà, poi “Associazione Costituzionale”, di cui Paolo sarà presidente fino all’anno della morte –, e rilanciò il foglio La Sicilia, trasformandolo in un vero e proprio giornale, rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”.
Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli, il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà, poi, nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale. Polemista di valore ed alieno però da ogni forma di sterile polemica fine a se stessa, Paolo Vagliasindi, sia come giornalista, sia come politico, seppe esprimersi con dignità, aperto ad ogni novità, lontano da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere, si conquistò la stima e il rispetto persino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per esempio, il famoso De Felice, dominatore della sinistra catanese. Gli anni che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo furono tra i più oscuri e depressi della vita nazionale senza grandi ideali e senza grandi speranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta: grandi dissesti finanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali. In questo tremendo periodo politico si innestava l’attività del nuovo Onorevole, Paolo Vagliasindi. Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, nel Collegio elettorale di Catania II (Acireale), fu eletto con un larghissimo consenso popolare, facendo parte dei “Conservatori liberali” del partito di Destra. Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così poté essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, e poi nel 1897, per il Collegio di Bronte, e poi ancora una quarta volta nel 1900, nei due Collegi di Bronte e di Giarre, optando per Bronte. Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua competenza nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Gabinetto Pelloux come Sottosegretario all’Agricoltura, Industria e Commercio.
Incarico che mantenne dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguardavano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo constatare dal volume delle «Cronache Parlamentari» del tempo e, soprattutto, fece numerosi interventi e propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia. Nel frattempo, il 19 luglio del 1897, si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale ebbe cinque figli: Laura, Benedetta, il terzogenito Emilio – l’unico maschio che purtroppo morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903 –, e poi ancora le altre due figlie: Maria ed Ersilia. Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
Nel mese di novembre del 1904 Paolo Vagliasindi si ricandidò nel Collegio di Bronte, ma stavolta non veniva rieletto a seguito di pressioni ed intimidazioni ad opera dei suoi avversari.
Il barone Paolo Vagliasindi, raccolto il materiale ed acquisite le testimonianze necessarie, presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si era in attesa che la Giunta delle Elezioni emettesse i provvedimenti definitivi, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, alle ore 14.30 del 23 dicembre 1905, ad appena 47 anni, cessava la sua vita terrena.
Sbalordì l’intera città che in tre giorni appena si era potuta concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato ed ammirato, che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata degli avversari, il vanto dei parenti e della città natia.Il giornale “La Sicilia” di cui era collaboratore ne pubblicò un necrologio a tutta pagina.
Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”.Come riportato da La Sicilia del 24-25 dicembre 1905, ai funerali di Paolo Vagliasindi la città di Catania fu rappresentata da tutte le classi sociali.
Vasta fu l’eco della sua dipartita: si commossero i poeti, che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto col dettare il testo della lapide che, come abbiamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palazzo di Famiglia che ancora oggi possiamo leggere sul niveo marmo:
Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.
Come ebbe a scrivere L’Ora del 23.12.1905, giorno della sua dipartita terrena, Paolo Vagliasindi godeva “le simpatie della cittadinanza, per le alte qualità morali e intellettuali, che lo distinguevano tanto da meritarsi anche la stima degli avversari”.
Ed è proprio per ricordare – ancora una volta – questo nobile figlio della nostra terra, il quale, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò a Randazzo e alla Sicilia, che oggi siamo qui a farne memoria, inaugurandone il Busto in bronzo, gentilmente donato dalla famiglia ed accettato dall’Amministrazione Comunale con Atto deliberativo n. 38 del 30 marzo 2006, assunto dall’Amministrazione guidata dal Prof. Salvatore Agati e integrato con Delibera n. 76 del 15 maggio 2009, ed intitolandogli la Sala Giunta, ben consapevoli come siamo che una città, o un popolo, che non ha memoria storica del proprio passato, non ha certamente neanche le basi giuste e solide per il suo futuro.
