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Canonico Giuseppe Finocchiaro

                                                                                                                      Un protagonista di mezzo secolo di storia randazzese

                                                                                                                          IL CANONICO GIUSEPPE FINOCCHIARO

Maristella Dilettoso

         Difficile restare obiettivi e asettici quando si parla di persone verso le quali ci si sente apparentati da un legame di stima, di affetto, ancor più quando la loro immagine è sfumata, da un canto, dai ricordi dolcissimi dell’infanzia, ed è ingigantita, dall’altro, dalle testimonianze di rispetto di quanti ancora ne conservano memoria. Ma poiché il Canonico Giuseppe Finocchiaro ebbe un ruolo più che attivo nella comunità randazzese, riscuotendo stima ed amicizia, tanto nell’ambiente laico quanto in quello clericale, e purtroppo i più, a quarant’anni dalla sua scomparsa, sembrano avere dimenticato troppo presto questo concittadino, tenteremo di ricostruire le linee generali della sua biografia.
 Giuseppe Finocchiaro nacque a Randazzo il 7.1.1884, quarto di sei figli, da Cesare e Giovanna Vagliasindi, e dal padre, più volte impegnato nell’amministrazione della cosa pubblica, dovette forse ereditare quella certa passione per la politica che fu uno dei tratti più singolari e discussi della sua personalità.
            Compiuti gli studi, si ordinò sacerdote il 21 dicembre 1907. Sua prima aspirazione era stata quella di entrare nella famiglia salesiana, ma le precarie condizioni di salute della madre gli fecero accantonare questo proposito.
Il latino, appreso sui banchi di scuola, per lui non aveva segreti: lo insegnò per qualche anno al Real Collegio Capizzi di Bronte, più tardi dava ripetizioni in privato, e si dice che riuscisse a tradurre ed a comporre in questa lingua con notevole scioltezza e padronanza.
Suo è il testo dell’epigrafe, incisa in marmo e posta all’interno dell’abside maggiore della chiesa di S. Maria, a commemorare la riconsacrazione dell’altare dopo i danni subìti durante i bombardamenti del 1943.

 

In questa foto il canonico Giuseppe Finocchiaro con alcuni allievi del Real Collegio Capizzi di Bronte.

Nel 1910 l’Arciprete Francesco Fisauli, invitato da Don Luigi Sturzo ad una conferenza a Paternò, delegava, quale rappresentante del clero di Randazzo, il Canonico Finocchiaro con il compito di acquisire elementi utili per costituire ed organizzare anche a Randazzo un movimento cattolico.
          Partecipò quindi all’Atto costitutivo e alla stesura dello Statuto della Cassa Rurale Cattolica di Randazzo, ricoprendo il ruolo di Segretario dal 1910 al 1915, e facendo parte del Consiglio di Amministrazione fino al 1935, quando si dimise come molti altri esponenti del clero, dietro invito dei superiori (la Sacra Congregazione del Concilio “sconsigliò” in vari paesi i sacerdoti dal fare parte delle casse Rurali).
In quegli anni, quando una terribile e mortale epidemia di colera si abbatté su Randazzo (1911), si prodigò incessantemente in prima persona per l’assistenza ai malati ed ai moribondi, trascorrendo con loro gran parte delle sue giornate, nel lazzaretto che era stato allestito presso il Convento di S. Domenico.
            Nel 1912 venne nominato Economo Cassiere della Parrocchia di S. Nicolò, dove era coadiutore dal 1908, perché “abbastanza versato in fatto di contabilità” (V. verbale di nomina del 3.9.1912).
Lasciò la Parrocchia dal 1915 al 1918, quando, allo scoppiare del 1° conflitto mondiale fu inviato, come Cappellano Militare, col grado di Tenente, in zona di operazione.


Il canonico Giuseppe Finocchiaro in divisa di Cappellano Militare durante la guerra 15/18.

Raramente, poi, avrebbe parlato ad altri degli orrori vissuti e delle scene drammatiche cui gli toccò assistere al fronte: e questo fu sempre un altro aspetto del suo carattere: una qualche forma di pudore, o riservatezza, gli impediva di diffondersi a narrare i propri ricordi più tristi, o i propri dispiaceri, o le proprie sofferenze fisiche.
Preferiva piuttosto intrattenere gli intimi con gli aneddoti e gli episodi più divertenti. Così fu anche per l’esperienza della guerra, quando in realtà gli pesava troppo parlare di tanti amici e commilitoni che si era visto morire davanti tra le sofferenze, o straziati dalle granate, senza poterli aiutare, dovendosi accontentare di somministrare loro in fretta gli ultimi Sacramenti, spesso senza neanche il tempo di una Confessione.
Nel 1928, a seguito delle dimissioni per motivi di salute dell‘Arciprete Francesco Paolo Germanà (del quale era stato segretario), partecipò al Concorso per la carica di Arciprete. Superò il concorso Mons. Giovanni Birelli, che detenne la carica fino al 1966.
Tra la fine del 1936 e la primavera 1938, venne inviato in qualità. di Vicario Economo nella vicina Castiglione, dove si fermò circa un anno, alloggiando in Canonica, allo scopo di rivedere la contabilità, per presunti illeciti verificatisi durante i lavori di ricostruzione della Chiesa di Maria SS della Catena.
Una bolla del nuovo Vescovo di Acireale, mons. Salvatore Russo, emanata l’8 dicembre 1936, doveva segnare una data storica per Randazzo: con essa infatti si poneva fine a quella vexata quaestio della secolare disputa fra le tre chiese di S. Maria, S. Nicolò e S. Martino. Fino ad allora esse ricoprivano il ruolo di matrice a rotazione, per un anno ciascuna, e l’unico Arciprete parroco aveva sede nella matrice di turno. Il Vescovo, trovando ciò difforme dalle norme di Diritto Canonico, sanciva con tale bolla la parrocchialità autonoma delle tre chiese, con proprio parroco e due coadiutori, abrogava i turni di matriciato, eleggendo come unica matrice la chiesa di S. Maria, la quale sarebbe stata anche sede di Arcipretura.

In questa foto si riconoscono: Padre Matteo Paparo, Gaetano Vagliasindi, canonico Finocchiaro. 2°fila: arc. Giovanni Birelli, sig. Polizzi, canonico Edoardo Lo Giudice.

Il Canonico (perché talvolta emerge il conflitto tra l’uomo e il sacerdote), che con altra bolla episcopale del 4 luglio 1937 veniva nominato Parroco di S. Nicolò, nel suo intimo dovette mal digerire questa subordinazione ad un’altra chiesa.
La bolla del 1936, ad esempio, stabiliva fra l’altro che S. Maria avrebbe dovuto, per prima, il Sabato Santo, suonare le campane a gloria, e pare ch’egli si regolasse con i propri tempi e ritmi…
            Ma ben altre nubi si profilavano all’orizzonte. La Seconda Guerra mondiale, che a Randazzo portò lutti e rovine, distruggendo un patrimonio storico e monumentale di inestimabile valore, a Don Giuseppe portò eventi dolorosissimi: la notizia della morte del figlioccio e nipote prediletto, il Tenente Gaetano Vagliasindi, ucciso dai Tedeschi a soli 22 anni nell’isola egea di Coos, il 6 ottobre 1943, e poi ancora quella del nipote Alessandro Mancini, perito in mare il 9 settembre assieme a quasi tutto l’equipaggio della corazzata “Roma”.
E infine, i bombardamenti incessanti del luglio-agosto 1943, che aprirono in lui ferite profonde, come nel suo fraterno amico Salvatore Calogero Virzì.
La Chiesa di S. Nicolò venne centrata da una bomba, che distrusse la cupola, gran parte della navata centrale, la navata destra con tutta la sagrestia, la Canonica e molte opere d’arte.
Il parroco in quei giorni fu sorpreso a piangere, seduto tra le macerie della “sua” chiesa, che riteneva ormai irreparabilmente distrutta.
Ma l’attività di un sacerdote non si può mai fermare, neanche di fronte ai momenti di prostrazione più profonda. In un primo tempo aveva pensato di delimitare la navata di sinistra, rimasta quasi integra, per potervi officiare, ma in un secondo tempo le manifestazioni di culto vennero spostate nella chiesetta di S. Barbara, poi nella vicina S. Domenico (anche questa chiesa era pericolante, benché al momento del crollo della torre era già stato ripristinato il culto in S. Nicolò), mentre per ovviare alla perdita dei locali della canonica, dove soleva riunire tanti giovani, adattò una stanza al pianterreno della propria abitazione (Palazzo Clarentano), aprendola agli affezionati di sempre.
            Durante gli anni del conflitto si era adoperato, con impegno e a proprie spese, per rintracciare i prigionieri di guerra: dopo aver ricavato il codice dell’ultima corrispondenza inviata ai familiari, si metteva in contatto, a Roma, con l’Ordinariato militare, ottenendo le notizie di tanti militari randazzesi dispersi, che si affrettava a trasmetterle ai parenti.
            E venne la insperata ricostruzione, i lavori della cupola furono completati nel 1950, e in seguito anche quelli della chiesa, della canonica e sagrestia, sebbene con pianta diversa.


    Questa è una foto storica della ricostruzione della cupola della chiesa di San Nicola distrutta dai bombardamenti del 1943. Si riconoscono: Padre Mangano, il Canonico Finocchiaro, Padre Saro Maugeri e il carpentiere don Pippo Crispino.     

Nel dopoguerra ricoprì la carica di Presidente dell’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza),  ma in quei tempi troppi erano i bisogni, la popolazione randazzese era stata duramente colpita, ed era difficile accontentare tutti coloro che chiedevano sussidi.
            In parrocchia venne istituita la devozione a S. Rita da Cascia, al cui simulacro, ritirato direttamente da Ortisei, seguirono quello di S. Giuseppe e più tardi di S. Lucia, posti tutti nelle cappelle laterali; proprio nella ricorrenza di questi due Santi si fecero volare dalla piazza enormi palloni a gas, dalle forme più strane.
Durante la Settimana Santa il parroco seguiva e curava personalmente la solenne e suggestiva processione col Cristo nel “cataletto”, che si svolgeva allora il Giovedì Santo sera, e creò il gruppo dei figuranti rappresentanti i 12 Apostoli.
            Nelle arroventate elezioni amministrative del 1956, fu accanito sostenitore (fiancheggiato in ciò da una nutrita rappresentanza del clero), della Lista Civica che portò alla carica di Sindaco Pietro Vagliasindi.
Sembra che il Canonico ne sia stato, per alcuni versi e in varie occasioni, consigliere e ispiratore “Ma chi scrissi ‘u Canonicu?”, avrebbe esclamato il Vagliasindi mentre cercava di leggere, durante un comizio, gli appunti scritti nella grafia illeggibile di don Giuseppe).
            Morì l’11 marzo 1957, dopo essere stato colto da un ictus mentre si trovava in canonica.
            L’attività di don Giuseppe Finocchiaro non si fermò al suo ministero, che svolse sempre con estrema fermezza e dignità, ma spaziava anche in altri campi. Oltre che un latinista, era anche un esperto di Diritto Canonico, cui si rivolgevano spesso altri sacerdoti per chiarimenti e consulti, apprezzava la musica lirica, ma non disdegnava una partita a biliardo o una mano di briscola con gli amici.
            Un aspetto rilevante è quello dell’interesse per i giovani, di cui si circondava sempre in Canonica e fuori: forse proprio in quest’ottica si possono anche inquadrare l’affinità ed i buoni rapporti di amicizia e frequentazione con molti Salesiani, cui lo accomunava la cura e l’attenzione nell’intrattenimento dei ragazzi. Seguì per parecchio tempo l’Associazione S. Paolo, di Azione Cattolica maschile.
            Fu senz’altro una figura non convenzionale, quasi controcorrente, ma non comunque nel senso odierno di “prete scomodo”. Alcuni atteggiamenti, poco consueti per quei tempi in un sacerdote, gli costarono le critiche dei più formalisti.
Certi tratti sono rimasti fortemente impressi nella memoria collettiva randazzese, come il suo modo particolare di incedere, la dizione stretta e particolarissima, l’aroma di caffè che aleggiava in Canonica, l’eterna sigaretta “Tre Stelle” (aveva preso il “vizio” nel periodo trascorso al fronte, quando le scorte nei magazzini restavano inutilizzate perché tanti non tornavano più), le sue capacità di esperto solutore di giochi enigmistici, l’abito talare indossato in modo informale, con il collarino spesso slacciato.
            Era dotato di una memoria formidabile, e capace di grandi slanci di generosità e abnegazione, amante della compagnia e delle facezie, personalità molto spiccata e poco incline all’ossequio formalistico, intollerante dei soprusi e schietto nel suo dire, senza peli sulla lingua.

 

Nella foto il Canonico Giuseppe Finocchiaro co alcuni amici.

Molte cose ancora si potrebbero dire del Canonico, molti episodi si potrebbero riportare, di quelli che ci sono stati rievocati con simpatia e commozione da quanti gli furono accanto; tanti apprezzamenti e testimonianze postume si potrebbero citare, di quanti fecero a gara per ottenere l’amicizia di un personaggio considerato di levatura superiore; molte opere buone si potrebbero narrare, se non si temesse di fare un torto a quella sua modestia e ritrosia, che in vita non lo indusse mai a vantarsi del bene fatto, applicando alla lettera la massima evangelica “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”.
Ma non era il nostro intento quello di costruire un ritratto agiografico, da immaginetta commemorativa, bensì di riconsegnare al ricordo la figura di un uomo che ha contribuito a fare la storia del nostro paese, una figura dai forti tratti umani, sanguigna, coraggiosa, aliena dai compromessi, ma fortemente attaccata ai valori essenziali, autentici, fuori da schemi ieratici e convenzionali.

Maristella Dilettoso
(Articolo pubblicato sul Gazzettino di Giarre, nn. 26 e 27 del 1998)
Le foto con le didascalie sono di Maristella Dilettoso che si ringrazia anche per l’ottimo articolo.

Etna 1981

 

 

 

 

     Pino Portale 

 

 

 


 Randazzo Notizie – Febbraio 1983.  

 

 

Vent’anni fa la colata lavica che minacciò Randazzo  

Cominciò verso mezzogiorno e mezzo, con una folata di vento fortissimo. Il balcone, che era socchiuso, si spalancò violentemente, alcuni soprammobili si rovesciarono, eppure non sentii oscillare il suolo, perché mi trovavo in movimento. Seppi soltanto dopo che si era trattato di una violenta scossa di terremoto.
Era il 17 marzo 1981, venti anni fa.

Maristella Dilettoso

Solo nel primo pomeriggio, quando cominciarono i boati, sordi, incessanti, comprendemmo che ‘a Muntagna ci stava dichiarando la guerra. Affluivano già le prime notizie: “Si è aperta una bocca a 1800 metri… a 1500… a 1200… c’è una colata imponente in corso…”. Mentre i boati si facevano più cupi, più frequenti, più snervanti, cominciavamo a diventare tutti più nervosi, a scrutarci in faccia, esprimendo solo con gli occhi la domanda che ci premeva dentro, ed ognuno temeva di formulare: “E se…?”. Ma no, via, l’Etna ci voleva bene, ci aveva sempre risparmiati, per secoli, non avrebbe potuto mai…

Eppure l’inquietudine cresceva in noi, all’imbrunire cominciammo a salire sulle terrazze, sulle alture, per vedere, per capire, ma si era levata la nebbia, e in quella foschia si distingueva solo un rossore diffuso, poi più nulla. Forse non c’era pericolo, magari la lava si era arrestata – l’aveva fatto tante volte in passato – e potevamo tornare alle nostre case. Poi qualcuno disse: “È a un chilometro da Montelaguardia, scende come un fiume!”. E saltò la corrente.

Si seppe in seguito che il magma aveva travolto i tralicci della luce. Prendemmo a girare per il paese sulle auto, c’erano anche alcuni abitanti di Montelaguardia, muti e con gli occhi fissi. Per noi era cominciata veramente la paura.

Quella notte non si dormì, ci si assopiva sfiniti sulle sedie, a intervalli, per svegliarsi di soprassalto, con il cuore sempre più piccolo, si telefonava, si cercavano notizie, si usciva, si rientrava… e intanto – anche questo per fortuna lo sapemmo molto tempo dopo – si stava disponendo di suonare le campane a martello.
Giungevano altre notizie: Montelaguardia era stata risparmiata dal passaggio della colata, ma era rimasta tagliata dal paese; la lava, scendendo come un liquido, vorticoso fiume rosso, aveva attraversato la SS 120, la SP 89. Attraversato si fa per dire, il fronte che aveva tagliato le due arterie misurava dai 1500 metri ai 2 Km. Praticamente, dal lato di Fiumefreddo Randazzo era isolata, se fossimo dovuti scappare, sfollare, si poteva prendere soltanto la direzione di Bronte.
Quel che la lava aveva incontrato sul suo cammino, investendoli, ricoprendoli, erano boschi, terreni, vigneti, oliveti, masserie, villette… anni, secoli di lavoro, spese, sacrifici, una zona fertilissima, amena.
Si pianse molto, dopo, per questo, ma allora si temeva per l’abitato, per le nostre case, ma anche per le nostre chiese, i nostri monumenti, i pochi lasciati in piedi dalle bombe del ’43. E venne l’alba, livida e grigia, si accesero radio e televisori, era strano, seppure con la lava a breve distanza, si ascoltavano i notiziari che giungevano da lontano, che davano i brividi: “Randazzo, il paese che rischia di scomparire, di essere cancellato…” esordì la radio quella mattina. Ci trovavamo sospesi, nessuno pensò alle incombenze quotidiane, stavamo vivendo l’eccezionalità, qualcuno già aveva lasciato il paese, raffazzonando alla meglio qualche oggetto di valore, qualche indumento, qualche ricordo, altri vagavano per il paese su macchine cariche all’inverosimile, senza decidersi.
Erano arrivati i mezzi della protezione civile, dell’Esercito, dei Vigili del fuoco, schierati in fila sulle piazze, pronti a caricare e partire, militari e uomini in divisa dappertutto, sembravamo in guerra.

Andammo a vedere la lava: più lenta e solida della sera prima, superata ormai la fase parossistica, avvicinandosi si sentiva un rumore metallico, agghiacciante, e un odore acre e soffocante di zolfo, l’odore dell’Inferno. Mi ritrovai di fronte ad una sorta di muraglia nera e rosseggiante, orribile.

La tranquillità per il nostro tormentato paese era di là da venire. Quella sera del 18 marzo un’altra bocca prese ad alimentare una nuova colata, che questa volta scendeva diritta verso Randazzo, ci salvò solo il fatto che la prima furia del vulcano s’era ormai esaurita.
La mattina del 19, l’inclemenza del tempo portò anche una nevicata, mentre ai militari, ai soccorsi, si aggiungevano ora liete comitive di gitanti, brigate di curiosi: c’erano compagnie di ragazzi che, a pochi metri dalla lava, cantavano allegramente tenendosi per mano, qualcuno pensò pure di allestire una grigliata, mettendo ad arrostire le salsicce sul magma incandescente, buscandosi un’esemplare quanto memorabile intossicazione.

In paese, invece, quella sera ci si ricordò dei Santi. Già il pensiero era andato alla Madonna – la leggenda, come ricordato dall’affresco della Madonna del Pileri, dalla tavoletta di Girolamo Alibrandi, e dalla statuetta marmorea posta sulla porta di mezzogiorno della Basilica di S. Maria, voleva Randazzo edificata su sette strati di lava, ma comunque salvata più volte dall’intervento della Vergine, nel 254 forse (?), di sicuro nel 1536, 1614, 1624 – ma era la ricorrenza del compatrono S. Giuseppe, e la gente uscì in processione e in preghiera, con le fiaccole, fino al punto in cui era giunto il fronte lavico.

L’eruzione andò a rallentare nei giorni successivi, fino a esaurirsi e fermarsi, il 23 marzo.

Restò una nera muraglia, altissima e minacciosa, una distesa immensa di sciara, ancora calda, sotto la quale erano rimasti sepolti per sempre 740 ettari di terreno, di case; da quella distesa si levò, dopo qualche mese, alle prime piogge, una densissima nebbia e un pungente odore di zolfo.

L’economia del paese era in ginocchio, eppure i randazzesi cominciarono a leccarsi le ferite, a ristabilire e delimitare le antiche proprietà, irriconoscibili ormai, a trasportarvi terra, senza attendere che il suolo ridiventasse fertile – si dice che, perché la sciara torni a produrre, ci vogliono 500 anni! – hanno dissodato, piantato, seminato, si sono riappropriati della loro terra, sottraendola alla lava, chiesero aiuti e sussidi, non sempre ottenendoli, per ricostruire, per tornare a vivere, perché il ciclo della vita deve continuare. A un anno da quei tragici eventi, sulla collinetta di S. Pietro fu posta una statua di S. Giuseppe, interamente sbozzata in pietra lavica (!) dallo scultore Gaetano Arrigo, una statua che sembra guardare dritto verso il vulcano. Sul basamento poche semplici parole:

Nei giorni della prova, come allora, proteggici”.

Venti anni sono passati, eppure da quel giorno i miei rapporti con l’Etna si sono incrinati, anche quelli dei miei concittadini, credo. Fino allora c’era stato un rapporto reciproco amore-odio, si era sempre creduto, o sperato, che a Muntagna, madre provvida e matrigna nefasta al tempo stesso, mai avrebbe fatto sul serio, che si sarebbe limitata tutt’al più a qualche scossa, un pennacchio, una fumata, una spolverata di ginisi ogni tanto, giusto per imbrattare i panni stesi e sporcare le vie, ma avrebbe mantenuto le colate sempre ad alta quota. Ora che il nostro termostato s’è alterato, da quel fatidico 17 marzo di venti anni fa, anche se l’abitato non fu provvidenzialmente colpito, ogni fenomeno eruttivo ci allarma, ed i nostri sonni non sono più tranquilli come un tempo.

Maristella Dilettoso
(Gazzettino di Giarre, n. 10 del 17 marzo 2001)

 

A 40 anni dall’evento, ti raccontiamo gli attimi di quella spettacolare e spaventosa eruzione dell’Etna che per giorni tenne tutti col fiato sospeso. Ecco per te, i racconti degli abitanti di Randazzo.

                                                          

 

                      Eruzione Etna marzo 1981: 40 anni dopo che “Idda” minacciò Randazzo                                                                           

 

Chi c’era lo sa cosa vuol dire restare impotenti davanti alla furia della nostra Etna; chi non c’era, come me e tutto lo staff di Tripnacria, può solo immaginarlo grazie a racconti da brivido.
Siamo sicuri che queste storie l’avrai sentite anche tu, ma noi vogliamo fartele raccontare da chi quei fatti li ha vissuti in prima linea, dai nostri genitori, zii, nonni e compaesani randazzesi.

Leggi un po’ questa storia!

17 marzo 1981

Una nuova alba dà colore al cielo di Randazzo. La primavera è alle porte e tutti gli abitanti si impegnano nelle loro faccende in una giornata qualunque di fine inverno, inconsapevoli di tutto ciò che sta per accadere.
La signora Concetta si alza presto al mattino, stende i panni e canticchia una canzone. Non inizia mai la giornata senza aver dato un’occhiata alla sua Etna, che da un po’ sembra volersi far notare.
“Si sa” – pensa fra sé e sé – “le donne amano essere al centro dell’attenzione di tanto in tanto!”
Rosaria, che abita a Passopisciaro, sta invece andando in stazione, deve prendere la littorina per andare a scuola a Randazzo. La scuola la odia proprio; ama invece il tragitto che la porta fino a lì. E come darle torto: l’Etna sullo sfondo e un trenino che corre lento attraversando vigneti e tanta vegetazione è un’immagine di sicuro più piacevole di una lezione incomprensibile di matematica!
Giuseppe, uomo devoto alla sua terra, va come ogni mattina al suo piccolo pezzo di terreno. La vigna e gli ulivi sono la sua vita. È impossibile per un uomo, ormai in pensione, starsene a casa con le mani in mano.

 

Eruzione Etna 1981 Randazzo, Eruzioni dell'Etna

                                                                             Eruzione Etna marzo1981- Randazzo


La campagna è il suo luogo d’evasione bucolica.
Ma qualcosa silenziosamente sta per abbattersi a pochi passi dal paese: l’Etna comincia ad avvertire tutti della sua incombente furia con tremori e scosse, inizialmente impercettibili agli abitanti.
Ore 11:30 circa. Ecco la prima scossa. Boati, tremori ed una cappa di fumo nero avvolge la montagna, ma questo non desta particolare preoccupazione: i randazzesi lo sanno che vivono sotto un vulcano e l’Etna non è mai stata un pericolo per loro. Qualcuno, però, presto inizia a provare strane sensazioni: i boati si intensificano e dei venti hanno cominciato a soffiare forte, come a presagire un terribile evento. Che succede?
Una folata di vento fortissima, verso le 12.30, scosse impetuosamente gli alberi e fece cadere tanti piccoli oggetti posati sui mobili.
Ore 13:37. Nancy viaggia sulla littorina di ritorno verso casa. Ma quel giorno il suo solito tragitto non è tranquillo come gli altri.

Andavo alle Magistrali e viaggiavo sulla Circumetnea. Ricordo il rombo dell’Etna che superava lo sferragliare del trenino e incuteva terrore.
Ore 18 circa. È adesso che la paura ha la meglio su tutti, quando l’eruzione vera e propria ha inizio. Si aprono bocche a 2.500 e a 1.900 metri e da quota 1.500 l’Etna sputa fuori un fiume di lava così fluido e veloce da ricoprire enormi distanze in pochissimo tempo. È inevitabile (ed anche comprensibile): i randazzesi si allarmano e alla paura si aggiungono panico e apprensione mentre girano le prime notizie.

Tra i boati cupi, incessanti, e quel bagliore rossastro nel cielo, cominciavano ad arrivare notizie concitate: “è ‘a Muntagna!”, “Si è aperta una bocca nuova, un’altra, un’altra ancora a quota 1200 m.”, “La lava scende velocissima, sembra un fiume rosso.”

 

                                                           La colata lavica raggiunge i terreni. Foto di repertorio dal web

Tutti scendono per le strade, ammirando – con spavento e meraviglia – l’essenza furiosa della loro Etna. Il sindaco e l’amministrazione iniziano a pensare ad uno sfollamento del paese.

     Ricordo il macigno sul cuore quando ci dissero che Randazzo doveva essere pronta all’evacuazione e che “a chiazza”, il salotto della mia cittadina, poteva sparire sotto il fiume incandescente della lava. Ricordo le mie lacrime e la grande fiducia di mio padre che mi ripeteva che la Madonna e San Giuseppe, in Paradiso, erano alla ricerca di Gesù per chiedere il suo intervento miracoloso. Ricordo il cielo fumoso e l’odore di zolfo sulle nostre teste e i militari dappertutto.

Montelaguardia è il primo centro abitato ad essere travolto dal terrore di una ipotetica distruzione, ma per un pelo è salvo. Una piccola montagnola, infatti, ha deviato il corso di lava verso il fiume Alcantara salvandolo. Molte ville, case di campagna e terreni tuttavia sono distrutti; solo pochissimi beni e costruzioni, frutto dei sacrifici di una vita intera, riescono ad essere salvati in tempo sulla SS 120.
La disperazione di chi sta perdendo tutto è immensa.
Mio zio, saputo della perdita del suo terreno con all’interno una bella casa, ebbe una febbre altissima per molti giorni e passò un periodo che somigliava alla depressione molto lungo.

 

La notte di certo non trascorre meno terribile del giorno. Qualcuno dalla paura non chiude occhio fino a quando non sorge il sole, pensando al peggio.
Fu una notte di paura, nessuno andò a dormire, si restò in piedi, sulle sedie, coi vestiti addosso, finché di prima mattina qualcuno accese la radio.
Il Giornale Radio diceva: “Randazzo, il paese che sta rischiando di venire sepolto dalla lava…” e qui le lacrime partirono da sole.

18 Marzo 1981

Ore 10:30 circa. Il giorno seguente, alle notizie di certo non rassicuranti dei media, un gruppo di fedeli si raccoglie in preghiera, ma proprio in questo momento una seconda colata lavica prende piede da 1150 metri, anche lei minacciando Randazzo e scorrendo verso la zona del Cimitero Comunale.
Randazzo è adesso in una morsa di fuoco dalla quale sembra impossibile scappare; la strada statale è già stata bloccata e con essa anche i binari della ferrovia circumetnea. Forze dell’ordine, vigili del fuoco e militari tutti si mobilitano per venire in soccorso; la gente impaurita non sa cosa fare né tanto meno dove rifugiarsi. Fortunatamente, la seconda colata è meno fluida e veloce della prima. Nel frattempo gli abitanti trovarono la forza ed il coraggio di andare a vedere con i propri occhi cosa sta accadendo.
Il 18 la vidi, la lava, in contrada Arena: si muoveva più lenta, con un rumore ferrigno, agghiacciante, era altissima ed emanava un forte odore di zolfo che mi fece pensare subito all’inferno.
Tra gli spettatori c’è anche qualche stolto che “regala” alla lava quello che non si è portata via di sua iniziativa.
Io andai a vedere la lava più da vicino con i miei genitori ed altri parenti: la lava rotolava e si sentiva una forte puzza di zolfo. I meno previdenti lasciarono l’auto parcheggiata lungo quello che sarebbe stato il percorso della lava; le macchine furono inevitabilmente travolte. Molta altra gente arrivò da fuori e ricordo che qualcuno intelligentemente venne ad arrostirsi la salsiccia sulla lava finendo in ospedale.

 

                                                                     La colata lavica presso Randazzo. Foto di repertorio dal web

19 Marzo 1981

Gli abitanti, sempre più impauriti, ricorrono ad una seconda preghiera. Portano in processione la statua di San Giuseppe, oggi santo patrono, per le vie del paese. Ad un tratto il cielo inizia a piovere nevischio ed una lieta notizia inizia a spargersi: la lava ha rallentato la sua corsa e si è quasi fermata a pochi passi dalle prime case del paese! Forse la natura, forse qualcosa di divino ha mandato questi candidi fiocchi di neve come a spegnere il fuoco altrimenti inarrestabile. E la gioia vince sul dramma.
Adesso la lava avanzava appena, in prossimità di case sulle quali nessuno allora avrebbe scommesso, mentre cadevano i fiocchi di neve… E il resto lo sappiamo tutti, ma confesso una cosa: da quel momento in poi il mio rapporto con la Montagna si è guastato, irrimediabilmente.

 

                                                                          Le case distrutte dalla colata lavica a Randazzo

 

Da quel giorno l’Etna non si è di certo fermata.
È un vulcano e come tale continua periodicamente a riempire i nostri occhi di stupore e meraviglia.

Quel che è sicuro è che il rapporto con Lei per molti degli abitanti è cambiato radicalmente: al sentimento di devozione si è aggiunto anche quello di timore e di rispetto, come verso ad una madre severa, ma giusta.
Nessuno ad oggi può dimenticare quegli attimi drammatici e inimmaginabili.

L’Etna intanto è ancora lì, austera e potente, con la sua cima che sembra sfiorare il cielo e la sciara nera ai suoi piedi.
Lei, che è inferno e paradiso insieme, che ha dimostrato ancora una volta a tutti gli uomini che la natura dona e toglie, che è benevola e tempestosa, che nella sua apparente contraddizione non smette mai di affascinarci.

Lei che in fondo si ama sempre e si odia talvolta, o meglio, si teme.

Noi di Tripnacria vogliamo ringraziare tutti gli abitanti di Randazzo che ci hanno raccontato sui social le memorie di quei terribili giorni, in giorni altrettanto difficili come quelli durante l’epidemia da Coronavirus.

Un grazie particolare ai miei genitori Rosaria e Antonio, alla mia zia lontana Silvana, a Nino, Nancy, Maristella, Rosa, Valeria, Antonio, Manuela, Enrico, Antonino, Concetta, Giuseppe e a tutti coloro che ci hanno regalato i loro racconti.

Chiara Proietto

La battaglia di Francavilla di Angelo Manitta a cura di Maristella Dilettoso

FRANCAVILLA DI SICILIA – Pomeriggio culturale a Francavilla di Sicilia con la presentazione di due pubblicazioni: “La Battaglia di Francavilla. La Quadruplice alleanza e la contesa della Sicilia” di Angelo Manitta e “Il consiglio di guerra di Francavilla di Sicilia dai resoconti di George Byng (28 – 29 giugno 1719)”, di Thomas Corbett, a cura di Angelo Manitta

 

Il 22 Agosto 2020  a Francavilla di Sicilia (ME), presso l’area esterna comunale “Il Giardino della Vita”, nel pieno rispetto delle norme e precauzioni anti Covid-19, sono stati presentati il volume di Angelo Manitta, La Battaglia di Francavilla. La Quadruplice alleanza e la contesa della Sicilia (Il Convivio Editore, 2020), e Il consiglio di guerra di Francavilla di Sicilia dai resoconti di George Byng (28 – 29 giugno 1719), di Thomas Corbett, a cura di Angelo Manitta (Il Convivio Editore 2020). L’incontro culturale è stato introdotto dallo storico francavillese Angelo Pirri, in qualità di moderatore, che dopo i saluti istituzionali del sindaco Vincenzo Pulizzi e del vicesindaco Gianfranco D’Aprile, ha ceduto il microfono all’autore, per un’ampia disamina della genesi dell’opera e dei fatti più salienti in essa descritti. A seguire sono intervenuti diversi storici e operatori culturali del territorio alcantarino, come Giuseppe Carmeni, Salvatore Maugeri, Antonino Portaro, Salvatore Rizzeri, Filippo Zullo, evidenziando ciascuno qualche aspetto particolare dei libri e della personalità dell’autore.

I due scritti, sebbene concepiti a tre secoli di distanza, sono strettamente correlati tra loro, in quanto vi si tratteggia uno scontro, sia bellico che diplomatico, tra le maggiori potenze europee agli inizi del XVIII secolo, che ebbe come scenario proprio il territorio di Francavilla, e Angelo Manitta, trattandone, è riuscito a descriverne tutti gli sviluppi, dando vita ad un’opera corposa e approfondita.

La Battaglia di Francavilla (20 giugno 1719), della quale nel 2019 si è commemorato il 300° anniversario, è uno degli scontri più importanti della Guerra di Sicilia (1718-1720).
La ricerca, basata sulle fonti delle varie parti coinvolte, austriache, spagnole, inglesi, piemontesi e francesi, indagando e consultando anche documenti inediti e rari, vuole far luce su un evento che ha deciso il predominio sul Mediterraneo, di cui la cittadina siciliana, ad una nuova lettura delle numerose testimonianze, appare un tassello più importante di quanto si è potuto credere finora.
Attraverso una dettagliata esposizione, si esaminano le cause che hanno spinto la Quadruplice Alleanza a scontrarsi con le forze spagnole proprio a Francavilla di Sicilia, e si ricostruiscono sia la dinamica dei fatti che la tattica militare, nel tentativo di capire le conseguenze e di contestualizzare le successive azioni all’interno del Mediterraneo.

Per quanto riguarda, invece, la seconda opera presentata, questo è il tema: dopo la Battaglia di Francavilla, il 28 e 29 giugno si svolge nell’accampamento, disposto a nord del paese alcantarino, un Consiglio di guerra, cui partecipano i principali protagonisti e alleati dell’armata, tra i quali il generale Florimondo di Mercy, gli ufficiali dell’esercito imperiale e l’ammiraglio George Byng (plenipotenziario nel Mediterraneo per l’Inghilterra), per discutere le modalità di prosecuzione del conflitto contro gli spagnoli.
Esaminati i motivi della sconfitta, vengono prese delle decisioni determinanti per il successivo svolgimento dell’azione militare. Molto probabilmente al consiglio dovette prendere parte anche l’autore del libro, Thomas Corbett, nella sua qualità di segretario personale dell’Ammiraglio Byng, che ne redasse un verbale.
Da qui parte appunto la ricerca di Angelo Manitta, che decide di rendere nota, e pubblicare, parte di tale verbale, riproponendo il testo inglese e la traduzione italiana, con ampi riferimenti ai documenti contemporanei.

      Maristella Dilettoso

(articolo pubblicato su “Il Convivio” n. 82, Luglio-Settembre 2020).

 

 

 Foto di Maristella Dilettoso

Maristella Dilettoso

 Maristella Dilettoso è nata e vive a Randazzo. Ha studiato a Randazzo, Bronte e Catania, dove ha conseguire la Laurea in Lettere Moderne nel 1976, discutendo la Tesi “Il fascino della distanza: due fiabe moderne presentate ai ragazzi”, relatore il Ch.mo Prof. Gino Corallo.

Dopo qualche breve esperienza di insegnamento, dal 1978 fino al 2011 ha diretto la Biblioteca civica della sua città. Tra i suoi interessi principali la pittura, la letteratura, il giornalismo, la storia e le tradizioni locali.

Nella pittura predilige il genere figurativo, i suoi soggetti sono paesaggi, nature morte, ma soprattutto angoli, monumenti e vie della sua città. Ha partecipato nel passato a diverse estemporanee e mostre collettive di pittura, aggiudicandosi un 1° posto (Maletto, 1980), ed altri riconoscimenti, ha tenuto una mostra personale a Bronte nel 1982; si è inoltre classificata al 1° posto nel Concorso indetto dal Comune di Maniace nel 1984 per il progetto dello stemma e del gonfalone.

 Ha redatto il testo della Guida turistica Randazzo città d’arte nel 1994, e, assieme ad altri, il testo della Guida alla Città di Randazzo nel 2002.
Ha pubblicato, assieme a don Cristoforo Bialowas, il volume Un beato che unisce : Randazzo e Montecerignone, nell’anno 2006, sulla vita e sul culto del beato Domenico Spadafora da Randazzo.
Nel 2008 ha pubblicato il volume Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze siciliane: un viaggio nell’universo randazzese. Per questa pubblicazione le è stato conferito nel 2008 il “Premio Bianca Lancia” nel corso delle manifestazioni di Medievalia a Brolo (ME), e nel 2009 il premio speciale della giuria per la sezione “Libro edito – Saggio”, nel concorso “Poesia, prosa e arti figurative 2009” indetto dall’Accademia Internazionale Il Convivio.

Maristella Dilettoso

Come giornalista ha firmato, fino ad ora, oltre 400 articoli, su argomenti vari: d’opinione, di cronaca, cultura, costumi e tradizioni, biografie, interviste, racconti, recensioni letterarie, collaborando a diverse testate, quali il Gazzettino di Giarre, Il Sette, il bollettino del Comune di Randazzo, Randazzo notizie, Famiglia domenicana (periodico dell’O.P.), il giornale della Diocesi di Acireale La Voce dell’Jonio (anche nella versione online, ed alla rivista Il Convivio, suoi scritti sono apparsi sul Giornale di Sicilia, La voce dell’isola, e su Prospettive.

È stata relatrice in alcune presentazioni di libri, conferenze e tavole rotonde, come una conferenza per la sezione l’Unitre di Randazzo sul tema “Le leggende di Randazzo” (2006) e una tavola rotonda su “Federico De Roberto a Randazzo” per l’Associazione RIS (2014), collabora occasionalmente con emittenti locali, ha fatto spesso parte di giurie in occasione di concorsi artistici e letterari.

Libro di Maristella Dilettoso

 

 

Produzione Letteraria

 Produzione artistica

 

 

Parlano di Maristella

Collana Etnografia

Titolo: Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze sicilane

Autore: Maristella Dilettoso  

Descrizione – Detti, sentenze, proverbi, storielle, modi di dire, aneddoti e usanze sicilane

«… si può con sicurezza affermare che la Dilettoso ha raccolto, illustrato e confrontato il mondo variegato delle tradizioni randazzesi da lasciare ben poco ad altri da spigolare nel vastissimo campo.
E pur avendo sottolineato nella sua introduzione di aver voluto circoscrivere il suo studio all’ambiente randazzese … e considerata una così grande importanza storica della città, questo ricco patrimonio culturale, regalatoci dall’ardua fatica della Dilettoso, non può restare circoscritto ad un ambiente delimitato al quale ha peraltro intrecciato una splendida corona, ma ha diritto di superare i ristretti confini geografici, di essere conosciuto, studiato e di far parte del prezioso tesoro delle tradizioni po­polari siciliane.
Di conseguenza, il volume merita di stare accanto alla produzione demologica dei grandi e meno grandi folkloristi dell’Isola, anche perché ricco di opportune annotazioni, con la finalità di agevolare l’intelligenza dei vocaboli e del senso della pregevole scelta dei proverbi.
E, inoltre, il volume mette in risalto una vasta erudizione, un’abilità non comune, una grande vivacità di fantasia, discernimen­to critico e un’arte singolare di descrivere della ricercatrice: proprio così, Mari­stel­la Dilettoso ha conservato uno dei più bei monumenti della nostra città e ha collocato un magnifico gioiello nel forziere nel quale vengono conser­vati i tesori della cultura popolare» (dalla Prefazione di Salvatore Agati).

L’Autore – Maristella Dilettoso

Maristella Dilettoso, nata a Randazzo nel 1951, laureata in Let­tere moderne all’Università  degli Studi di Catania, dopo brevi esperienze di insegnamento, dal 1978 dirige la Biblioteca comunale della sua città.
Si è occupata di pittura e disegno,  giornalista pubblicista, ha scritto articoli di cronaca, storia, arte, cultura locale, re­cen­sioni lette­rarie, collaborando a varie testate giornalistiche siciliane.
Ha pubblicato:
la Guida turistica ” Randazzo città d’arte” (1994), e con altri autori,
una Guida storico-turistica di Randazzo (2002) 
la monografia:  Un beato che unisce: Randazzo e Montecerignone (2006).

La battaglia di Francavilla di A Manitta a cura di M Dilettoso


 

Randazzo / La parrocchia di S. Martino vive l’Anno Giubilare del seicentesco “crocefisso della pioggia” |

La voce dell’Jonio  19 maggio 2016

“Crocifisso della pioggia” di S. Martino, – Randazzo

La Parrocchia di San Martino in Randazzo celebra quest’anno il 475° anniversario della presenza del Crocifisso del Matinati, con un Anno Giubilare straordinario indetto da Papa Francesco.
Le celebrazioni del Giubileo, che si sono aperte il 13 settembre e si concluderanno il 20 settembre 2015 con una grande festa in onore del Crocifisso, si articoleranno per un anno intero attraverso celebrazioni parrocchiali, pellegrinaggi, concessioni di indulgenze, nel corso delle varie ricorrenze e festività previste dall’anno liturgico.  