Lettera al Sindaco Francesco Sgroi per acquisire dall’Archivio di Stato di Catania l’archivio privato dell’on.le Paolo Vagliasindi.
La relazione che accompagna l’Archivio puoi leggerla di seguito.
Consegue il diploma di Abilitazione Magistrale ed e vincitore del primo concorso per Ufficiale postale bandito dalle Poste ed assunto 11 agosto 1957.
Collocato in pensione il 15 Luglio 1998 per raggiungimento della Massima anzianità contributiva con la qualifica di Dirigente Superiore di Esercizio.
Nominato per meriti di lavoro Cavaliere della Repubblica il 2 Giugno 1978 dal Presidente Giovanni Leone.
Luglio 1991 squadra allievi Associazione Sportiva Randazzo: Torneo Italy Cup Verona. Il sindaco Francesco Rubbino,, ass, Gianni Petrullo, ass. Francesco Lanza, Nino Germanà, Salvatore Corso, Nino caggegi, Salvatore Manitta, Pietro Trazzera.
Eletto consigliere Comunale nel 1970, Assessore per parecchi anni, quasi sempre allo Sport e turismo, ha avuto l’onore di essere stato nominato Sindaco nel Gennaio del 1988, restando in carica per quasi tutto l’anno.
Amante dello sport„ ha dedicato ad esso, molto tempo della sua vita politica, riuscendo, con la collaborazione di altri colleghi, a dotare Randazzo di tutti gli impianti sportivi tutt’ora esistenti, incluso il campo di Baseball.
Campo completato poi, come avvenuto peraltro anche per altri impianti sportivi, per interessamento delle successive Amministrazioni.
Altro risultato, di cui va fiero, è stato, la creazione nel 1975, dell‘AIAS ( assistenza Italiana agli spastici) a Randazzo, sia per il suo impatto occupazionale per i Randazzesi, sia, e soprattutto, per l’aiuto che si poteva dare ai diversamente abili di Randazzo e dintorni, avviandoli anche all’apprendimento di un lavoro per la loro vita futura. Interpellato dall’allora presidente dell’AIAS di Acireale, collaborato dal Maestro Giuseppe Santangelo, a cui era stata affidata la classe dei bambini disabili, e dall‘assessore Alfio Cartillone, si è riusciti ad ottenere l’autorizzazione, da parte della Regione Siciliana, dell’uso dei locali dell’attuale sede dell’AIAS, che proprio l’anno scorso ha festeggiato il 40^ anniversario della sua fondazione, dando atto al Petrullo di quanto fatto per la sua istituzione.
Camarata Santo (chiamato da tutti Santino) nasce a Randazzo il 16 novembre 1936 da Antonino e Ruffino Maria Catena è il secondo di tre fratelli. Giovanni il più grande e Giuseppe. Parruchiere (artigiano di qualità) lavora da giovane prima a Messina poi a Milano.
Negli anni sessanta si stabilisce definitivamente a Randazzo.
La sua Grande passione è senza dubbio la Politica, quella con la P maiuscola. Nelle elezioni del 22 novembre 1964 viene eletto Consigliere Comunale nella lista del PCI come Indipendente di Sinistra. Viene eletto Sindaco il 22 gennaio 1969 a causa di forti contrasti all’interno della DC e nonostante non avesse la maggioranza in Consiglio con grande coraggio assume la guida della Città e cerca in tutti i modi di evitare la nomina di un Commissario, cosa
Santino Camarata e Angelo Varsallona
che avverrà di lì a poco con le dimissioni di 18 Consiglieri della DC e con la nomina del Commissario dr. Vincenzo Viviano il 21 giugno 1969.
Viene eletto Consigliere Comunale nella lista del PRI nelle elezioni del 7 giugno 1970 e con la elezione a Sindaco (5 ottobre 1971) di Francesco Rubbino entra in giunta con la delega di Vice Sindaco ed è riconfermato nella carica anche nella seconda sindacatura del Rubbino (31 luglio 1972).