In apertura, la sera del sabato 13, per desiderio del parroco, padre Emanuele Nicotra, durante la Messa serale, è stato inaugurato un nuovo quadro, realizzato dall’artista Giuseppe Giuffrida e offerto alla chiesa di S. Martino da due parrocchiani che hanno preferito restare anonimi: l’opera si riferisce a un momento particolare dell’eruzione dell’Etna del marzo 1981 – quella che distrusse molte case e terreni del territorio di Randazzo, e minacciò seriamente l’abitato – e rappresenta S. Giuseppe, patrono della città, che intercede per la sua salvezza. La celebrazione  eucaristica è stata presieduta dall’arciprete Domenico Massimino, parroco del Duomo di Giarre.

Domenica 14 settembre, sempre in S. Martino, è stato inaugurato ufficialmente l’anno giubilare per i 475 anni dall’arrivo del Crocifisso a Randazzo con una messa celebrata dal vescovo della Diocesi di Acireale Mons. Antonino Raspanti, e la partecipazione di tutto il clero della città. Nel corso della celebrazione il Vescovo ha consacrato il nuovo altare.

Vale la pena di ricordare brevemente, a questo punto, la leggenda cui è legato il “Crocifisso della pioggia” di S. Martino, chiamato comunemente dai randazzesi ‘u Signuri ‘i l’acqua:  opera pregevole di uno dei Matinati, famiglia di “crocifissari” rinomata in tutta la Sicilia, probabilmente Giovanni Antonio,  è una scultura dallo stile contenuto e dalle armoniche proporzioni.
Vuole la tradizione che, in una sera di settembre del 1540, alcuni uomini trasportavano il Crocifisso verso un paese dell’interno, cui era destinato; giunti a Randazzo, o perché sorpresi da un acquazzone, o semplicemente per il sopraggiungere delle tenebre, chiesero ricovero per il simulacro nella chiesa di San Martino. 
All’indomani, venuto il momento di riprendere il viaggio, non appena giunti sulla porta della chiesa, un violento temporale li costrinse a rimandare la partenza, e così per tre giorni di seguito, finché, interpretando il prodigio come una manifesta volontà del Signore di rimanere a Randazzo, il clero della chiesa non ne  formalizzò l’acquisto.
L’immagine, ritenuta miracolosa, è stata ne corso dei secoli oggetto di grande venerazione da parte dei randazzesi, che in passato, durante i periodi di siccità e carestia, si rivolgevano a lei per impetrare la pioggia, con digiuni, preghiere e processioni.

Maristella Dilettoso

 

Randazzo / Riconoscimento filiale per mons. Mancini. A dieci anni dalla morte, il Comune gli dedica una piazza.

 

Lo scorso 29 aprile 2016 , giorno del 10° anniversario della scomparsa di mons. Vincenzo Mancini,  la città di Randazzo ha voluto dedicargli una piazza con una cerimonia che ha visto la partecipazione di autorità religiose, civili, militari, parrocchiani e numerosi altri cittadini.
Mons. Vincenzo Mancini era nato a Randazzo il 26 agosto 1921. Seguendo una vocazione manifestatasi fin dall’infanzia, ricevette l’Ordine Sacro il 4 marzo 1944, dopo gli studi compiuti presso il Seminario vescovile di Acireale.
Erano gli anni tristi della guerra (solo pochi mesi prima il fratello maggiore, Alessandro, era perito in mare durante l’affondamento della corazzata Roma), Randazzo non si era ancora completamente destata dall’incubo dei bombardamenti e dell’invasione, dovunque vi erano macerie, lutti, fame e distruzione, e il clero dovette molto impegnarsi a dare assistenza e sostegno.
Fin dall’inizio del suo ministero, il neo sacerdote fu assegnato alla Basilica di S. Maria, e da allora la sua vita è rimasta legata strettamente, inscindibilmente, a questa chiesa, uno splendido tempio che affonda le sue origini nella leggenda, che si è arricchito nei secoli di tante opere d’arte, grazie anche al mecenatismo degli arcipreti che vi si sono succeduti, che ha accolto la comunità randazzese nei momenti più luminosi come in quelli più bui, superando, magnifica e indenne, terremoti, eruzioni e guerre.
Di questa chiesa mons. Vincenzo Mancini è stato, per ben 62 anni, custode e guida, dal 1° dicembre 1966, quando ne divenne arciprete e parroco, succedendo a mons. Giovanni Birelli.
La successiva nomina di vicario foraneo, da parte del vescovo di Acireale, gli conferiva un ruolo pastorale, oltre che giuridico e amministrativo, che si estendeva ben oltre i confini della parrocchia e della città di Randazzo, comprendendo anche Linguaglossa e Castiglione di Sicilia, ruolo di grande importanza, che lo promuoveva tra i più vicini collaboratori del vescovo, e che mons. Mancini ha svolto sempre con grande dignità e competenza, grazie a quella prudenza e innata saggezza, diplomazia, capacità di mediazione e autorevolezza, che lo hanno sempre contraddistinto.
Il suo impegno non restò circoscritto all’attività parrocchiale, ma si era esteso anche al mondo della scuola, con l’insegnamento presso il liceo classico “Don Cavina”, e all’assistenza agli anziani, perseguita e realizzata particolarmente attraverso la casa di riposo “Paolo Vagliasindi del Castello”.
L’istituzione, fondata nel 1929, e in un primo tempo aggregata all’ospedale civile, dal 1964 collocata in una struttura autonoma e dignitosa, lo ebbe nel 1956 commissario prefettizio, e dopo alcuni mesi presidente, carica, questa, che padre Mancini ricoprì, salvo brevi interruzioni, fino alla fine, e nella quale investì energie e impegno, promuovendo ampliamenti e ristrutturazioni dell’edificio, al fine di assicurare una vecchiaia e un’assistenza dignitosa e adeguata a tanti anziani di Randazzo e del circondario. Rimase attivo e presente nella vita parrocchiale, anche quando il fardello dell’età e degli acciacchi aveva cominciato a rallentare il suo passo, e nonostante il peso dei gravi lutti familiari che gli era toccato di affrontare negli ultimi anni. Si spense a 84 anni, il 29 aprile 2006.

L’Amministrazione comunale di Randazzo, considerato lo spessore del sacerdote e dell’uomo, e quanto mons. Mancini sia stato, nel corso del suo lungo mandato, un punto di riferimento, per tanti giovani, adesso cresciuti, per tanti anziani, per il clero locale, per la comunità parrocchiale e per la città tutta di Randazzo, con deliberazione di Giunta. n. 19 del 19.02.2016, stabiliva di dedicargli un’area cittadina.
La manifestazione del 29 aprile scorso, iniziata con una concelebrazione nella Basilica di S. Maria, presieduta dal vescovo della Diocesi di Acireale, mons. Antonino Raspanti, con la partecipazione dell’arciprete don Domenico Massimino e degli esponenti del clero di Randazzo, è proseguita con l’intitolazione dello spiazzo antistante il lato nord della chiesa e la sacrestia (‘a Tribonia), che si affaccia sul fiume Alcantara, e che da oggi, a ricordo di chi in quei luoghi ha operato per lunghi anni, si chiamerà “Largo mons. Vincenzo Mancini”.

 | La Voce dell’Jonio 4 maggio 2016 – Maristella Dilettoso 

 

la chiesa nera
Recensito 23 maggio 2016

La basilica di Santa Maria è la più famosa di Randazzo, e ha sempre costituito un’attrazione per turisti e visitatori. Interamente costruita in pietra lavica, la sua origine si perde nella leggenda. L’edificio, per come lo vediamo oggi, è il risutato di diverse fasi costruttive, fuse armonicamente. La parte absidale, la più antica, risale al XIII secolo.
All’esterno la costruzione è realizzata in blocchi squadrati di nero basalto, che non lasciano intravedere la malta tra le connessure. Oltre alle tre absidi merlate, dove si può vedere lo stemma di Randazzo, il leone rampante su uno scudo di marmo bianco, molto interessanti i due portali della facciata nord e sud, il campanile neogotico, costruito al centro della facciata nella seconda metà del XIX sec. sullo schema di quello originario, con tre ordini di finestre bifore e trifore, che alterna pietre bianche e nere, crendo con la sua bicromia un insieme artistico armonioso e suggestivo.
All’interno, una fuga di colonne in pietra lavica, alcune delle quali monolitiche, numerosi dipinti e oggetti preziosi.
Ricordiamo la Madonna di Pietro Vanni (1886) sull’altare maggiore, l’affresco con la Madonna del Pileri, sulla porta nord, legato alle leggendarie origini della chiesa, 6 tele del palermitno Giuseppe Velasco (sec. XIX), tra cui spiccano un’Annunciazione e il Martirio di S. Andrea, la Crocifissione del fiammingo Van Houmbracken (sec. XVII), la tavoletta di Girolamo Alibrandi sec. XVI) con La Madonna che salva Randazzo dalla lava, il Martirio di S. Lorenzo e di S. Agata, entrambi di Onofrio Gabrieli e il Martirio di S. Sebastiano di Daniele Monteleone, tutti del sec. XVII, la Pentecoste (sec. XVI), la tavola di Giovanni Caniglia (1548) cui s’ispira la Vara, il Battesimo di Gesù del randazzese F. Paolo Finocchiaro (1894), e un Crocifisso scolpito da frate Umile da Petralia.

 

 

 Articoli di Maristella

Fra Antonino Pintabona – Vittima del Coronavirus

 

Coronavirus e vittime / I Camilliani e Randazzo piangono fra’ Pintabona: animo semplice innamorato dei sofferenti 

Si è spento a Cremona, lo scorso 7 aprile, per Coronavirus, il frate camilliano Antonino Pintabona, di 72 anni.
Era nato il 24 novembre 1947 a Randazzo (CT), da Giuseppe e Maria Cariola, secondo di otto figli.  Frequentate le scuole dell’obbligo, in età giovanile prende contatto coi figli di san Camillo (Randazzo appartiene alla Diocesi di Acireale, dove sono presenti e operano i Ministri degli Infermi) e fa il suo ingresso nella formazione in Provincia Siculo Napoletana.
La sua base scolastica gli permette di ottenere il solo titolo di infermiere generico, che gli è sufficiente per espletare la sua vocazione, quella dell’assistenza agli ammalati. Dopo il noviziato, è fra i primi camilliani – col responsabile P. Cisternino – ad aprire la missione africana del Benin, dove trascorre il periodo della professione temporanea dei voti, rinnovati per diversi anni. Dopo il trasferimento alla Provincia Lombardo Veneta, riprende ex novo tutto il percorso formativo, con umiltà e impegno.
Il 20 settembre 1981 inizia come postulante nella Comunità della Casa di Cura S. Camillo di Cremona, dove, salvo brevi interruzioni, resterà per 30 anni,
Nel 1983 entra in noviziato a Capriate S. Gervasio (BG), sotto la guida del maestro P. Lucio Albertini, e nel 1984 fa la professione religiosa dei voti temporanei, da rinnovarsi anno per anno, e viene inserito nella comunità di Predappio (FC) dove sono assistiti ex degenti degli Istituti psichiatrici. Finalmente, il 18 dicembre 1988 con la professione perpetua, entra definitivamente nell’Ordine come fratello laico.
Nel 1996, è trasferito alla Casa di Cura S. Camillo di Cremona: qui gli è affidato l’incarico, per lui gratificante, di prendersi cura della cappella e di seguirne le funzioni, nel luogo che custodisce le spoglie del Beato Enrico Rebuschini, camilliano, molto amato dalla cittadinanza, e del quale Fratel Antonino era particolarmente devoto.
Tornava in Sicilia per brevi periodi, durante le vacanze estive, per fermarsi nella natìa Randazzo, vi frequentava assiduamente la Basilica di S. Maria offrendo la propria collaborazione, senza tralasciare di recarsi ad Acireale, dai Frati Camilliani, dov’era avvenuta la sua prima formazione.
Ma l’epidemia del coronavirus, che si propaga proprio nel cremonese, investe la casa di cura S. Camillo, Frate Antonino non ne è stato risparmiato e agli inizi di marzo è ricoverato in reparto per una polmonite; il peggioramento non previsto lo porta alla morte la mattina del 7 aprile, assistito dai confratelli.  Sarà la seconda vittima tra il personale della Casa di Cura, dopo il dottor Leonardo Marchi, medico infettivologo e direttore sanitario.
Il religioso era conosciuto e amato da molte persone per il suo carattere aperto e spontaneo, i confratelli lo ricordano per i suoi modi diretti e scherzosi, come anima dei momenti conviviali in comunità, fiero delle proprie origini siciliane, sempre generoso e concreto nell’assistenza agli anziani e ai malati.
Quella di Frate Antonino è stata, certamente, una fede lineare e immediata, aliena dalle profonde disquisizioni teologiche, attenta piuttosto a quelle forme devozionali più semplici (il culto dei santi, le immaginette, che, pare, collezionasse con passione) ma dedita, soprattutto, all’amore e alla carità verso il prossimo, che aveva concretizzato, per lunghi anni, nella cura e nell’assistenza ai malati e ai sofferenti.

Maristella Dilettoso .

Don Calogero Virzì- Salesiano

 DON SALVATORE CALOGERO VIRZI’ (1910 – 1986)

Il Salesiano don Salvatore Calogero Virzì, una tra le figure di più alta levatura nel panorama della cultura siciliana del XX secolo, per Randazzo e per tanti randazzesi è stato molto di più, un pioniere, una guida, uno stimolo, colui che ha acceso in loro il gusto, spesso sopito, della conoscenza e dell’amore verso il proprio paese.

Maristella Dilettoso – Randazzo

Don Calogero Virzì – Randazzo

Nato a Cesarò (ME) l’11 gennaio 1910, compì i primi studi nel paese natale, per frequentare poi il Ginnasio all’Istituto S. Francesco di Sales di Catania. Nel 1925 entrò nella Congregazione dei figli di Don Bosco, fu poi al S. Gregorio di Catania, all’Istituto D. Bosco di Palermo, come assistente dei convittori, e quindi al S. Domenico Savio di Messina, dove, nel 1934, fu ordinato sacerdote.Tornato a Catania, al S. Francesco di Sales, frequentò l’Università e nel 1937 conseguì la Laurea in Lettere Classiche presso l’Ateneo Catanese.
Quello stesso anno fu trasferito a Randazzo, all’Istituto S. Basilio.
E fu amore a prima vista, verso la cittadina piena allora, ad ogni passo, delle vestigia dell’arte del passato, inalterata nel suo assetto medievale, ma fu anche di breve durata: di lì a poco, nel 1943, in un solo, terribile mese di fuoco, dal 13 luglio al 13 agosto, quasi l’80% di quell’ingente patrimonio artistico sarebbe finito in un cumulo di macerie e di fumo.
Nell’introduzione al bellissimo volume sulla Chiesa di S. Maria (1984) “espressione di attaccamento a quella città che mi ospita da 40 e più anni, e di amore a questo suo monumento d’arte”, don Virzì ricorda: “venendo a Randazzo mi trovai in un ambiente consono al mio spirito… fu un dolce sogno per me… che purtroppo ben poco avrebbe potuto durare. Ho perduto…tutto, rimanendo con solo ciò che avevo addosso e col rimpianto della distruzione di tutto quello che era stato il sogno più bello della mia vita… Ed io, pellegrino doloroso, mi immersi in mezzo a questa rovina, cercando il passaggio tra i mucchi di macerie…ma ogni cosa gridava il suo dolore e il suo strazio”.
Trascorso quel primo, drammatico momento, in cui il sacerdote prestò la sua opera di soccorso, ad una popolazione troppo duramente provata, don Virzì avrebbe voluto salvaguardare il centro storico da interventi tempestivi quanto inopportuni, infatti l’urgenza di ricostruire, di ridare una casa ai troppi senza tetto, finì per arrecare danni irreversibili ai monumenti e agli edifici superstiti.
Di fatto, prevalsero allora le esigenze più concrete, e non possiamo oggi emettere verdetti col senno di poi, tanto più che, per farlo obiettivamente, dovremmo avere innanzi il quadro desolante che si ritrovarono i cittadini all’indomani dei bombardamenti, rivivere il loro stato d’animo, il dolore, la miseria, la fretta di riavere un tetto…
In un clima così poco adatto, per motivi storici e contingenti, a far sviluppare una lungimirante e scientifica cultura del restauro, a don Virzì non rimaneva che vigilare affinché, nell’ansia della ricostruzione, il patrimonio artistico di Randazzo non ne fosse stravolto.

Al Collegio S. Basilio, dove fino a qualche decennio fa confluirono giovani provenienti da ogni parte della Sicilia, ricoprì, per moltissimi anni, il ruolo di docente nel biennio del Ginnasio, conferendo all’insegnamento impartito un’impronta indelebile.
Da seguace di don Bosco, infatti, nutrì sempre un’attenzione particolare verso i giovani, indirizzandoli ai valori della bellezza e dell’immortalità. I suoi allievi d’un tempo, sparsi per ogni versante della Sicilia, ne serbano tuttora un ricordo riverente e affettuoso.
Non soltanto uno studioso, ma anche un grande educatore, nel senso più lato del termine: fu proprio attraverso la scuola che riuscì a instillare nei giovani l’amore e la conoscenza del proprio paese.
Sempre al S. Basilio fu, fino all’anno della morte, direttore e curatore della pregevole Biblioteca del Collegio.

Quando, nel 1971, venne istituito il Liceo Statale a Randazzo, fu chiamato a ricoprirvi il ruolo di docente di Storia dell’Arte.
Conferenziere, professore, studioso, don Virzì ebbe nella comunità randazzese un ruolo culturale attivissimo, che proiettò anche all’esterno: fu socio fondatore e membro combattivo della Pro Loco, dell’Associazione di Storia Patria Vecchia Randazzo, e della sua filiazione Arte S. Bartolomeo, Ispettore Onorario della Soprintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, Istruttore in corsi per guide turistiche, Consulente esterno nella Commissione igienico-edilizia comunale, in qualità di esperto, senza tralasciare per questo l’impegno scolastico e sacerdotale. Fu assistente spirituale degli ex-allievi del S. Basilio, e gli si attribuivano doti di eccellente confessore.


Nel 1979 gli era stata conferita dal Comune di Randazzo, dall’allora sindaco Francesco Rubbino, la Cittadinanza Onoraria, atto questo che veniva a sancire, formalmente, quella che era già una realtà sostanziale, perché don Virzì era, di fatto, profondamente inserito nel tessuto sociale randazzese, ne aveva assimilato la cultura e il sentire, coltivava amicizie tanto nell’ambiente ecclesiastico che in quello laico.
Per l’occasione fu pubblicato il volume bio-bibliografico “Una vita dedicata a Randazzo: Salvatore Calogero Virzì e le sue opere”, curato dal prof. Salvatore Agati.

Quanto don Virzì avesse apprezzato, e forse atteso negli anni, quel gesto, lo comprendemmo tempo dopo, entrando nel suo studio, al Collegio S. Basilio, una cameretta stipata fino all’inverosimile di carte, documenti, scaffali traboccanti di libri, pareti tappezzate di stampe, cimeli artistici e riconoscimenti, dove campeggiava la pergamena consegnatagli nel 1979 per il conferimento della cittadinanza onoraria.
Nel 1984 la stessa comunità randazzese si riunì numerosa per celebrare, nella basilica di S. Maria, alla presenza del Vescovo Mons. Malandrino, il 50° dalla sua ordinazione sacerdotale.

Morì in silenzio e improvvisamente, il 21 novembre 1986

. A un anno dalla scomparsa, gli fu intitolata la Biblioteca Comunale di Randazzo, quasi a voler rappresentare l’attualità e la continuità del suo messaggio culturale anche tra le generazioni future. Per l’occasione nell’atrio dell’edificio fu collocato un suo busto in bronzo, realizzato dallo scultore Nunzio Trazzera.
Dalla mole degli scritti di don Virzì – molti dei quali non ebbero, pur meritandola, la sorte di essere dati alle stampe – promana serietà, impegno, dedizione, entusiasmo ed amore per la ricerca ed il sapere, quali traspaiono forse solo dalle pagine di un altro illustre studioso e cultore del bello, il suo amico e sodàle professore Enzo Maganuco, meritevole anch’egli di avere fatto conoscere ed apprezzare l’arte randazzese.
Quegli scritti sempre attuali, letti, consultati, citati continuamente, costituiscono una pietra miliare per chiunque si accosti alla conoscenza di Randazzo, e il fatto che il suo messaggio cresca e perduri nel tempo, l’avrebbe reso certamente felice e consapevole di non avere lavorato invano.
“Apostolo all’interno e all’esterno di Randazzo affinché la città possa di nuovo assurgere alla dignità che le compete” fu definito don Virzì, e anche se un giorno dovessero venire alla luce nuove fonti, nuove scoperte atte a mettere in chiaro i tanti punti oscuri del passato di Randazzo, nessuno potrà mai rifiutarsi di riconoscergli obiettività di storico, equilibrio, cautela nell’esaminare e vagliare le notizie, nel porre le fonti nella giusta luce, nel non emettere mai giudizi o conclusioni che non fossero suffragati da riscontri certi e incontrovertibili.
“A lui vada il pensiero delle nuove generazioni, aperto finalmente a questi problemi. Vada la riconoscenza di tutti i suoi abitanti che, in questo fortunato risveglio ai valori più apprezzabili della nostra cittadina, è giusto che esternino il loro riconoscimento verso coloro che operarono, apprezzarono e fecero apprezzare ciò che di bello e singolare i padri ci hanno tramandato”. Con queste parole don Virzì chiudeva un articolo dedicato al professore Maganuco. Eppure, profeticamente, erano parole che si potrebbero applicare alla sua persona!,

Il giudice Sebastiano Virzì fratello di Don Virzì.

Certo, nella sua azione di “nume tutelare” del patrimonio storico-artistico di Randazzo, don Salvatore Calogero Virzì dovette imbattersi in non poche incomprensioni, del resto un certo tipo di edilizia che andò diffondendosi, spesso spregiudicatamente, dagli anni ’60 in poi, come poteva conciliarsi con la patina che il tempo aveva impresso sulla pietra lavica, con quella visione di austera bellezza di una Randazzo anteguerra, che gli era rimasta impressa negli occhi e nel cuore?
“La creatività avvalorata dall’amore del soggetto è sempre prolifica…” ebbe a dire, in una sua pagina che ci è particolarmente cara, e, considerando la mole dei suoi scritti, se ne deduce un grande amore verso Randazzo, suo paese d’adozione, ch’egli, da forestiero, riuscì ad amare come fosse stato la sua patria, e che auspicava “semper virens, semper accrescens, semper vigens” (sempre rigogliosa, sempre in crescita, sempre piena di vita), come recita l’iscrizione sul basamento del Piracmone.
Randazzo con la sua storia affascinante di re e regine, Randazzo nei suoi monumenti muti, di nera lava, cui egli seppe infondere voce, Randazzo nelle sue tradizioni cristallizzate da secoli, nelle sue ataviche rivalità dei tre quartieri in lotta, Randazzo nella sua gente di ogni estrazione sociale, dei pochi acculturati del tempo, che gli dispiegavano innanzi i vecchi libri ed i tesori d’arte custoditi nei palazzi, delle vecchiette, dei poeti estemporanei, dei monelli, dalla cui viva voce apprendeva, per tesaurizzarli, vecchi scioglilingua, proverbi, scongiuri e preghiere…
Randazzo, infine, lacerata, bombardata 84 volte, in quell’estate del 1943, prostrata davanti alle proprie macerie e davanti ai propri morti. Ma, da quel terribile momento, molte cose si sono evolute.

Don Calogero Virzì, Don De Luca, Francesco Rubbino, Giuseppe Montera

Il patrimonio perduto non si può più riacquistare, tanti recuperi e restauri non furono curati con lo scrupolo dovuto, è vero, ma don Virzì ha seminato bene, e se oggi c’è un maggiore rispetto ed interesse verso i beni artistici e monumentali, è soprattutto merito suo, di quest’uomo dalla grande vitalità, dalla grande fermezza, e dall’immensa cultura, che, nulla togliendo ai suoi meriti di sacerdote e di professore, riuscì a risvegliare nei cittadini randazzesi il culto e l’interesse per il proprio patrimonio artistico e per le proprie radici, di averli fatti conoscere un po’ meglio, di avere gettato il seme dell’amore per la propria terra nelle nuove generazioni.

Gli scritti di Don Virzì
Oltre a numerosissimi articoli su periodici locali e nazionali (La Sicilia, il bollettino del Comune Randazzo Notizie , ecc. ) molti furono gli scritti lasciati, editi e inediti:
– Memorie storiche del Collegio S. Basilio di Randazzo (inedito, 1953)
– Randazzo e le sue opere d’arte (dattiloscritto inedito del 1956),
– Paesi di Sicilia: Randazzo (Palermo: IBIS, 1965).
Su Memorie e rendiconti dell’Accademia Zelantea di Acireale ha pubblicato:
– Il regio Castello di Randazzo (1968),
– Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto 1860 in Randazzo (1968),
– Randazzo 1848 (1980).
E ancora:
– Storia della Città di Randazzo (1972), manuale divulgativo per le scuole,
– Breve guida attraverso i monumenti artistici della città di Randazzo…(1973),  – Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi (inedito, 1960),
– La Chiesa di S. Maria, su Historica (Reggio Calabria, 1971).
Ha dato inoltre alle stampe le guide illustrate:
– Alcantara (1975),
– Etna (1978),
– Taormina (1979),
– Cesarò.
Per il 21° Distretto scolastico ha collaborato a
– Un itinerario etneo (1983),
– Storia, Arte e folklore in Randazzo, Castiglione e Linguaglossa (1985), e curato
– Randazzo nei suoi costumi (1986),
– Randazzo e le sue opere d’arte, 2 v. usciti postumi (1987/89).
Ricordiamo ancora:
– I cento anni del Collegio S.Basilio (1979),
– La Chiesa di S. Maria edito dal Comune di Randazzo (1984),
– Il Castello della Ducea di Maniace, pubblicato postumo nel 1992.

Maristella Dilettoso 

                                                     ———————————————————————————————————————

                               La “Batiazza” di Francavilla tra fede, storia e leggenda pubblicato il 06 ottobre 2015 

 

Salvatore Ferruccio Puglisi e Don Virzì

   Sarà il tema dell’originale pubblicazione, di imminente uscita, “Il Salto di San Crimo”, nella quale l’autore Salvatore Ferruccio Puglisi raccoglie gli approfonditi studi rimasti inediti di Don Salvatore Virzì sul monastero basiliano e sul suo fondatore Cremete. Partendo dal… Giro d’Italia del 1954, una cui tappa attraversò il Comune dell’Alcantara.

   Seconda incursione nella narrativa per Salvatore Ferruccio Puglisi, insegnante nativo di Francavilla di Sicilia, ma residente in Veneto per lavoro: ambientalista (è stato fondatore e presidente della sezione francavillese di “Italia Nostra”), naturalista, appassionato di fotografia, autore di documentari in diapositive, campione di corsa podistica e da alcuni anni anche scrittore. Puglisi aveva già avuto a che fare con l’editoria, inizialmente dando alle stampe delle pubblicazioni riguardanti rispettivamente la flora spontanea e le testimonianze preistoriche nel territorio della Valle dell’Alcantara per poi, cinque anni fa, cimentarsi nel genere del romanzo con “Gli zucchini di Loto”. Adesso è lui stesso a preannunciarci l’imminente uscita del suo secondo lavoro letterario, dove gli aspetti autobiografici si innestano nella ricerca storica.

   “Il Salto di San Crimo” sarà il titolo della nuova opera di Puglisi, interamente incentrata sul “leggendario” monastero basiliano comunemente denominato “Batiazza” (ossia “grande abbazia”) i cui ruderi (parti di pareti perimetrali, alcune strutture ad arco attestanti l’esistenza di un opificio per la vinificazione, una grande aia inamovibile, una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, qualche tomba rupestre e tanti mucchi di macerie indistinte) svettano sulla sommità di un’altura dalla strana forma cilindrica e con pareti a strapiombo ubicata nel territorio del Comune natio dell’autore, ossia Francavilla, a meno di quattro chilometri dal centro abitato nelle adiacenze della strada che conduce a Mojo Alcantara e Novara di Sicilia.

Per quanto ci riguarda, abbiamo avuto il privilegio di leggere in anteprima il prologo di Salvatore Ferruccio Puglisi a tale suo scritto e ci ha già incuriosito l’originale approccio dell’autore alla tematica trattata: fatti e personaggi “austeri” dell’età medievale vengono, infatti, introdotti dal nostalgico “amarcord” di un evento per così dire “effimero”, ossia il passaggio da Francavilla della… seconda tappa del Giro d’Italia nella memorabile giornata del 22 maggio 1954, quando il Puglisi era ancora un fanciullino di sei anni.  L’autore attinge, dunque, alla suggestiva tecnica del “flashback”, spesso impiegata nel cinema e consistente nel partire da situazioni contemporanee per poi proiettarsi a ritroso nel tempo.

   Nel caso di specie, a fare da “ponte” tra passato recente e passato remoto è proprio quello “storico” pomeriggio del ’54, quando ai francavillesi festanti per il passaggio dal proprio paese della popolarissima competizione ciclistica nazionale si contrapponeva contemporaneamente l’esperienza parallela, ma profondamente diversa, di un intellettuale che in quello stesso giorno decideva di recarsi, in tutta solitudine, in escursione alla volta della maestosa rocca della “Batiazza” per tentare di carpirne i misteri, ma finendo col rimanere piuttosto infastidito dalla chiassosa e strombazzante carovana del Giro che, prima di addentrarsi nel centro abitato di Francavilla, transitò ai piedi dell’altura su cui a tutt’oggi si ergono i resti dell’antico cenobio.

   Lo studioso in questione altri non era che l’illustre sacerdote salesiano Don Salvatore Calogero Virzì, docente di materie letterarie al Collegio “San Basilio” di Randazzo, con il quale Salvatore Ferruccio Puglisi si sarebbe incontrato otto anni dopo essendone stato allievo in quinta ginnasiale presso il collegio del Comune etneo, che a sua volta, prima che nel 1867 gli ordini religiosi venissero soppressi, aveva fatto da nuova sede dei monaci basiliani, probabilmente trasferitisi dalla “Batiazza” perché andata in rovina (anche a seguito del disastroso terremoto verificatosi sul finire del XVII secolo) o a causa del clima rigido e delle avversità atmosferiche che, durante i mesi autunnali ed invernali, rendevano pressoché invivibile quel particolare lembo sopraelevato di territorio francavillese.

   «Il compianto Don Virzì – spiega Salvatore Ferruccio Puglisiha condotto un’accurata ricerca sul monachesimo basiliano e su San Cremete, fondatore e primo abate dell’eremo di Francavilla, intitolato a San Salvatore della Placa. Al sottoscritto e ad altri allievi che venivamo dal Comune dell’Alcantara, amava parlarci spesso di Cremete.

   «Ci raccontava, in particolare, che “nella seconda metà del secolo XI, sui monti di Placa viveva questo santo eremita, attorniato da vari animali selvatici che lui era riuscito ad addomesticare. Un giorno, accompagnato dalle sue docili bestie, si presentò al Conte Ruggero, che con il suo esercito si recava a Troina per combattere contro i Mori, il quale rimase affascinato dalla figura di quel mistico. Così, salito con lui sulla sommità della rocca, gli concesse di erigere in quel posto un monastero di cui Cremete diventò l’abate ed il superiore degli altri suoi confratelli.

   «Ma un giorno alcuni monaci non vollero più ubbidire alla sua regola basiliana e pensarono di liberarsi di lui buttandolo giù dalla rocca. Ciò malgrado, Cremete sarebbe rimasto miracolosamente illeso (morì poi il 6 agosto del 1116) e, da quel momento, cominciò ad essere considerato un santo”.

   «Da qui – prosegue l’autore – il titolo di questo mio nuovo scritto (“

Collegio San Basilio – Randazzo

Il Salto di San Crimo”), che peraltro è un’espressione già usata da Antonio Filoteo degli Omodei, storico di Castiglione di Sicilia del 1500.

   «Purtroppo Don Virzì, deceduto nel 1986 all’età di settantasei anni, non fece in tempo a pubblicare questo suo studio su San Cremete ed i basiliani, di cui resta solo una semplice bozza dattiloscritta. Mi sono quindi prodigato per avere una copia di essa e, con mia grandissima sorpresa, in quei fogli ho rinvenuto anche un intero paragrafo dedicato alla descrizione della visita fatta dal religioso ai ruderi del monastero il 22 maggio del 1954 quando io, ancora scolaretto di prima elementare, ero invece tutto preso, così come l’intera popolazione francavillese, dal passaggio del Giro d’Italia.

   «“Il Salto di San Crimo” l’ho dunque articolato in due parti: la prima riguarda il mio personale ricordo di quel pezzo di storia sportiva nazionale transitata da Francavilla, mentre nella seconda ho integralmente riportato quanto scritto dal prete salesiano su quella stessa giornata, da lui vissuta in un contesto totalmente diverso da quello di noi “gente comune”».

   Mentre oggi Salvatore Ferruccio Puglisi si occupa della “Batiazza” di Francavilla dal punto di vista storico-letterario, in passato se ne è occupato da ambientalista per denunciare, in particolare, l’inopportuna installazione di freddi ed antiestetici tralicci dell’alta tensione nelle immediate adiacenze di quell’angolo di antichità.

   Tornando a “Il Salto di San Crimo”, sarà questa la seconda pubblicazione interamente dedicata all’anacoreta francavillese ed alla sua “Batiazza”. Nel 2004, infatti, lo scultore Mario Restifo, anche lui originario della cittadina dell’Alcantara, si cimentò nella narrativa con il romanzo “Il Nido dell’Aquila”, ispirato alle vicende mistico-leggendarie di San Cremete, i cui resti del capo sono conservati in un reliquario di bronzo dorato ed argento custodito nella basilica di Santa Maria a Randazzo.

Rodolfo Amodeo

 

UNA VITA DEDICATA A RANDAZZO  di Salvatore Agati 

Salvatore Agati – Randazzo

Intorno alle ore 20:00 di venerdì 21 novembre si spegneva, sicuramente senza neppure accorgersene, al San Basilio di Randazzo, la casa salesiana più antica di Sicilia, il sacerdote professore Salvatore Calogero Virzì, dopo una vita interamente dedicata alla sua missione sacerdotale, alla cura dei giovani e al loro insegnamento, allo studio e alla ricerca storico storico-artistica.
E tutto questo egli seppe portare avanti con scrupolo, competenza e modestia, cosa oltremodo difficile da riscontrare nei tempi che viviamo.

Il nostro era nato a Cesarò, un paesino sui Nebrodi in provincia di Messina, da famiglia onesta e laboriosa, l’undici gennaio del 1910. Dopo avere ricevuto i primi insegnamenti nel luogo natio, lasciava la casa Paterna per frequentare le scuole ginnasiali al San Francesco di Sales di Catania.
A contatto con i Padri Salesiani coltivò e seguì la sua vocazione che lo avrebbero portato ad entrare definitivamente nella congregazione dei figli di Don Bosco nell’anno 1925.


Lo troviamo, subito dopo, a San Gregorio di Catania poi al San Paolo di Palermo e successivamente al San Domenico Savio di Messina dove, nel 1934, riceveva gli ordini sacerdotali.

Il giovane sacerdote, nello stesso anno dell’ordinazione, ritornava ancora a San Francesco di Sales di Catania. Ed era nell’Ateneo di questa città che aveva modo di continuare i suoi studi alla Facoltà di Lettere Classiche. Appena conseguita la laurea, era il 1937, veniva trasferito a Randazzo, l’antica cittadina che tanto lustro aveva avuto nel Medioevo, dove avrebbe avuto modo di rafforzare non solo le sue attitudini all’insegnamento, ma anche la sua passione per la storia e l’arte, a contatto con un immenso patrimonio, di cui diverrà negli anni, il conoscitore più profondo e qualificato. In questo suo slancio e attaccamento troviamo il significato della sua ininterrotta presenza a Randazzo, dove rimase per il resto della sua vita.
Da persona sensibile alla cultura classica e all’arte in particolare, dove si rimane incantato della vecchia città medievale che, sebbene già scalfita dal tempo ma ancora integra nell’originaria bellezza, gli offre un insieme architettonicamente omogeneo nelle mura di cinta e nelle torri di guardia, nelle chiese e nei campanili, nei palazzi e nelle case, nelle vie e nei vicoli, nelle piazze e negli slarghi, negli elementi decorativi e nei colori.
Se a tutto questo si aggiungono ancora l’impareggiabile oreficeria, le ricche e originali suppellettili sacre, le magnifiche tele e pale pittorica, le pregevoli e maestose sculture, patrimonio di una gara esaltante tra la popolazione, che nei tre quartieri ritrovava nelle rispettive chiese di Santa Maria, Santa Nicola e San Martino il fulcro di ogni alterità partecipativa, si capisce subito come l’incanto del primo contatto si sia trasformato in un ardente desiderio di ricerca attenta e di studio meticoloso, volto a svelarne ogni particolare storico ed artistico.


Se i ricordi di una lunga collaborazione tra un maestro e un discepolo possono diventare testimonianza e messaggio, posso affermare che l’amore di Don Virzì per Randazzo nacque dalla consapevolezza scientifica che la città rappresentasse uno “scrigno di tesori” da custodire gelosamente per una migliore conoscenza di tutto ciò che i siciliani erano riusciti, sui tanti influssi portati dall’esterno, a realizzare attraverso un proprio ed originale processo creativo: Randazzo, per gli aspetti di presenza e di continuità nei tanti filoni dell’arte, rappresentava per don Virzì la più significativa chiave di lettura per comprendere l’insopprimibile bisogno espressivo del popolo siciliano.
Non aveva Don Virzì, del tutto penetrato le pieghe del complesso patrimonio artistico dell’antica città medievale del valdemone, quando sopraggiunsero i terribili giorni del luglio-agosto 1943. Infatti, nel tentativo di forzare la ritirata dei tedeschi, attestatisi sull’Alcantara lungo il confine tra la provincia di Catania e quella di Messina, gli anglo-americani misero in atto una serie di incursioni aeree e di bombardamenti che rasero al suolo Randazzo. Nei giorni che seguirono, il giovane sacerdote mentre da un lato si prodigava a portare aiuto e sollievo alla provata popolazione, dall’altro non trascurava di annotare le distruzioni e le mutilazioni che l’insieme architettonico e artistico della città avevano subito.
Va ricordato che don Virzì fu tra i pochi a sostenere che la municipalità randazzese avrebbe dovuto richiedere al governo centrale la costruzione di una città nuova, da erigersi in continuità con il centro storico, anch’esso da ricostruire e restaurare. Ciò avrebbe evitato l’obbligatorio intervento del privato che, da solo, non avrebbe assolutamente potuto salvare l’antico.
Difatti così avvenne, per cui alla distruzione della guerra seguì quella di una ricostruzione affrettata e disordinata, ma comunque necessaria. Il guasto si verificò sia sul fronte della salvaguardia che su quello, non meno importante delle legittime aspettative per avere un’abitazione dignitosa e adeguata ai tempi. Se vogliamo, su questa primaria esigenza, si pose, subito dopo, il doloroso esodo migratorio.

Questa sua visione, va chiarito, non era assolutamente limitativa, quasi che lo studioso volesse mummificare il centro storico escludendolo da ogni attività futura, così come non intendeva certo alla ricostruzione di una città nuova avulsa dal suo contesto. Queste idee erano belle lontane dalla mente lucida e competente di Don Virzì.
Lo scopo, invece, era duplice: dare un’abitazione immediata alla popolazione, secondo l’urgenza, legata alle necessità di sopravvivenza che il momento richiedeva, salvaguardando il centro storico da una ricostruzione frettolosa, non per paralizzarlo, ma per attuarla in una fase successiva, secondo un programma ben definito di restauro e di conservazione degli elementi architettonici, stilistici ed estetici, per realizzare un complesso cittadino armonico, ordinato ed omogeneo, di cui il centro storico stesso avrebbe dovuto essere il fulcro.

La linea di azione di Don Virzì, da quel momento in poi, non poté indirizzarsi, di conseguenza, se non verso una mediazione tra i bisogni della gente e le aspirazioni dell’uomo di cultura convinto che si dovessero conservare tutte le testimonianze del passato. Il fatto di non essere riuscito a fare capire il senso della sua azione gli provocò il dolore più grande della sua vita.
Tuttavia, va precisato che mentre sarebbe riuscito a comprendere e giustificare gli interventi di ricostruzione dettati da necessità, non avrebbe invece mai scusato la mancanza di volontà e di comprensione della classe dirigente nel non aver saputo porre il problema della Ricostruzione nei termini in cui andava condotto.

Nello stesso periodo in cui maturarono questi avvenimenti, Don Virzì penso bene di dovere rivolgere la sua azione educativa verso i giovani.
E la frequentatissima scuola dei Salesiani gliene diede larga occasione. Ecco, quindi, i due filoni lungo e quali l’azione dello studioso si indirizzo: la ricerca e lo studio, da una parte, e la divulgazione dall’altra. Capì, altresì, che le sorti del patrimonio storico-artistico di Randazzo non sarebbero passate solo attraverso l’azione municipale, ma principalmente attraverso la sensibilizzazione degli uomini di cultura presenti a tutti i livelli.
E in questo la sua lezione fu senz’altro più incisiva e proficua: la città divenne punto di riferimento di quanti, ed erano pochi, continuarono a credere che la conservazione del patrimonio dei progenitori sarebbe stata di valido aiuto anche al risveglio dell’attività turistica.

Ed è così che si concretizza la sua azione permanente di educazione, di sensibilizzazione e di divulgazione alla quale si dedica con impegno, passione e costanza: conferenze, dibattiti, articoli su giornali e riviste, tutto tende ad approfondire e a far conoscere Randazzo.
Nella città,come ebbe modo di affermare durante una conferenza, egli vedeva la “chiave della Sicilia sia per la storia che per l’arte”. Fu un conferenziere dalle qualità espressive stringate ma complete nell’essenzialità.
Il suo disquisire fu tanto interessante da fare perdere la dimensione temporale all’auditorium, il linguaggio usato nelle descrizioni tecnico e semplice, fu proprio di chi conosce la storia dell’arte in ogni sfumatura.