Con la ricomposizione del gruppo DC e con la elezione a Sindaco di Giuseppe Gulino, passa all’opposizione e con Lui il PRI.
Alle elezioni del 1975 non si presenta e non si presenterà più ritenendo chiusa la sua esperienza politico-istituzionale. Oltre alla sua attività professionale che ha sempre amata, si dedica anche alla agricoltura. Le sue osservazioni politiche sono sempre acute ed ascoltate.
Una banale caduta mentre si trovava a Brescia lo costringe al ricovero ospedaliero, e rientrando in Sicilia viene operato all’ospedale Cannizzaro di Catania.
La caduta gli è fatale. Dopo altre traversie ospedaliere muore serenamente il 1 luglio del 2020.
Via Degli Archi, la colonnina donata da Santino Camarata – Randazzo
In fondo si vede la casa paterna di Santino Camarata con la colonnina donata al Comune. Foto di Salvo Manitta.
La colonnina di marmo bianco che si trova nel primo Arco (provenienti da piazza Municipio) della via Degli Uffizzi o via Degli Archi è stata regalata da Santino. Questa colonnina adornava prima la casa paterna (vedi foto) accanto il castello Svevo attualmente sede del museo Vagliasindi, dopo il negozio di parrucchiere nel corso Umberto. Il professore Enzo Maganuco, tutte le volte che lo andava a trovare, restava incantato dalla bellezza di questa colonnina. Il Santino allora gli fece promettere che se si interessava presso la Soprintendenza delle Belle Arti di Catania a far finanziare la ristrutturazione della Via degli Archi l’avrebbe donata al Comune. E così fu.
Via Degli Archi com’era negli anni trenta del novecento.
Via Degli Archi ristrutturata negli anni ottanta del novecento. Foto 2018
Foto di Santino Camarata che rispecchiano un pò la sua vita.
La vetrina della prima parruccheria in corso Umberto. Si nota la colonnina di marmo.
Il famoso Agronomo nacque a Randazzo nel 1884. Dopo avere completato gli studi superiori al Collegio S. Basilio, conseguì la laurea a Pisa.
Fino al 1921 risiedette in Liguria, in qualità di Direttore delle cattedre ambulanti dell’agricoltura di Imperia.
A Reggio Calabria si occupò dell’Istituto di essenze e derivati.
Nel 1923 rientrò a Catania, dove, su esecuzione di un lascito, la fondazione Valdisavoia voluto da Giuseppe Gravina Cruyllas principe di Valdisavoia, gli fu affidata la direzione dell’Istituto Agrario Valdisavoia, al quale diede un tocco di modernità, convinto fermamente del ruolo che istituzione agraria poteva svolgere, nell’ambito della valorizzazione della sua terra. Nel 1947 fondò la Facoltà di Agraria presso L’Università di Catania, che nel 1961 gli conferì, in memoria, la medaglia d’oro al merito della scuola, della cultura e dell’arte.
Fu anche Direttore dell’Orto Botanico di Catania, ed ebbe molte altre cariche in accademie ed associazioni scientifiche.
Nutrita la sua bibliografia. Cominciò nel 1917, inviando corrispondenze dal fronte, e proseguì con numerosi testi di agraria, trattando in modo particolare l’orticoltura e la floricoltura.
Fra i tanti titoli, che non è possibile elencare tutti, ricordiamo: Calendario dell’Ortolano (1911), La coltivazione industriale delle rose rifiorenti (1911), Acacie da fiore e da ornamento (1911), I concimi chimici ai fiori (1912), Il gelsomino da profumeria (1912), L’arancio da fiore (1912), La violetta da profumeria (1912), Lavanda e timo (1912), Piante da fiore e da ornamento (1924), Orticoltura (1934), Orticoltura e giardinaggio (1939), Sui criteri di scelta delle specie e varietà dei fruttiferi. Morì nel 1957.