Da corrispondente di molti giornali, con i suoi articoli, pubblicati su quotidiani e periodici a diffusione nazionale, riuscì a suscitare tale interesse nei lettori, anche stranieri, da indurli a visitare Randazzo per verificare se quell’atmosfera di suggestione che, con i suoi scritti, aveva saputo creare sulla cittadina, aveva riscontri con il reale. Ma la sua opera non si fermò solo alle conferenze e agli articoli. Pur privo di mezzi, ma non di volontà, andò oltre: animò l’istituzione della Pro Loco, fondò l’associazione di Storia Patria “Vecchia Randazzo”, divenne ispettore onorario della Sovrintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, istituì e tenne personalmente dei corsi per guide turistiche randazzesi.
Ma il frutto più significativo e proficuo della sua attività sono le opere edite ed inedite. Ed è citandole che sono certo di rendere il miglior omaggio alla memoria dell’uomo, dello studioso, del sacerdote, del ricercatore attento che, con molta umiltà, mise il suo ingegno e la sua opera al servizio di Randazzo: “Randazzo e le sue opere d’arte” del 1956, “Randazzo” del 1965,  “Il R. Castello di Randazzo” del 1968,  “Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto del 1860 a Randazzo” del 1968,  “Storia della città di Randazzo” del 1972,  “Breve guida attraverso i monumenti artistici della Città di Randazzo”del 1973,  “Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi” del 1975,  “Alcantara” del 1975, “Taormina” del 1979,  “Randazzo 1848” del 1980, “Un itinerario etneo” del 1983,  “La Chiesa di S. Maria di Randazzo”del 1984.
In ultimo, non si può non sottolineare un altro aspetto importante della personalità di don Virzì, cioè quello di educatore, che pose l’insegnamento a base del suo quotidiano lavoro. In più di 50 anni di cattedra, curò i rapporti con le tante generazioni in modo personalizzato, tanto che in Lui gli allievi videro sempre non solo il docente, preparato e puntiglioso, ma, principalmente, l’amico, l’uomo che, in ogni occasione, era pronto a dare consigli ed anche ad aiutare. Ed è per questo, maggiormente, che oggi tutti coloro i quali lo hanno avuto per maestro lo piangono.

Salvatore Agati .  Randazzo Notizie n.19 del novembre 1986 

 

Le Statue di Padre Pio

Guerra Santa per Padre Pio 

 

C’era una volta… C’era una volta, ai piedi dell’Etna, una città fortificata, dal clima salubre, circondata da monti, fiumi e vallate, ricca di monumenti e un tempo prediletta e frequentata da re e regine, ma… questa città era divisa in tre quartieri, fondati da tre genti diverse, lombardi, greci e latini, che vi avevano eretto tre chiese, e che con le loro rivalità, con le loro lotte per la preminenza, funestarono per secoli la storia della gloriosa cittadina, tirando in causa governatori, viceré, re, vescovi e pontefici.
A tal punto si spinsero le gelosie, che nel XV secolo ciascuna delle tre chiese a turno, per un anno, faceva da cattedrale e sede dell’arciprete, e, nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la messa funebre si dovette celebrare in “San Nicola, perché in quell’anno funzionava da cattedrale, San Martino come cattedrale subentrante, e Santa Maria come uscente”. Così Federico de Roberto (Randazzo e la Valle dell’Alcantara, Bergamo 1909).
Eppure quella città aveva profonde e radicate tradizioni religiose, vantava un tempo ben 11 conventi e 99 chiese…
C’era una volta… e c’è ancora.
All’alba del terzo millennio questa città si ridesta, con un accanimento, una passione degni dei fasti dei secoli andati, rispolvera le sue ancestrali e mai sopite tradizioni, per cimentarsi in una lotta senza quartiere, o fra quartieri, se preferiamo.
Vero è che i nostri paesi erano adusi alle guerre di santi, dove, attorno a due culti antagonisti, si polarizzava tutta la vita sociale della comunità: addirittura, nell’omonima novella del Verga, persino un fidanzamento andava a monte per l’esacerbarsi dei contrasti fra la due fazioni. Ma nel nostro caso il bello, anzi il brutto, è che i contendenti non sono San Rocco e San Pasquale, ma un Santo solo, il Beato Padre Pio da Pietralcina, al secolo Francesco Forgione.
Non è il caso di descrivere minutamente i fatti, né la cronaca di tutte le battaglie di cui è fatta questa guerra, già abbastanza se n’è parlato, scritto e dibattuto, rinnovando ogni volta, dopo l’iniziale ilarità, un profondo senso di tristezza.
A illuminare i lettori, basti quanto segue.
In quella città, ch’è anche la nostra, in ossequio ad una consuetudine dilagante, si pensò un giorno di erigere un monumento a Padre Pio. Non sappiamo chi, per primo, abbia avuto l’idea, e a questo punto, forse, è irrilevante saperlo.
Come avvenne – in ambito però del tutto profano – per l’invenzione del telefono, attribuita alternativamente all’americano Bell e all’italiano Meucci, da una parte si ritenne di affidare l’esecuzione ad un bravo artista del posto, dall’altra di procedere ad una raccolta di fondi per realizzare l’opera.
E, quando già le iniziative si erano spinte abbastanza in là, si scopre che, in quell’unica città, si stavano per erigere ben due statue di Padre Pio, l’una in una piazzola di sosta lungo la scalinata che conduce al convento dei PP. Cappuccini (proprio dirimpetto all’abitazione dell’artista), l’altra nel giardinetto annesso alla chiesa di Maria SS. Annunziata.
Ironia della sorte vuole che la saggezza popolare, che da secoli si manifesta attraverso motti e proverbi, quando ci sia da definire un contegno ambiguo, di compromesso, ricorra all’espressione  mangiari ‘e Cappuccini e dormiri a’ Nunziata.
Tornando invece ai nostri giorni, pare che i tentativi di mediazione messi in atto, e volti ad unificare le due iniziative, sì da erigere un solo monumento, siano andati a vuoto per l’irriducibilità delle due parti, e che ciascuna abbia deciso di proseguire.
Nel settembre scorso, intanto, con una solenne inaugurazione, la prima statua ha trovato dimora lungo la scalinata dei Cappuccini, luogo ritenuto idoneo quant’altri mai dal momento che il Beato Padre Pio fu in vita un frate francescano.
Nel frattempo proseguivano i lavori per l’installazione dell’altra statua, inaugurata con altra solenne cerimonia lo scorso 23 marzo.
Inutili sono stati gli interventi delle Autorità ecclesiastiche locali e diocesane, inutili le esortazioni affinché si addivenisse a più miti consigli.  Niente.

Statua di Padre Pio nel giardinetto annesso alla chiesa di Maria SS. Annunziata

La statua di Padre Pio nella scalinata del convento dei Cappuccini realizzata e donata da Santino Papotto.


I due gruppi di preghiera, che si sono nel frattempo costituiti, fermi e irriducibili, pregano e recano fiori ciascuno per conto proprio, poco ci manca che ciascuno rivendichi: “Il nostro è l’unico vero Padre Pio, diffidate dalle imitazioni!”, ma c’è di più.
Qualcuno paventa che, da qui a poco tempo, ogni quartiere della città potrebbe volersi intestare l’erezione di un’altra statua.
Basta così. Lungi dalle nostre intenzioni voler essere irriverenti, e tanto meno verso Padre Pio che in vita fu uomo esemplare, timorato, obbediente e pacifico – soprattutto! – di santa vita, e che per i suoi meriti il prossimo 16 giugno si appresta a diventare Santo.
Qualche, anzi molte perplessità, invece, sul fatto che in nome della devozione, della pietas religiosa, si sia scatenata un’assurda querelle, nutrita di puntigliosità, schermaglie, intransigenze, che sarebbero sicuramente dispiaciuti all’umile frate di Pietralcina, una contesa che riporta Randazzo alle forse non sopite rivalità tra quartieri dei tempi andati.
Già, perché si trattava di Randazzo, forse c’eravamo dimenticati di dirlo.

(Maristella Dilettoso)

(articolo pubblicato sul Gazzettino di Giarre n. 13 del 2002)
n.b. : il testo è stato redatto in data anteriore alla canonizzazione di San Pio da Pietralcina, ed è per tale ragione che vi si adopera ancora l’espressione “Padre Pio”.

 

La Croce di ferro che i Padri Passionisti posero nel 1934 e la statua di padre Pio.  Notate qualcosa di strano !!??   (ndr)

 

Raimondo Diaccini – Vita del Beato Domenico Spadafora

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GIUSEPPE PLUMARI ed EMMANUELE

Uno storico municipalista del XIX secolo

    Giuseppe Plumari, uomo di chiesa e di cultura, era nato a Randazzo il 17 agosto del 1770.
Il padre, don Candeloro, faceva il notaio, e la madre, Paola Emmanuele, discendeva da un’antica famiglia locale. Nonostante appartenesse alla media borghesia, egli dovette sempre fare i conti con le ristrettezze economiche della famiglia, e se già il padre si vedeva costretto, per arrotondare i suoi magri proventi, a far l’organista nelle chiese, lui si trovò sempre a lottare da solo per raggiungere quei risultati che il censo non gli aveva dato già per scontati, e rinunciare nel corso della sua vita, a tante aspirazioni.

Aveva, per esempio, fatta istanza al Re per essere assunto come Cappellano Militare, e, forse dopo un accoglimento sfavorevole, dovette adattarsi all’ambiente del paese.
Ambiente che inevitabilmente doveva andargli piuttosto stretto, sia per le naturali ambizioni dell’uomo, consapevole delle sue doti, sia per le invidie e ostilità in mezzo alle quali si trovò sempre costretto a vivere.
Compì i primi studi presso il Convento dei Basiliani, e in particolare, per la retorica e le lettere, sotto la guida dall’Abate Giovanni Romeo.
Fu proprio un episodio avvenuto in gioventù, un viaggio a Napoli nel corso del quale ebbe modo di visitare palazzi e musei, a risvegliare in lui l’amore per la storia e per le “cose antiquarie”. A 18 anni si recò a frequentare il Seminario di Messina, dove completò gli studi laureandosi in Teologia e Diritto. Fu ordinato sacerdote nel 1795.

Dopo un periodo di tirocinio a Palermo, ritornato nel paese natale, fu associato al clero della chiesa di Santa Maria, in qualità di Canonico della Collegiata.
Nel 1814, alla morte dell’Arciprete Don Alberto Salleo, partecipò al concorso per l’Arcipretura, vincendolo: “questo – dice lo storico don Salvatore Calogero Virzì – fu l’inizio di tutte le traversie della sua vita perché, contestata da uno degli sfortunati concorrenti, Don Antonino Vagliasindi dei baroni del Castello, la sua nomina ad Arciprete, fu tradotto davanti ai Tribunali”.
Ma fu anche la molla che, involontariamente, fece scattare nel Plumari nuovi interessi, dandogli al tempo stesso la possibilità di assecondarli.
Infatti dovette trasferirsi a Palermo per due anni, dal 1815 al 1816, per seguire la causa, che poi avrebbe vinto in pieno, a seguito di tre diverse sentenze successive, ma la permanenza nel capoluogo gli offrì anche l’opportunità ed il tempo di frequentare archivi e biblioteche, di spulciare libri e documenti, scoprendo così la sua vocazione di storico, nonché di avvicinare dotti e studiosi del tempo, quali D. Vincenzo Castelli e D. Giovanni D’Angelo, che lo aiutarono ad affinare ed approfondire la già latente passione per la storiografia.
Da queste frequentazioni, da questi studi, che D. Giuseppe Plumari integrò con la lettura degli storici municipali, quali Pietro Oliveri, Antonino Pollicino, Pietro Di Blasi, Pietro Rotelli, il notaio Prospero Ribizzi e Onorato Colonna, doveva scaturire l’enorme mole degli scritti su Randazzo, la sua storia, i suoi figli più illustri.
Di ritorno in patria, avrebbe potuto finalmente dedicarsi alla vita parrocchiale, preparando i giovani al catechismo, pronunciando orazioni e sermoni, e facendosi così apprezzare per le sue doti di oratore.
Ma per l’Arciprete Plumari la tranquillità era ben lungi dall’arrivare: entrò subito in contrasto con gli Amministratori dell’Opera De Quatris – l’azienda costituita da lasciti e beni immobili assegnati alla chiesa di S. Maria dalla defunta baronessa Giovannella De Quatris – che in seno alla comunità randazzese costituivano una vera e propria potenza economica, e, per di più, dovette vedere sempre minacciata e messa in forse la sua stessa dignità ed autorità di Arciprete.
Infatti, sulla scorta di una certa teoria, ormai da tempo consolidata, stando alla quale le chiese di Randazzo fossero ricettizie, ovvero istituzioni spontanee dove i vari membri godevano di parità assoluta, esercitando a turno, per esempio, le mansioni di parroco, la figura dell’Arciprete sarebbe venuta a ricoprire così un titolo privo di autorità giurisdizionale su tutto il resto del clero, e di conseguenza il Plumari dovette subire non poche angherie ed umiliazioni, specie da chi mal aveva digerito la sua nomina.
Di fatto egli riuscì, soltanto nel 1839, alla morte del Decano D. Antonino Vagliasindi, a sedersi tranquillo sulla sospirata poltrona di Arciprete, e ad assumere i pieni e reali poteri, nonché la dignità, che tale carica comportava: “assommando le due dignità nell’unica sua persona, non ha più da tribolare per il riconoscimento dei suoi diritti e delle sue ambizioni cui tanto sensibile era il suo carattere”’ (Virzì).
Si era anche fatto promotore dell’idea di creare una sede vescovile a Randazzo (la città allora, e fino al 1872, faceva parte della Diocesi di Messina), benché su questa sua proposta sarebbe poi prevalsa quella delle Autorità di Acireale.
Non è da escludere che egli accarezzasse il sogno segreto di poter indossare per primo, e in patria, le insegne di Vescovo…

 

Morì il 1° ottobre 1851. Probabilmente fu seppellito in S. Maria, tuttavia, sicuramente a seguito dei vari rifacimenti della pavimentazione della basilica, e allo smantellamento delle pietre tombali già esistenti, della sua tomba non vi è oggi alcuna traccia. Strano destino, questo, per un uomo che lasciò un’opera immortale, e cui la città deve tanto!
Don Virzì, che è la fonte più dotta, esauriente e attendibile, che ne conobbe e studiò per esteso l’opera, e che a tutt’oggi ne è considerato il più degno erede e successore, così lo descrive:
      “carattere ardente, fattivo, in parte intrigante e ambizioso… Il suo agire in parte ingenuo, fu quello di certi uomini che pensano di essere chiamati a raddrizzare le cose storte… a riformare il mondo con uno spirito di intransigenza che rivela la loro personalità”.
A ciò va aggiunta, da un lato, la perenne condizione di ristrettezza economica in cui il Plumari versò per tutta la vita, e dall’altro la costanza, l’accanimento con cui egli si batté, per tanti anni e con ogni mezzo, per raggiungere il traguardo del pieno riconoscimento di quella dignità dell’Arcipretura che con tanta ostinazione e spirito di ripicca gli fu osteggiata per lunghi anni.

Troppo complesso sarebbe descrivere le diatribe, i colpi bassi, le battaglie che caratterizzarono la rivalità col Decano Vagliasindi  (si tratta di Paolo Vagliasindi Basiliano che nel “Discussione Storica e Topografica” confuta la tesi del Plumari sulla origine di Randazzo F:R.) e altri esponenti influenti del clero locale, ma la chiave di lettura di questa vicenda si potrebbe trovare forse inquadrandola nello scontro fra due classi sociali, un’aristocrazia titolata, fortemente aggrappata ai propri appannaggi e privilegi, cui era restia a rinunziare, ed una borghesia che, fattasi strada con i soli propri mezzi, vedeva negli studi una sorta di affrancamento e di riscatto sociale: a tal proposito non può sfuggire come Giuseppe Plumari non mancasse mai di aggiungere, al proprio nome, il titolo raggiunto con studio e sacrificio “Dottore in Sacra Teologia“, “Canonico in Sagra Teologia Dottore”, e finalmente “Unico Parroco Arciprete di Randazzo”.
Abbondante la sua bibliografia, almeno a giudicare dai titoli pervenutici, a testimoniare un impegno pastorale e culturale notevole e continuo.
Fu grande oratore, convinto e infiammato, tant’è che pubblicò le sue omelie “animato, per non dire obbligato, dai buoni cittadini, che ascoltate le aveano con tanto piacere, e che avean veduto dalle stesse raccolto un frutto universale” come ebbe ad affermare con un pizzico di vanità, o piuttosto consapevolezza delle proprie capacità e dei propri meriti.

– È del 1821 l’Omelia nel giorno natalizio ed onomastico del Re Ferdinando I,
– del 1822 la Felicità dei popoli sotto la Religione Cristiana e sotto il Governo Monarchico, e la Infelicità dei popoli sotto le segrete società tendenti a distruggere la Religione e il trono,
– una Orazione funebre in morte di Ferdinando I (1825).

Altri scritti ancora furono dettati dall’intendimento di affermare le proprie tesi, come :
Le Ragioni in difesa del diritto dell’Arciprete di Randazzo (1813),
– Sulla elezione dell’Amministrazione dell’Opera De Quatris, fatta dai parrocchiani di S. Maria ai quali s’appartiene (1815),
– una Allocuzione in difesa dei beni ecclesiastici appartenenti alla Collegiata di S. Maria.
Altri gli sono stati attribuiti:

Orazione fatta al consiglio civico di Randazzo al 25 agosto 1813,
Poche idee sopra talune leggi da farsi ai termini dello statuto politico per la Sicilia (1848).

Ma la mole più cospicua è costituita dagli scritti su Randazzo, opera cui Plumari dedicò l’impegno di una vita.

La Storia di Randazzo fu redatta in varie stesure, ne esiste pure un’edizione condensata presso la Biblioteca Zelantea di Acireale, depositatavi dall’Autore nel 1834.

Lionardo Vigo


Come egli stesso afferma, fu incoraggiato nelle stesura dell’opera dall’amico acese Lionardo Vigo:

      “Avendo io nelle ore dell’ozio raccolte alcune memorie relative alla Storia di Randazzo, mia Patria, queste un tempo legger volle il Cavaliere Lionardo Vigo della Città di Acireale, qui venuto per curiosare… mi animò… Egli stesso a scrivere un Sunto della Storia mia municipale, con avermi incaricato di doverlo poi trasmettere ali Accademia de’ Zelanti di Scienze, Lettere ed Arti di essa Città di Aci-Reale. Tanto io praticai nello stesso anno 1834″.

Spiegherà poi che, trattandosi di un sunto, omise per brevità di citare gli autori consultati, offrendo così automaticamente il destro ad altri, in particolare all’altro storico dell’epoca, l’Abate Paolo Vagliasindi, di contestare le sue tesi, in particolare la teoria della pentapoli. Secondo questa teoria, Randazzo sarebbe stata originata, a detta del Plumari, dalla fusione di cinque città, Tiracia, Alesa, Triocala, Tissa e Demena.

 

                  Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale di Sicilia – fine primo volume.

 

Di fatto nella Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale di Sicilia, in 2 volumi, iniziata nel 1847 e conclusa nel 1851, l’anno stesso della morte, egli innesta la storia della Città sul ceppo della storia dei popoli e delle genti che abitarono la Sicilia e il Mediterraneo, fin dai tempi più antichi, attingendo agli autori greci e romani. La sua descrizione si fa via via più serrata e documentata, quanto più lo scrittore si avvicina ai tempi moderni.
L’opera è corredata anche da disegni e schizzi, di mano dello stesso Plumari, d’indubbio valore documentario, per ricostruire monumenti non più esistenti o la topografia della città.
Degno di menzione il Codice diplomatico, la Storia delle famiglie nobili di Randazzo, la Storia dei personaggi illustri di Randazzo che fiorirono per fama dì santità, concepita come un terzo volume della Storia.
Proprio questo volume, per volontà dello stesso autore, non sarebbe stato depositato presso l’Archivio di Palermo, ma lasciato alla città di Randazzo, nel caso si fosse reso necessario attingere notizie utili alla causa di beatificazione o canonizzazione di qualcuno dei suoi figli più meritevoli.
“Gloria primaria ed unica della storiografìa randazzese” definisce l’Arciprete Giuseppe Plumari, in un eccesso di  modestia, don Salvatore Calogero Virzì, e prosegue: “Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo”.
La sua importanza risiede anche, per noi moderni, nel potere attingere a piene mani, attraverso i suoi scritti, a fonti ormai perdute. Gli è stato rimproverato un eccesso di municipalismo, e qualche ingenuità storica.
Ma Plumari è, e si dichiara egli stesso, storico municipale, e, quanto al resto, lo stesso Virzì, pur riconoscendogli una certa ridondanza e qualche carenza di critica storica, giustifica tali pecche spiegando come la sua opera vada comunque valutata all’interno del contesto in cui si è generata, alla luce della storiografia del tempo. A noi non resta che inchinarci di fronte ad un impegno così costante, protrattosi fino alla morte.
Da quelle pagine manoscritte, in una grafia elegante, ordinata, trabocca tutto l’amore per la sua città, “un tempo celeberrima, a nessun ‘altra Città del Regno seconda”, ma anche per la ricerca e per la storia. Come si legge nella dedica della Storia di Randazzo, Diruta dum patriae numeras monumenta vetusta, tum patriae surgit gloria nobilior, c’è un moto di ambizione, naturale in chi si accinge a un’opera grande, ma c’è anche spirito di servizio.
E come sottovalutare tante descrizioni della Randazzo del suo tempo, quelle così puntuali di opere d’arte, edifici, le cronologie, le citazioni d’archivio, gli elenchi di chiese, di porte, beni in massima parte ormai inesistenti, distrutti o smarriti, e riscontrabili solo attraverso la sua testimonianza. 
Maristella Dilettoso

 (Articolo pubblicato su Cultura e Prospettive n. 23, Supplemento a Il Convivio n. 57, Aprile – Giugno 2014)

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                                                              UNA GLORIA DELLA CITTA’:  L’ARCIPRETE D. GIUSEPPE PLUMARI                                                               

 

     Gloria primaria ed unica della storiografia randazzese è il famoso Arciprete Giuseppe Plumari, vissuto a cavallo dei Sec. XVIII e XIX. Ed è giusto che noi, moderni cultori delle glorie patrie, diamo il dovuto tributo di riconoscenza a quest’uomo che, ignorato del tutto nel passato, da studiosi e non studiosi, ci ha lasciato una grande opera, che ci parla di tutte le glorie della nostra cittadina.
    Dico ignorato, perché in verità ben poco la cittadinanza randazzese ha fatto per lui.
Mentre, infatti, si sono giustamente onorati i caduti della grande guerra, intitolando al loro nome un intero viale (Viale dei caduti sulla Via Regina Margherita) e non poche strade del paese, purtroppo, col risultato di cancellare irrimediabilmente nomi tradizionali e popolari, ancora in parte vivi nel gergo popolare, con tanto danno dell’antica toponomastica urbana, che non ha lasciato traccia nemmanco negli Atti Ufficiali del Comune.
Nulla si è fatto in Randazzo per l’Arciprete Plumari, che ha lasciato manoscritta la sua opera, ma solamente intitolando, non so in quale tempo al suo nome un vicoletto ignorato del quartier di S. Martino.
    Cosi per lui, cosi per tanti altri nomi prestigiosi della storia cittadina, facendo eccezione soltanto per il nome del deputato del principio del secolo, on. Paolo Vagliasindi, per cui si affisse al cantonale della casa di famiglia una candida lapide che ebbe la ventura di essere stata dettata dal grande Federico De Roberto ed inaugurata col concorso di tutto il popolo e di tutte le autorità, come ci testimoniano le fotografie del tempo.
    Grande personaggio arciprete Giuseppe Plumari ed Emmanuele, uomo di cultura e di abilità.
    Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una Storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo.
Opera enorme in due grossi volumi che fu da lui compilata sulle memorie di cultori di storia patria e di notai che, purtroppo, noi non possediamo più, ma che egli ebbe la fortuna di avere in mano e sfruttare nella sua trattazione.
In tale opera abbiamo un documento del suo impegno indefesso di ricerca che lo ricerca che lo spinse ad una immane fatica che solo chi ne è addestrato può valutare, del suo ardente amore per la patria, della sua gioia nel portare alla luce le sue glorie del passato, unica soddisfazione dello studioso e del compilatore.
    Ce lo riferisce egli stesso rivelandoci che il suo interesse crebbe a dismisura allorquando, nello studio dei documenti, trovava citato continuamente il nome della sua Randazzo e degli avvenimenti che la riguardavano.
    Tutto questo trasparisce da tali pagine. Stato d’animo, purtroppo, questo, che costruisce il punto più debole del suo lavoro, aggravato dalla sua complessità e spesso pletoricità. Mende, queste, di una certa gravità che sminuiscono il valore dell’opera, ma che non sono da imputare del tutto all’autore che, nato nel settecento, il cosiddetto secolo dei lumi, non poteva non risentire di quelle manchevolezze che la storiografia ancora registrava nella sua evoluzione.
   Per tali deficienze, più che personali, dovute al manchevole manchevole sviluppo scientifico del tempo, non seppe valutare con disinteressato discernimento le notizie raccolte e non seppe fare uso di quella storica che fa la vera storia. 

 

Via Plumari – quartiere di San Martino 

    
    Dico ignorato, perché in verità ben poco la cittadinanza randazzese ha fatto per lui.
Mentre, infatti, si sono giustamente onorati i caduti della grande guerra, intitolando al loro nome un intero viale (Viale dei caduti sulla Via Regina Margherita) e non poche strade del paese, purtroppo, col risultato di cancellare irrimediabilmente nomi tradizionali e popolari, ancora in parte vivi nel gergo popolare, con tanto danno dell’antica toponomastica urbana, che non ha lasciato traccia nemmanco negli Atti Ufficiali del Comune.
Nulla si è fatto in Randazzo per l’Arciprete Plumari, che ha lasciato manoscritta la sua opera, ma solamente intitolando, non so in quale tempo al suo nome un vicoletto ignorato del quartier di S. Martino.
    Cosi per lui, cosi per tanti altri nomi prestigiosi della storia cittadina, facendo eccezione soltanto per il nome del deputato del principio del secolo, on. Paolo Vagliasindi, per cui si affisse al cantonale della casa di famiglia una candida lapide che ebbe la ventura di essere stata dettata dal grande Federico De Roberto ed inaugurata col concorso di tutto il popolo e di tutte le autorità, come ci testimoniano le fotografie del tempo.
    Grande personaggio arciprete Giuseppe Plumari ed Emmanuele, uomo di cultura e di abilità.
    Egli è stato l’unico fra tutti gli storici della città a lasciarci una Storia manoscritta che è, per l’enorme quantità di documenti consultati e che in parte trascrive e riporta, la fonte più attendibile e più informata degli avvenimenti del passato di Randazzo.
Opera enorme in due grossi volumi che fu da lui compilata sulle memorie di cultori di storia patria e di notai che, purtroppo, noi non possediamo più, ma che egli ebbe la fortuna di avere in mano e sfruttare nella sua trattazione.
In tale opera abbiamo un documento del suo impegno indefesso di ricerca che lo ricerca che lo spinse ad una immane fatica che solo chi ne è addestrato può valutare, del suo ardente amore per la patria, della sua gioia nel portare alla luce le sue glorie del passato, unica soddisfazione dello studioso e del compilatore.
    Ce lo riferisce egli stesso rivelandoci che il suo interesse crebbe a dismisura allorquando, nello studio dei documenti, trovava citato continuamente il nome della sua Randazzo e degli avvenimenti che la riguardavano.
    Tutto questo trasparisce da tali pagine. Stato d’animo, purtroppo, questo, che costruisce il punto più debole del suo lavoro, aggravato dalla sua complessità e spesso pletoricità. Mende, queste, di una certa gravità che sminuiscono il valore dell’opera, ma che non sono da imputare del tutto all’autore che, nato nel settecento, il cosiddetto secolo dei lumi, non poteva non risentire di quelle manchevolezze che la storiografia ancora registrava nella sua evoluzione.
   Per tali deficienze, più che personali, dovute al manchevole 

sviluppo scientifico del tempo, non seppe valutare con disinteressato discernimento le notizie raccolte e non seppe fare uso di quella storica che fa la vera storia.
    Molte, infatti, delle sue conclusioni storiche non reggono alla critica moderna, avvalorata dai ritrovamenti archeologici e documentari. Ciò non toglie che egli ci ha lasciato una fonte preziosissima di tutto ciò che riguarda la storia della città, elegante, ben leggibile, due copie dell’ultima stesura della “ Storia di Randazzo” e ne depositò una nella Biblioteca Comunale di Palermo, ancora esistente e consultabile e ne regalò una al Comune di Randazzo, purtroppo da tempo scomparsa.

 

Giuseppe Plumari – Primo volume Storia di Randazzo

Giuseppe Plumari – secondo volume Storia di Randazzo

 

   Notizia recentissima di questi giorni è che, nel clima instauratosi da qualche tempo nella nostra città per merito delle Autorità cittadine attuali,, ad ovviare al danno subito dalla comunità tutta con la scomparsa della copia manoscritta originale, il Comune è stato dotato del “Microfilm” dell’opera del Plumari, giacente nella sopradetta Biblioteca di Palermo, a servizio degli studiosi.
   IL PLUMARI, come egli stesso ci rivela in un breve profilo lasciatoci nella sua opera “Uomini Illustri di Randazzo”, nacque il 17 Agosto 1770 dal notaio D. Candeloro e da Paola Emmanuele.
    Giovanetto fu alunno, per i primi elementi di lettere e retorica, del basiliano Don Giovanni Romeo, Abate allora del Monastero di recente costruzione, il cui fabbricato diventò in seguito il “Collegio S. Basilio”.
    A 18 anni fu inviato dal Seminario di Messina dove compi i suoi studi e si addottorò  in Teologia e Diritto, alla scuola di illustri professori che lo informarono all’amore dello studio.

   Ordinato sacerdote nel 1795, fece un breve tirocinio ministeriale a Palermo, dove si distinse per la scienza e la sua abilità di oratore, ritornò, quindi, a Randazzo e fu associato al Clero della Chiesa di Santa Maria.
    Morto il degno arciprete, D. Alberto Salleo (1783-1814), assieme ad altri quattro, fu ammesso al concorso per l’Arcipretura e vinse (1814), ma questa vittoria fu l’inizio di tutte le traversie della sua vita perché, contestata la sua elezione ad Arciprete da uno degli sfortunati concorrenti, fu tradotto davanti ai Tribunali.
Egli per difendere validamente il suo diritto e il beneficio ecclesiastico vinto, dovette trasferirsi per due anni (1815-1816) a Palermo dove ottenne con tre sentenze diverse una piena vittoria e un pieno riconoscimento del diritto.
   Un avvenimento particolare della sua giovinezza apri un nuovo orizzonte alle sue innate disposizioni e lo portò ad una scelta che avrebbe indirizzato il suo giovane animo alla cultura storica.  Ce lo fa sapere egli stesso.
    “All’età di 18 anni, ritrovandosi in Messina in compagnia di alcuni cavalieri randazzesi (…) passa con li medesimi a vedere la capitale di Napoli e tutte le magnificenze della bella Partenope non esclusa la grande gala di corte solita farsi l’8 Settembre nella Festa di S. Maria di Piedigrotta.
    Dalla visita fatta alle antichità di Pozzuoli e al celebre Museo Borbonico, cominciò a prendere gusto allo studio delle cose antiquarie…”.

    Questa passione si sviluppo negli anni e raggiunse la massima efficacia nel periodo, non poco lungo, che egli passò a Palermo dove frequentò archivi, biblioteche, persone della cultura, come un D. Vincenzo Caselli, principe di Torremuzza, grande studioso delle antichità della Sicilia, ed il can. D. Giovanni d’Angelo, che lo avviarono agli studi storici ed alla ricerca di documenti nella celebre Biblioteca del Senato ed in vari Archivi della Capitale.
    Di tutto questo materiale che, man mano, andò raccogliendo, integrato dalle memorie scritte dei randazzesi Pietro Oliveri, Antonio Pollicino, Pietro di Blasi, Pietro Rotelli, notaio Prospero Ribizzi e del benedettino Onorato Colonna, egli compilò una serie di volumi riguardanti la storia della città delle sue famiglie e delle persone illustri di essa, come si può vedere dal lungo elenco delle sue opere, che segue:

  • Storia di Randazzo, trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale della Sicilia – Ms. in 2 voll. 1849, presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
  • Storia di Randazzo – Ms. in un Vol. presso la Biblioteca Zelantea di Acireale, depositata dallo stesso autore l’8-1-1834.
  • Storia di Randazzo, prima stesura manoscritta, appartenente al compianto can. D. Giuseppe Finocchiaro, ora in possesso della famiglia Virgilio Pietro di Catania.
  • Codice Diplomatico – Ms. in un Vol. presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
  • Storia delle Famiglie Nobili di Randazzo – Ms. in un Vol. in possesso della Famiglia Scala, Giarre.
  • Storia dei personaggi illustri di Randazzo – Ms. in un Volume.
  • Allocuzione in difesa dei beni ecclesiastici appartenenti alla Collegiata di S. Maria – Palermo 1813.
  • Ragioni in difesa del diritto dell’Arciprete di Randazzo – Messina 1813.
  • Sulla elezione dell’Amministrazione dell’Opera de Quatris fatta dai parrocchiani di S. Maria ai quali s’appartiene – Catania 1815.
  • Omelia nel giorno natalizio ed onomastico del Re Ferdinando I – Catania 1821.
  • Felicità dei popoli sotto la Religione Cristiana e sotto il Governo Borbonico – Messina 1822.
  • Infelicità dei popoli sotto le segrete società tendenti a distruggere la Religione e il Trono – Messina 1822.
  • Orazione funebre in morte di Ferdinando I – Messina 1825.

    Carattere ardente e fattivo si rivelò il Plumari fin dal primo momento in cui egli fece parte della “comunità” della Chiesa di S. Maria, cui si aggregò non appena fu ordinato sacerdote (1795).
    Ritiratosi da Palermo ove, come si è detto, passò i primi anni del suo sacerdozio aggiudicandosi tanta stima, si immise in pieno nella vita parrocchiale della Chiesa con una grande dose di entusiasmo ad impartire lezioni di catechismo ai giovanetti, a pronunziare discorsi di circostanza e orazioni sacre che furono tanti apprezzati dai fedeli e dalla comunità ecclesiastica che, nello stesso 1795, dal  R. Amministratore dell’Opera de Quatris, cui competeva il diritto, D. Giacinto Dragonetti, fu eletto canonico della Collegiata al diciottesimo stallo e scelto come curatore della “Festa della Vara”.
    Problema gravissimo che angustiò tutta la sua vita, furono le ristrettezze economiche della famiglia (il padre, notaio, per arrotondare le entrate faceva l’organista nelle Chiese) e perciò domanda al Re per essere assunto come Cappellano Militare e, forse in seguito ad una risposta negativa, si decise di adattarsi alla vita del paese anche in mezzo alle difficoltà che gli derivarono dalla famiglia e dall’ambiente.     Non pochi, infatti, furono gli invidiosi ed i nemici dichiarati intorno a lui, suscitati dalle sue buone doti che lo facevano spiccare su tutti e, purtroppo, anche dal suo carattere deciso e non facilmente malleabile, quando si trattava della difesa dei diritti suoi e della Chiesa o di opporvi alle prepotenze, da qualunque parte venissero specialmente da parte degli Amministratori dell’Opera de Quatris che, essendo a capo di questa grande e ricca azienda, la più grande del paese, si sentivano investiti di autorità e strapotere cui tutto  e tutti dovevano piegarsi.
Anche in seno al Clero, in questo periodo torbido della storia della nazione, egli ebbe a soffrire ed a combattere le sue battaglie alla difesa dell’Autorità di Arciprete.
Le teorie sovversive del tempo, il fermento politico che aveva portato in Randazzo l’istituzione di alcune vendite della carboneria, l’inquietitudine rivoluzionaria lasciata dalla invasione francese nel napoletano e dal regno murattiano, avevano disposto gli spiriti al sovvertimento delle vecchie istituzioni ed alla scelta delle novità più singolari.
    Tra queste una estrosa teoria che toccava direttamente il Plumari nella sua qualità di Arciprete, sostenuta da gente malevola ed illusa, proprio in questo scorcio di secolo, imperversò per tutto il periodo successivo facendo maturare, negli anni ’50 del secolo passato ed oltre, risultati distruttivi.
    Intendo accennare alla teoria pseudo-storica che sosteneva, senza documenti di appoggio valevoli, che le chiese di Randazzo erano “chiese ricetti zie”, cioè chiese formatesi nei secoli come istituzione spontanea il cui clero si era in esse raccolto senza istituzione canonica, per cui i membri godevano di una parità assoluta e di diritti uguali, esercitando il ministero sacramentale a turno con le specifiche mansioni, volta per volta, il parroco “ad tempus”.
    Ciò colpiva direttamente la posizione dell’Arciprete che, in conseguenza di ciò non godeva di beneficio ecclesiastico istituito dall’Autorità canonica, ma soltanto di un titolo spoglio di autorità giurisdizionale sugli altri preti, per cui il detentore del titolo di Arciprete, secondo tale teoria, era un semplice sacerdote come tutti gli altri, un “unus inter pares” senza diritti giurisdizionali di sorta.

    Conseguenza di tale teoria, che ebbe gli assertori più accaniti tra il clero di Randazzo, fu la contestazione dell’Autorità arcipretale del Plumari che, nonostante la sua difesa a base di documenti, dovette subire affronti e clamorose ripulse che arrivarono a formali disubbidienze ed opposizioni.
    Eppure, a leggere anche ora i documenti della fondazione della Collegiata, diventata con gli anni l’arbitra della Chiesa di S. Maria ed in seno alla quale si trovavano i più accaniti suoi oppositori, ben altre erano le disposizioni arcivescovili emanate nell’atto della fondazione, concedeva tutto ai Cappellani, ma chiaramente ribadiva la intoccabilità dei diritti dell’Arciprete sia nel Coro, sia nelle processioni, sia in tutte le azioni liturgiche e di rappresentanza, sia ancora nelle sue facoltà giurisdizionali.
    Grosso imbroglio, dunque, questo, che condizionò e tormentò la vita del Plumari che potè avere un po’ di pace soltanto quando egli fu eletto, nel 1840, Decano della Collegiata e che fu risolto soltanto alla sua morte dai Tribunali ecclesiastici ad opera del suo successore, il battagliero ed energico Arciprete D. Vincenzo Cavallaro, proprio nel decennio degli anni cinquanta dell’Ottocento.
    Nonostante gli assilli derivategli da ciò, che fu il cruccio della sua vita, il problema economico, cioè, ed ancora dalla difesa strenua dei suoi diritti di Arciprete, egli continuò ad esercitare il suo ministero di buon sacerdote e zelante Arciprete; non solo, ma anche a coltivare la sua occupazione preferita di indefesso studioso e, perciò, è opera dell’ultimo decennio della sua vita, anzi addirittura degli ultimi anni, la definitiva stesura dell’Opera sulla storia di Randazzo, come ci rivela la data segnata nella copia ancora esistente (1849), tempo in cui erano già sedate tutte le diatribe e le opposizioni alla sua persona e alla sua giurisdizione, perché erano venuti meno i suoi più acerrimi oppositori e si erano assommate nell’unica sua persona le due dignità del Clero di Arciprete e di Decano della Collegiata (1840).

    Moriva nell’ottobre del 1851 e probabilmente fu seppellito nella Chiesa di S. Maria, ma della sua tomba si è perduto ogni ricordo.

    Commossi, pertanto, e riconoscenti, rendiamo omaggio a questo degno figlio della nostra città, il quale nella sua opera ci ha lasciato la testimonianza più viva e veritiera di ciò che significa amore della patria e della scienza congiunti in un unico nobile scopo.

    Quali ricordi di questo grande personaggio ci restano a Randazzo?

 

                        La casa del Plumari – corso Umberto 233/235 – Randazzo

    In verità ben pochi: un vicolo – come abbiamo già detto – vicino alla sua casa di abitazione, nel quartiere di S. Martino, intitolato al suo nome; un libro che porta di suo pugno il nome; una qualche lettera nell’archivio della Chiesa, con intestazione a stampa dei suoi titoli e col bollo personale con il suo stemma; ed ancora, forse una statuetta della Madonna Addolorata, che apparteneva al clan. Caldiero, che l’avrà potuta ereditare da lui.
    Non un ritratto, non alcuna carta dei suoi numerosissimi appunti; non memorie dei contemporanei che ci facessero conoscere la personalità di quest’uomo tanto benemerito della sua patria.
    A lui, vada, pertanto, il nostro tardivo ricordo riconoscente; e questo profilo, da questa rivista, espressione divulgativa dei problemi e delle glorie della città, nel mio intento è l’omaggio di uno studioso che tanto gli deve ed una spinta a che i cittadini tutti, con a capo le autorità civili e religiose, rendano il dovuto tributo di riconoscenza con iniziative che possano far conoscere i grandi meriti di chi ha innalzato alla sua città con monumento “più duraturo del bronzo” (aere perennius).

Sac. Salvatore Calogero Virzì.  Articolo pubblicato su “Randazzo Notizie” n.9  maggio 1984 

    (Forse non è inutile ricordare a noi tutti che, ahimè, l’esortazione di Don Virzì  di rendergli i dovuti onori all’Arciprete Giuseppe Plumari, è rimasta fino ad ora totalmente inascoltata).  Francesco Rubbino

                                                                              

Qui di seguito riportiamo le copertine ed alcuni dipinti e disegni dei tre volumi della  “STORIA DI RANDAZZO ”  :

 

 

 

Di seguito alcune pubblicazioni del Plumari. Li puoi trovare anche nella sezione LIBRERIA.
 
  Storia di Randazzo:  Primo Volume diviso in tre libri.           

  Lettere Autografe – 1822 

  Codice Diplomatico della Città di Randazzo  .                       

  Orazione Funebre per Ferdinando I Re del Regno delle Due Sicilie.

 

  La Felicità Politca-Cristiana

                           

                                     

                                 

                                      

                                        

Padre Luigi Magro Cappuccino

 

Padre Luigi da Randazzo  dei Frati Minori Cappuccini– Cenni storici della Città di Randazzo. 
 

Tra gli storici municipali, una delle figure di maggior spessore rimane sicuramente quella di Padre Luigi da Randazzo, per la vastità e profondità delle sue ricerche, per la preziosità delle notizie riportate, per l’impegno e la passione profusi nel raccogliere, trasmettere e valorizzare i fasti della propria città natale. 

Padre Luigi da Randazzo, al secolo Santo Magro (1881-1951), dei Frati Minori Cappuccini, si era ordinato sacerdote nel 1904 a Nicosia, fu Predicatore, Confessore, Cappellano Ospedaliero, personalità tenuta in grande considerazione sia nel Convento di Randazzo che nella città.

Invitiamo i visitatori del blog a sfogliare e a leggere il suo scritto, che è rimasto purtroppo inedito, e sconosciuto ai più, quasi fino a oggi, benché ne esistessero alcune copie dattiloscritte, mentre il manoscritto originale è custodito presso il Museo della Memoria Salesiana.

Grazie alla pazienza e all’impegno del salesiano don Sergio Aidala, il testo è stato integralmente trascritto in formato digitale, e una copia è stata fruibile al pubblico, fino a qualche anno fa, presso la Biblioteca Comunale “Don Virzì”.

L’opera è strutturata in due parti, Randazzo civile e Randazzo sacra, una vera miniera di informazioni sui tanti Conventi, Monasteri e Ordini religiosi presenti un tempo nella nostra città, uno studio fino a oggi insuperato sotto questo aspetto.

Senza dilungarci sui tanti pregi di questo storico, ci limitiamo a sottolinearne almeno due, e cioè il garbo e la pacatezza di toni che padre Luigi adopera anche nel contestare le tesi altrui, come dimostra, ad esempio, allorché, dati alla mano, contraddice le asserzioni dello storico brontese suo contemporaneo Benedetto Radice (1854-1931) che, nelle Memorie storiche di Bronte aveva messo in dubbio la legittimità del  “mero e misto imperio”  di Randazzo, e la modestia con cui, sia nel Proemio che nella Conclusione, sottoponendo quello che definisce il suo “lavoretto” al giudizio del pubblico, si augura che esso possa essere d’esempio e di sprone a qualche altro cittadino di buona volontà che possa fare meglio di lui.
Maristella Dilettoso

 

                      Padre Luigi Magro. Foto presente presso il Museo della Memoria Salesiana.

 

 

Articolo di Guido Di Stefano del 23 giugno 2016 su quotidiano “LA VOCE”.

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MAURIZIO DAMIANO

Dall’Etna alle piramidi

Nostra intervista esclusiva con l’egittologo Maurizio Damiano, randazzese.

 

Maurizio Damiano

Egittologo, archeologo, Maurizio Damiano è oggi in Italia e all’estero un’autorità in materia, un nome associato a numerosi scritti, a tante spe­dizioni, organizzate e dirette in prima persona, un’attività scientifica ad alto livello intrapresa con la caparbietà e la passione che soltanto i sici­liani possiedono, quelli che sentono scorrere nel­le vene il fuoco dell’Etna, e fin da piccoli sono av­vezzi ad inerpicarsi per i suoi impervi sentieri.
Nasce a Randazzo nel 1957, i genitori sono due medici, l’ambiente familiare piuttosto aperto e stimolante, non mancano i viaggi ed i riferi­menti culturali, e poi c’è il nonno, Antonio Petrullo, con i suoi ri­cordi dell’Africa, a gettare inconsapevolmente un seme destinato a germogliare con gli anni.
Né va dimenticato lo zio materno, Alfio Petrullo, geniale scrittore, poeta e ricercatore del Tutto che pone i semi di un’apertura mentale, all’epoca di certo inusuale, nella mente del giovanissimo Maurizio.

Quest’ultimo fre­quenta la scuola statale, le medie al San Basilio, ed il Liceo, dove incontra, come professore di Storia dell’Arte, don Virzì, ed ha modo di affinare, nei lunghi colloqui con lui, la già grande passione per l’archeologia, nata probabilmente dalla fascinatio esercitata su di lui da bambino dagli spettacoli al Teatro Greco di Siracusa che vedeva assieme ai genitori; una passione per l’archeologia indirizzata e resa più solida dalla preparazione con don Virzì, e che Maurizio esterna esplorando con gli amici il territorio circostante.
A quel tempo colti­va anche l’hobby della pittura.
Poi la svolta: a 17 anni, assieme alla famiglia, lascia Randazzo, si iscrive a Medicina sotto la pressione dei genitori, ma poi la lascerà per Scienze naturali all’Università di Pavia, ma si laurea nell’88, perché nel frattempo premo­no altri interessi: la scintilla scocca quando visita il Museo Egizio di Torino, e ne incontra il diretto­re, Silvio Curto, poi sovrintendente per le Anti­chità Egizie in Italia, sotto la cui guida inizia gli studi di Egittologia.
Da quel momento ha incon­trato la sua vocazione e la sua strada.
Si specializ­za in Archeologia Egizia; poi in Storia ed Archeo­logia Nubiana, tiene corsi e seminari, diventa col­laboratore del Museo Egizio di Torino, e dal 1998 inizia l’attività di docente all’Università Aperta di Imola.
A quella teorico scientifica si affianca un’attività pratica frenetica ed incessante: fonda e coordina il Progetto Nubia (1979-1988), finanziato negli anni da vari sponsor, tra cui il ministero per gli Affari Esteri e l’istituto Italo-Africano, lavora in Sudan con varie agenzie dell’ONU; dal 1979 effettua ri­cerche nei deserti d’Egitto e Nubia.
La Nubiologia diviene la sua prima specializzazione, il «Progetto Nubia», infatti, è un progetto esplorativo e di ca­talogazione delle antichità della Nubia sudanese, grazie al quale si è resa possibile la creazione del primo archivio fotografico delle antichità nubia­ne e delle civiltà limitrofe (ad oggi uno dei più grandi archivi al mondo: oltre 1.000.000 di immagini dell’Egitto, Libia, Giordania, Israele, Libano, Siria, ecc., e una vastissima cartografia archeologica computerizzata).

Al nome di Maurizio Damiano sono lega­te scoperte e rinvenimenti di interesse storico: numerose necropoli meroitiche, un tempio dello stesso periodo, necropoli dell’epoca di Kerma e centinaia di siti preistorici.
Tra l’altro è ideatore e coordinatore generale del «Progetto Prometeo», di ricerca nei deserti d’Egitto e Sudan, in seno al quale ha esplorato per primo le aree più lontane del Deserto Occidentale egiziano, realizzandone la cartografia; ha scoperto l’oasi di Zerzura (quel­la cercata invano dal protagonista del film II pa­ziente inglese), la «pista di Alessandro Magno», un villaggio minerario egizio, cave, miniere, for­tezze romane… colmando inoltre varie lacune storiche.

Maurizio Damiano


Ha contribuito a fondare il CISE (Centro Italiano Stu­di Egittologici) di Imola e fondato il CRE (Centro Ricer­che Egittologiche) di Verona, organismo tutt’oggi da lui diretto che, fra l’altro, si occupa di realizzare la ricostruzione in realtà virtuale di intere aree archeologiche, e che ha ricevuto la concessione per la missione permanente di ricerca e scavo nel deserto presso la Valle dei Re e la costruzione di una sede a Tebe, poi mutata nell’ampia concessione per l’intero Deserto Occidentale egiziano, in cui le ricerche sono state portate avanti sino al 2011 e poi interrotte per le vicende politiche e la proibizione da parte dei militari a qualsiasi accesso nell’area, ritenuta pericolosa per la situazione libica.
Nel frattempo Maurizio Damiano, che è membro di varie associazioni cul­turali internazionali, organizza mostre, come quella del 1984-85 nella Galleria del Sagrato a Milano, tiene cicli di conferenze, partecipa a con­vegni, prende parte a servizi radiofonici e televisi­vi per la Rai e le Tv private, scrive libri, relazioni ed articoli.
Ne ha pubblicato circa un centinaio, per riviste italiane ed estere, quali Archeologia Viva, Historia, Farmacia Naturale, Nigrizia.
Fra le pubblicazioni, che ad oggi contano 21 volumi in Italia e all’estero, ricordiamo:
Oltre l’Egitto: Nubia (Electa, 1985), Il sogno dei faraoni neri (Giunti, 1994), Egitto e Nubia (Mondadori, 1995), Dizionario en­ciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà nu­biane (Mondadori, 1996), la grande opera divul­gativa Egitto.
L’avventura dei faraoni fra storia e archeologia, in quattro volumi, edita anche a fa­scicoli per la Fabbri, la realizzazione di due Cd­rom: I tesori del Nilo (1998) e La Valle ‘dei Re (1999), e i due DVD di 150 minuti: Le meraviglie d’Egitto. (2004). 

Nell’immaginario collettivo l’archeologo è sempre stato una figura affascinante, che vive esperienze ed avventure misteriose.
Ma oggi il nostro personaggio, oltre alla vanga, usa anche il computer, e per condurre le sue ricerche e realiz­zare le sue opere si avvale di tecnologie moderne e sofisticate.
A dispetto di quanti, nell’era di In­ternet, vorrebbero mandare in soffitta tutte le di­scipline «antiche», l’archeologia oggi ha avuto un nuovo impulso, e sembra po­tere registrare ancora notevoli progressi proprio grazie al sussi­dio delle scienze informatiche e multimediali. Sposa­to dal 1987 e separatosi nel 2014 per il ritorno della ex moglie nella città natale (Parigi; e come non comprendere la nostalgia del paese natìo?), è padre di Louise e Colette. Abbiamo sentito di recente Mau­rizio Damiano, che oggi vive a Ve­rona, abbiamo avuto modo di chiedergli della «sua» Africa, del­le sue scoperte, dei suoi progetti, ma anche delle sue radici, di ascoltarlo raccontare e raccontar­si con quella colloquialità, sciol­tezza e disponibilità che contrad­distingue le persone di una certa levatura.

–     Com’è nato l’interesse per l’archeologia e per l’Egitto? Ci sono state figure determinanti per le sue scelte, o che abbiano contato in maniera speciale nella sua vita e nella sua formazione?

Per l’archeologia mi sembra di averlo sempre avuto dentro. Mio padre aveva nella sua bibliote­ca molti libri di archeologia, che io sfogliavo. A 6 anni chiedevo di portarmi qua e là, al teatro gre­co di Siracusa, di Taormina, a Paestum…. Sono stati determinanti i miei senza volerlo, poi don Virzì.
Conoscere don Virzì è stato fondamentale: questa passione “selvaggia” lui ha saputo inca­nalarla, andavamo in giro insieme a fare foto­grafie per Randazzo e come mi diceva sempre avrebbe voluto che io continuassi la sua opera; ma la vita ha deciso diversamente. Poi, quando sono andato al Nord, il prof. Curto è stato un Maestro e un padre spirituale per me.

–   Negli ultimi anni si è assistito ad una sorta di revival, di riscoperta di massa dell’Egitto, at­traverso viaggi organizzati, servizi televisivi, pubblicazioni a carattere scientifico e divulgati­vo, o best-seller come quelli di Wilbur Smith e Christian Jacq. Cosa ne pensa e che valore dà a questo fenomeno?

Maurizio Damiano

Questo fenomeno, in realtà, a livello interna­zionale è sempre esistito, in Francia ed in Inghil­terra, fin dai tempi della Rivoluzione francese, e in Francia non è mai smesso.
Napoleone teneva dei racconti di viaggi sul comodino, e portò in Egitto i soldati ma anche i “savants”: studiosi, cartografi, archeologi. Anche se militarmente la spedizione è stata un fallimento, dal punto di vi­sta scientifico non lo è stata. Quanto a Jacq, ha smesso di fare l’egittologo per scrivere romanzi.
Non è un grande romanziere, ma i suoi libri han­no due meriti: poiché è un egittologo, il 60% del­le cose che dice, l’ambiente che ricostruisce, sono abbastanza corretti, e ha il merito poi di aver fatto conoscere l’Egitto, mentre prima se ne occupa­vano solo le fasce medio-alte. Dopo Jacq c’è stata un ’impennata delle vendite dei libri più scientifi­ci. Smith è un grande romanziere, un ottimo professionista, ma ciò che scrive non ha alcun valore egittologico. Purtroppo non sono corrette neppure le cose più elementari, ma la gente pensa di imparare leggendo i romanzi, falsando tutto.

–   Indubbiamente quello degli antichi Egizi è un mondo affascinante, anche per i profani. Lei che, essendo un esperto in materia, ha potuto conoscere da vicino e a fondo questa civiltà, che lezione ne ha ricavato?

Tante. Gli Egizi erano più avanti di noi in mol­ti campi: nel rapporto uomo-donna erano più avanti, non solo rispetto agli arabi, ma anche ri­spetto a noi. A certe conquiste noi ci siamo arri­vati oggi, loro ci erano arrivati già. La donna era l’altra metà del cielo, c’era un rapporto paritario.
Dall’operaio al faraone, la donna era sullo stesso piano dell’uomo, sempre. Il dio creatore ha una parte femminile in sé, il Faraone non è completo se accanto non ha la regina. La dualità per noi è contrapposizione, per loro completamento e ar­monia. Un’altra grande lezione in campo sociale (che non poteva essere separato da quello religioso): l’umanità era il “gregge di Dio”, quindi andava rispettato. Gli Egizi avevano per tutti molta con­siderazione, anche per chi era in fondo nella sca­la sociale. Non c’erano gli schiavi. Questa con­vinzione è derivata da due fonti: la Bibbia, e la cultura greca, che sono le nostre basi.
La Bibbia doveva dare identità al popolo ebraico, e gli Ebrei sentivano come una cosa forzata le corvée obbli­gatorie che effettuavano gli egizi durante le pie­ne del Nilo, quando non si lavoravano i campi, facendo tutti i lavori pubblici, ingaggiati dal Fa­raone.
L’altra fonte furono i Greci, in particolare Erodoto, che scrisse dopo 2000 anni circa, nel V sec. a.C.: poiché in Grecia, anche nell’Atene di Pe­ricle, c’erano gli schiavi, per lui era ovvio che i templi e le pirami­di li avessero costruiti loro.

–   Oltre che come studioso, co­sa le ha insegnato l’Egittologia come uomo? Pensa che dopo millenni i Faraoni abbiano ancora qualcosa da dire e da dare all’uomo del 2000?

Maurizio Damiano-Appia

Rispetto per l’essere umano, di qualsiasi categoria, sesso, razza. Era una società multirazzia­le, ma contavano quelli che si erano inseriti nella società, i prigionieri di guerra potevano anche far carriera. Quando disprezzavano il nemico, era per ragioni di guerra, non razziali. Il nubia­no lo disprezzavano perché non egiziano, non integrato, mai perché nero. Il nubiano che, trasferitosi in Egitto si integrava, era un egiziano che poteva divenire poliziotto, ufficiale, generale. Per me il fatto di vivere lì con quella gente, parlando la loro lingua, mangiando assieme, mi ha formato, è stato parte integrante della mia vi­ta.

–   Quali lingue conosce?

L’italiano – posso dire anche il siciliano? -, il francese, l’inglese, l’arabo, lo spagnolo, naturalmente l’egizio antico, poi ho conoscenze di ebraico, gre­co antico e moderno, latino.

–   Parliamo delle sue esperienze: che emozione si prova a penetrare in luoghi inaccessibili da se­coli, da millenni, a scoprire una tomba, antiche tracce di esistenza? Può descrivercelo?

Continuo a rimanere un adolescente entusia­sta, penetrare in una tomba, vedere che non è vuota, che ci sono ancora delle mummie, mi dà quell’emozione, quel batticuore, tutte le cose che potrebbe provare un profano. Magari il profano vuole toccare, mentre lo scienziato non tocca niente, fotografa, disegna, rileva, documenta tutto. Ma questa attesa, questa necessità di distacco aumenta la gioia della scoperta. Ma questo è vero anche per la scoperta di un sito preistorico nel deserto, o per l’emozione di scoprire una pittura rupestre o un graffito preistorico di 10.000 anni fa.

–    Qual è la scoperta che le ha dato più soddi­sfazione? E quale ritiene la più importante?

La più importante forse è l’oasi di Zerzura, nel ‘92 – Rai 3 allora ha fatto un bel servizio – e poi la pista di Alessandro. È stato bello perché sono state scoperte ragionandoci a casa, studiando le cartine, mettendo assieme gli elementi del puzz­le. Ho teorizzato, sono andato a vedere, ed è sta­ta una soddisfazione, mentre altre cose sono sta­te più “casuali”, benché l’esplorazione programmata a tappeto di aree vastissime non abbia nulla di casuale. Venendo ai nostri giorni, la “scoperta” è nella mente e nel lavoro di 37 anni che dà i suoi frutti: la creazione del “Velo di Iside”, la prima grande enciclopedia sull’Egitto, in 30 volumi. L’emozio­ne non muore mai.

–    Oggi che è un nome nel campo dell’archeologia, è soddisfatto? Si sente «arrivato»?

Non si è mai soddisfatti. Essere soddisfatti vuol dire fermarsi, stagnare. Non è solo per la fama: ho rifiutato degli inviti in TV quando mi accorgevo che non erano cose serie.
Non mi sento arrivato, spe­ro di non sentirmici neanche a 90 anni. E in ogni caso,molti colleghi accademici (ovviamente italiani) mi guardano come qualcuno che non è affatto “arrivato” poiché ho dedicato una parte della mia vita alle pubblicazioni divulgative; la divulgazione è più difficile della specializzazione; Einstein diceva che per comprendere se sappiamo davvero qualcosa dobbiamo saperla spiegare anche a un bambino. Uno di questi colleghi mi ha detto che lui “non scrive per la piazza”; io si: ne sono fiero ed io stesso sono “la piazza”.

–   Programmi per il futuro, progetti in cantiere da realizzare? A cosa sta lavorando?

Dopo la missione tebana, conclusa dopo pochi anni per la riapertura del Deserto Occidentale alle nostre ricerche sino al 2011, dopo il Cd-rom “I tesori del Nilo” e i DVD, dopo i 21 volumi, ho pensato che fosse tempo di pubblicare il frutto di una vita di lavoro e di scoperte, il mio archivio; ciò si concretizza nel “Velo di Iside”, l’Enciclopedia in 30 volumi cui ho accennato; ho interrotto tutte le mie attività, salvo l’insegnamento, per dedicarmi a quest’opera, la prima al mondo di questo tipo, che spero di finire entro un paio d’anni, anche perché usufruisco del valido aiuto nella grafica di mia figlia Colette che, nonostante i suoi 17 anni, è una “figlia dei computer” ed è bravissima nell’allegerirmi da questa parte di lavoro.

–    Se permette una domanda più personale, ad un certo punto ha aggiunto al suo il nome di sua moglie, «incontrata nella libertà dei deserti di Nubia». Potrebbe spiegarcelo meglio?

Maurizio Damiano – Egittologo

L’ho preso “per amore”, altro insegnamento degli Egizi.
Lei aveva piacere che prendessi il suo cognome, Appia è un nome molto antico, roma­no, con delle tradizioni.
Per un periodo ho firmato come Damiano-Appia; poi, dopo 27 anni felici, ha vinto la nostalgia della patria natia e la nostra storia si è chiusa, lasciando due figlie meravigliose, un ricordo splendido e un immenso affetto.
D’altronde, come dicevo prima, io, siciliano lontano dalla mia terra, come potrei mai non comprendere quello struggente canto di sirena, quel desiderio immenso di tornare “a casa?”.
La sua casa è lì, ma la mia è qui, in un’Italia piena di difetti ma pur sempre meravigliosa.
E la mia opera deve essere italiana, deve vedere la luce qui; dovranno essere gli altri paesi, una volta tanto, a prendere qualcosa di italiano.
Da qui la separazione, ma nella serenità e nella luce di nuove vite.
Anche questo insegnavano gli Egizi: la vita è cambiamento, e i piani degli Dèi sono misteriosi.

–    Quasi tutti i suoi scritti sono dedicati ai familiari. Che ruolo ha la famiglia nei suoi studi? E come riesce ad organizzare la vita privata con tutti gli impegni scientifici ed accademici?

La mia fortuna è di lavorare in casa, ho il mio studio a casa, e benché lavori anche dalle 8 alle 3 di notte, ho avuto sempre il tempo di stare con la mia famiglia; oggi la mia ex moglie non c’è più e altri amori occupano il mio cuore; la figlia maggiore vive e lavora a Parigi, con successo, e la minore vive con me. Abbiamo la nostra libertà, ma sappiamo dedicarci il tempo del calore umano, che non dimentichiamo mai. Nelle spedizioni, cercavo di non stare via più di 20 giorni, poi ho sempre rielaborato a casa il materiale.

–     I Latini dicevano «nemo propheta in pa­tria», e un proverbio randazzese dice: «cu’ ne­sci, rinniesci». È il suo caso?

Non lo so, non posso dirlo io. Una cosa posso dire di sicuro: le possibilità culturali che ho tro­vato al Nord sono diverse, l’Egittologia un tempo non avrei potuto svilupparla, non fino a Napoli almeno. Comunque, devo dire che Randazzo per quanto mi riguarda smentisce il proverbio, perché ha sempre riconosciuto il mio operato.

Maurizio Damiano

–   Qual è oggi il suo rapporto con la Sicilia, col suo paese d’origine, con le sue radici?

Non manco di venire ogni anno, gli amici che avevo a 4-5 anni li ho tuttora.
La Sicilia è sempre viva in me, l’amicizia è un sentimento cui do molto valore, qui al Nord c’è ovviamente il concetto dell’amicizia, ma non proprio come sentimento prossimo, o piuttosto come sfumatura, dell’amore, come io lo considero.
L’amicizia è la co­sa più bella che mi abbia dato la Sicilia, oltre all’amore per la natura.
Allora uscivo sull’Etna a camminare, a correre fra i boschi; oggi ogni domenica vado con gli amici sulle splendide montagne del veronese, dal Baldo, che domina il Lago di Garda, alla Lessinia; sono fra i 16 e i 25 km in giornata (fra i 600 e i 1200 m di dislivello) e se faccio questo a 60 anni saltando (come dicono gli amici) come “uno stambecco dell’Etna” beh… lo devo alla mia Sicilia.

  Conta di stabilire ancora qualche legame con suoi luoghi d’origine?

Dipende da voi. Io il legame ce l’ho sempre. Sa­rebbe bello creare un bel museo didattico, questa è una cosa che mi piacerebbe fare per i giovani di Randazzo. Se vi sarà la volontà politica, le sale, i mezzi, io posso dare la disponibilità ed il mate­riale, queste cose posso farle per il mio paese.
Pensavo ad un museo dove si alternino testi, fo­tografie, modellini, reperti; vede molti anni fa organizzai a Milano una grande mostra; ebbi la gioia di vedere prendere appunti dai bambini, e dal mio professore, Silvio Curto:  questo è il tipo di museo che io vorrei, un museo didattico che sapesse raccontare la storia della nostra cittadina parlando a tutti, dai bambini ai più colti.
Su un libro di Maurizio Damiano c’è una bellissima dedica (che qui l’autore aggiorna con l’aggiunta del nome della seconda figlia), che credo possa riassumere la sua vi­ta, i suoi percorsi, le sue emozioni, i suoi affetti:
«A Noelle, Louise, Colette, cui devo la gioia profonda che illumina la mia vita. Ai viaggiatori dell’infinito, ai cercatori del passato, ai compagni di strada. A chi crede nei sogni e a chi sa renderli realtà, per avermi accompagnato, per avermi reso ciò che sono. Al vento e alla sabbia, per avermi mostrato un riflesso di Dio».

Maristella Dilettoso
Gazzettino n.23 del 17 giugno 2000, aggiornata con l’autore nel 2017

 

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                                                                          —————

 

Maurizio Damiano – “IL VELO DI ISIDE” – Enciclopedia d’Egitto e Nubia (30 volumi)

L’Autore ci ha fornito un estratto da poter visionare

 

segue

Incontri,  Manifestazioni,  Dibattiti Formativi.

 

 

       
       
       
   
       
       
       
       
       
       
       
       

 
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All Giza Pyramids

   
       
       
       

 

 

Francesco Finocchiaro

 Il dottor Francesco Finocchiaro (nato a Randazzo il 23 luglio 1864, morto il 19 ottobre 1938), “chimico e farmacista”, conduceva la sua farmacia nella prima metà del secolo scorso sulla via Umberto, nei pressi di San Martino: era la tipica farmacia d’una volta, con vasi e alambicchi allineati sugli scaffali, dove lo speziale preparava con le sue mani rimedi e antidoti per ogni infermità, una farmacia come quelle descritte da Giovanni Verga o da Vitaliano  Brancati, una sorta di Circolo Cittadino, frequentata alla sera da amici e conoscenti, dove confluivano tutte le notizie e le chiacchiere del paese, si progettavano scherzi memorabili, si leggevano le composizioni più salaci destinate a pochi intimi.
Pare che il dottor Francesco Finocchiaro fosse piuttosto bravo nella preparazione di sciroppi e per qualche suo preparato aveva anche ottenuto il brevetto.
Nella attività lo affiancava il fratello Gabriele (nato l’11 settembre 1870), che coltivava un animo d’artista: dipingeva,

Dr. Francesco Finocchiaro, chimico e farmacista – Randazzo

realizzava caricature e vignette umoristiche, intrecciava canestri e all’occasione praticava anche la tassidermia (imbalsamazione di animali).
Sarebbe scomparso il 7 agosto 1943, durante i bombardamenti cui aveva sperato di sottrarsi rifugiandosi, come tanti altri, nella chiesa di S. Martino, ritenendola un luogo sicuro. 
In tempi, come quelli, di scarsa alfabetizzazione, i pochi “uomini di penna” godevano di una certa fiducia e considerazione, al momento di dovere scrivere una lettera, un contratto, richieste  queste che il farmacista soddisfaceva sempre, e spesso in versi. 
I due fratelli, spiriti arguti, dalla penna sciolta e la rima facile, poetavano su tutto e tutti. 
Non esiste purtroppo una raccolta organica dei loro scritti, se n’è potuta avere memoria frammentariamente, e solo attraverso fonti orali, ormai estinte, di “discepoli” e frequentatori, pagine di vecchi giornali e trascrizioni.
La loro poesia era spesso estemporanea, ma mai illetterata, tanto in lingua che in dialetto, nel pieno rispetto della metrica, una poesia dal fraseggio sciolto, disseminata di doppi sensi, finissime allusioni, citazioni dagli autori classici.
I farmacisti seguivano attentamente la vita politica locale e nazionale, le loro composizioni trovavano spazio su fogli satirici dell’epoca, quali “ U trabanti” di Bronte,” L ei è la rio ” di Catania, e altri ancora, firmate spesso con lo pseudonimo di Turi Raspa, dove trattavano tutti i problemi della Randazzo del tempo: acqua, illuminazione, ferrovia, ospedale, igiene pubblica… Purtroppo a chi legge adesso, potranno sfuggire tanti riferimenti a fatti e personaggi distanti parecchi decenni non conoscendone il contesto, ma nonostante ciò la loro poesia ed i temi trattati si rivelano attuali e piacevoli ancora oggi.

Maristella Dilettoso  dal libro  “POETI RANDAZZESI DEL PASSATO” IX Rassegna di Poesie Dialettali e in italiano :“Versi e parole nelle parlate galloitaliche di Sicilia” –  2013  edito dalla Pro Loco di Randazzo.

 

  1. SALVATORE RASPANTE DETTO “TURI RASPA”. 

Da un vecchio cassetto è sbucato fuori un antico opuscoletto di poesie dialettali dal titolo Poesie Siciliane” di Turi Raspa che ci rappresenta una situazione politico-sociale dei primi del Novecento, ci è sembrato opportuno presentarvene una nella versione originale.

 

A Franciscu Vitu Gasparazzu: (Notizi supra a situazioni politica a Rannazzu: “Arriva l’acqua ri Pietri Janchi?”

 

Sta’ vota a Gasparazzu mi presentu /ccu la facci cascata e ccu la cuda

a ‘mmienzu li gammi e triemu ri spaventu /si non cci scrissi nun fu curpa mia,

ma tutta di la nostra Ferrovia-/ 

La nostra Ferrovia , lu sannu tutti/ogni dui e tri cummina sti frittati,

di li giusti pretisi si nni frega…./ma pagatili .ppi favuri ,l’impiegati!

E viditi cca cessanu ‘ntra nenti/vuci, minazzi,scioperi e lamenti.

Ma st’argumentu a nui nn’importa pocu,/e parrari di “ l’acqua” nni cunvieni,

giusta comu vi dissi: a tempu e locu/diremu di la nivi cosi ameni,

rimannannu a la prossima simana/li fattarelli ri la gna’ Bastiana.

“L’acqua” ,vi dissi vieni, ri Muntuni/evi chiara frisca e trasparenti,

si arrivati a tastarini un buccuni,/viditi chi vi stronanu li denti.

Ma l’acqua non verrà ‘nta lu paisi/s’evi guvirnatu ri li Rannazzisi.

Già un cunsigghieri ,ri li cchiù arraggiati,/di chilli chi v’aggiustanu lu munnu,

ccu quattru scarabocchi e du’ parrati,/a la questioni cci tuccau lu funnu,
cu stu’ discursu fattu tempu arreri/avanti nauntri setti cunsigghieri.

Si ‘i Vaiasinni avissuru a chianari,/st’acqua a Rannazzu nun cci vieni mai;

si turnassi Pulizzi a guvirnari/dici chi st’acqua costa troppu assai.

I pupulari vincinu ? E allura/Muntuni evi chiusu ‘nda ‘na sipultura!

Pinsari ad autra acqua evi ‘na fissaria/chilla ri Vaiasinni evi ‘nsufficienti…

-Cunsidirati chilla De Maria…/Gugliermu non cunchiuri; finalmenti

resta Muntuni, e alluri evi necessariu/cca ristassi tru nui lu Commissariu.

 

L’acqua detta di “Pietre Bianche” proviene dalle sorgenti di Portale o Pietre Bianche, Tortorici (ME) a circa 1350mt. sul livello del mare, portata acqua circa 7 litri al secondo. Sorgente di Montone-territorio di Randazzo circa 1275 mt.sul livello del mare, (portata:  1 litro/sec). La condotta che raccoglie l’acqua  delle due sorgenti arriva al Serbatoio dei  Cappuccini, dopo avere attraversato alcune  zone, tra cui  Roccabellia e Murazorotto.
E’  il 1° acquedotto costruito a Randazzo (1906/1907). sindaco pro- tempore  Gualtiero Fisauli. Acque eccellenti e saluberrime sono definite dalla ” Relazione a cura del Prof.Eugenio Di Mattei-Università di Catania”.

A cura di Silvia Vagliasindi  dal libro  “POETI RANDAZZESI DEL PASSATO”  IX Rassegna di Poesie Dialettali e in italiano :
“Versi e parole nelle parlate galloitaliche di Sicilia” –  2013  edito dalla Pro Loco di Randazzo.

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Un originalissimo contratto di affitto di una abitazione scritto in versi dal dr. Francesco Finocchiaro  gentilmente concesso da Pippo Dilettoso.

 

CONTRATTO DI LOCAZIONE 

 

L’anno di grazia novecentoquindici/Fatta in Randazzo il 29 Giugno

Avanti i testi che si rendon vindici/E sottoscrivon con il proprio pugno,

Si convien quanto appresso sarà detto/E quanto infine poi sarà riletto.
 

Zingali Santo cede in locazione/A Ciccio Garagozzo fu Bastiano

Una bottega per abitazione/La qual sarà pagata mano a mano,

Come suol dirsi a terzo anticipato/E come meglio qui sarà spiegato,

 

Il primo terzo all’ultima di Agosto/Ed il secondo il primo di gennaio

L’ultimo terzo sarà corrisposto/Il primo Maggio, ed è evidente, chiaro

Che lo Zingali lascerà quietanza/Di nulla più a pretender della stanza.

 

Il Garagozzo s’obbliga osservare/Alla sua volta i patti tali e quali

La bottega non può subaffittare/Se non dietro permesso del Zingali

S’obbliga infine di non far rumore/Giusta le leggi urbane oggi in vigore.

 

Ciò non vuoi dire che durante il giorno/Non possa fare chiavi, serrature,

Maniglie, saliscendi o qualche adorno,/Purché la notte non dia seccature.

Né si potrà lagnare il vicinato/Se esercita il mestiere a cui è portato

 

Il prezzo convenuto è lire trenta/Da ripartirsi come sopra è detto

Zingali dal suo lato si accontenta,/mentre l’accordo al Garagozzo è accetto

Dietro tai patti espliciti ed asciutti/Contenti loro due contenti tutti

L’affitto ha sol di un anno la durata/E col trentuno Agosto avrà scadenza

Può venir questa scritta rinnovata/Se le parti ci trovan convenienza

In questo caso basta solamente/Scrivere un cenno in calce alla presente.

 

S’obbliga Garagozzo custodire/La casa da buon padre di famiglia,

Usarla con decoro e pria di uscire/Riconsegnarla tale e qual la piglia

non occorre concedo perché è patto/Che il termine suddetto val di sfratto.

 

Vien la presente in doppio originale/firmata per comune garanzia

Ed è inutile dire che essa vale/Come se da Notar redatta sia,

Cautela non pregiudica, io dico,/Come diceva pure il motto antico,

 

Qualora si dovesse registrare/La scrittura privata qui presente,

Tutte le spese si dovrà addossare/Chi trasgredisce i patti o se ne pente.

Stabilite cosi le condizioni/Alla firma si vien dei testimoni.

   

 

 

 

Mons. Vincenzo Mancini

 

Una delle personalità più illustri che la Città di Randazzo abbia avuto nel secolo appena scorso è certamente quella di mons. Vincenzo Mancini, per tanti anni Arciprete-Parroco della Basilca di Santa Maria di questa Città, nonché Vicario Foraneo della Diocesi di Acireale e Prelato domestico di Sua Santità il Papa .

Arciprete Don Vincenzo Mancini – Basilica Santa Maria, Randazzo

Nato a Randazzo il 26 agosto del 1921, da Biagio e da Anna Lo Giudice, stimati  commercianti randazzesi, il giovane Vincenzo, ultimo  di quattro figli (gli altri tre fratelli erano Giuseppina,  Angela  ed Alessandro) sentì molto presto la vocazione sacerdotale ed entrò giovanissimo, per intraprenderne gli studi, al Seminario vescovile di Acireale.
Era stato battezzato il 17 settembre 1921 e – come si diceva prima – dopo essere entrato nel Seminario di Acireale, poco prima della Prima Tonsura, avvenuta il 23 dicembre 1929, il 6 dicembre riceveva il sacramento della Cresima nella chiesa di San Nicola, in Randazzo.
Superati brillantemente i primi studi ecclesiastici, il 16 giugno 1940 riceveva in Seminario gli Ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato, mentre l’anno successivo, il 13 luglio 1941, riceveva quelli dell’Esorcistato e dell’Accolitato.
Il 22 novembre 1942, dopo averne fatto richiesta scritta rigorosamente in latino – com’era uso del tempo –, riceveva l’Ordine del Suddiaconato.
Il 31 ottobre 1943 veniva ordinato Diacono.

Come si ricorderà, erano, quelli, gli anni tristi della Seconda Guerra Mondiale,  e  solo un mese prima la famiglia Mancini era stata colpita da un gravissimo lutto per la  scomparsa  dell’amato figlio Alessandro, perito in mare i1 9 settembre 1943 (appena un giorno dopo la promulgazione dell’armistizio fra l’esercito italiano e quello alleato), al largo dell’isola della Maddalena, nell’affondamento della corazzata Roma causato da parte  dei Tedeschi.
Il 4 marzo 1944, il giovane diacono Vincenzo Mancini veniva consacrato sacerdote.
La città di Randazzo, in verità, non si era ancora completamente destata dall’incubo  dei bombardamenti angloamericani, e dovunque non vi erano altro che macerie, lutti,  fame e distruzione. Persino il clero, in quei tristi momenti, dovette impegnarsi per   offrire  assistenza  e sostegno alla popolazione così duramente colpita. 
Inviato dall’obbedienza vescovile a svolgere il proprio ministero sacerdotale quale vicario cooperatore presso la Basilica di Santa Maria Assunta in Randazzo, da allora  in poi, sino alla morte, la sua vita rimase legata strettamente ed inscindibilmente a  quella  della sua  Basilica e della sua Parrocchia. 
Cooperò per tanti anni con l’indimenticabile arciprete mons. Giovanni Birelli a cui succedette nella carica a partire dal 1° novembre 1966.
La signorilità del tratto e la profonda vita di pietà rendevano mons. Vincenzo Mancini una persona amabile.
Facile al sorriso che sgorgava dal suo viso illuminato dagli occhi verdi-azzurri, egli dimostrava sempre, e con tutti, grande senso di accoglienza e massima disponibilità.
Per tanti anni svolse anche la funzione di Vicario Foraneo del VI Vicariato di Acireale, il cui comprensorio giuridico ed amministrativo, oltre a Randazzo, si estendeva anche ai vicini centri di Linguaglossa e Castiglione di Sicilia. Ruolo, questo di Vicario Foraneo, che Mons. Mancini  svolse sempre con grande dignità e  competenza, grazie anche a quella scienza, umiltà, prudenza, saggezza, capacità di mediazione ed autorevolezza che  sempre lo contraddistinsero.
Una nomina ancora, questa di mons. Mancini a Vicario Foraneo, condivisa – e quindi apprezzata –  da più Vescovi succedutisi nel tempo.
Veramente tanto il lavoro da lui svolto in moltissimi anni di sacerdozio, così come, del resto, in tutta la sua vita: dal campo apostolico e pastorale a quello educativo e sociale.
Di lui si ricorda, infatti, non solo la sua attività di pastore e curatore di anime, ma anche quella di insegnante e di educatore nelle varie scuole. Piace ricordare, solo per fare un esempio, il grande formatore quale egli fu, soprattutto al Liceo Classico “Don Cavina” di Randazzo, amatissimo dai giovani, dove si distinse per grande serenità, compostezza ed equilibrio, soprattutto nei tormentati anni delle contestazioni giovanili, lasciando anche là un ottimo ricordo di sé e del suo apprezzato dialogo sia con i giovani sia con i colleghi insegnanti e dirigenti scolastici.
Nonché – si ricorda ancora – la sua figura di fondatore, curatore ed amministratore oculato e sempre attento, della Casa di Riposo “Paolo Vagliasindi del Castello”, sempre qui, nella nostra Città: una istituzione, questa della Casa di Riposo, senza la quale Randazzo sarebbe stata oggi certamente più povera; e non solo Randazzo, visto che ancora oggi la stessa Casa di Riposo è diventata confortevole residenza anche di parecchi ospiti anziani provenienti da diverse città limitrofe.
Oltre alla Casa di Riposo, ricordiamo pure che altre istituzioni benefiche videro  mons. Vincenzo Mancini sempre lavoratore instancabile, attento, scrupoloso.
Ed in tutte queste sue attività, nei loro molteplici aspetti, egli fu per tutti padre, fratello, amico e sicura guida. Sempre e dovunque, soprattutto, sacerdote.
Un sacerdote – come voluto dal Vangelo – che da Buon Pastore seppe, in ogni circostanza, aver cura del “gregge” affidatogli da Dio attraverso la sua Chiesa, servendolo con amore in ogni circostanza, lieta o triste che fosse.
Un sacerdote che con la sua condotta quotidiana, e con la sua premurosa sollecitudine  nei confronti di tutti, seppe presentare sempre, a credenti e non credenti, il volto di un ministero pastorale veramente paterno, rendendo a tutti piena testimonianza della Verità evangelica: come un Buon Pastore, andando non poche volte, con discrezione e garbo, alla ricerca del dialogo pure con chi aveva da molto tempo abbandonato la pratica religiosa o, peggio ancora, si era trasformato in acerrimo nemico della Chiesa.
E monsignor Mancini, con il suo instancabile lavoro pastorale, paziente e costante, seppe riuscire ad ammorbidire persino i cuori più duri. Per dirla con San Paolo, ha “sperato contro ogni speranza” e seppe riuscire ad ottenere i risultati prefissati, riportando all’ovile, seppure talvolta in extremis, diverse pecorelle che, purtroppo, si erano smarrite nell’intricato labirinto della vita.
Venerdì 4 marzo 1994 – in occasione del Giubileo sacerdotale dell’indimenticabile monsignor Vincenzo Mancini, celebrato nella Basilica di Santa Maria, a Randazzo –, il Vescovo di Acireale del tempo, mons. Giuseppe Malandrino, richiamava alla mente dei numerosi fedeli accorsi che il sacerdote, come mons. Mancini, è un uomo scelto da Dio fra gli altri uomini e posto al loro servizio per essere segno della sua presenza e del suo amore di Padre, fratello ed amico.
Ma “Padre Mancini” –  come veniva  familiarmente chiamato da tutti – a Randazzo non fu solo il curatore delle anime, premurandosi per le loro condizioni spirituali e intellettuali, bensì anche dei corpi, dei bisogni dei più umili, dei più poveri e dei più emarginati. Egli si mostrò sempre premuroso verso tutti, di qualsiasi età, condizione o stato sociale essi fossero: fossero  stati concittadini oppure ospiti di passaggio, oppure ancora stranieri, trattando tutti con grande cortesia e carità.

Chiunque abbia fatto ricorso al suo aiuto non è mai rimasto deluso.

Tre altri aspetti, di Monsignor Vincenzo Mancini, piace ancora brevemente qui ricordare:

Il primo : in perfetta sintonia ed in linea con i suoi predecessori, egli seppe sempre curare, ed in ogni aspetto, la splendida Basilica di Santa Maria, come se fosse la propria casa, rendendola sempre più bella e sempre più accogliente, con sapienti ed oculati lavori di restauro, facendo sì che la Casa del Signore fosse davvero quella di tutta la comunità cristiana.
Il secondo : la sua costante presenza negli avvenimenti, lieti o tristi che fossero, che riguardassero non solo la sua Parrocchia, ma anche tutta la Città di Randazzo.
Un uomo ed un sacerdote veramente ammirevole, Mons. Vincenzo Mancini, che nonostante l’incedere degli anni e dell’età, riuscì a conservare sempre, sino ai suoi ultimi giorni, uno spirito davvero giovanile, lavorando instancabilmente – per dirla col Papa emerito Benedetto XVI – nella Vigna del Signore. In tutte le occasioni – dicevamo –, liete o tristi che fossero: dagli avvenimenti personali e familiari (nascite, battesimi, cresime, prime comunioni, matrimoni o lutti), a quelli comunitari, come le varie Processioni religiose cittadine. Sempre presente, nonostante tutto. Nonostante persino le difficoltà che un simile servizio spesso comportava, soprattutto con l’implacabile incedere degli anni.
Un uomo e un sacerdote ancora, Padre Mancini – ed ecco il terzo aspetto – che si sentì sempre responsabile del bene spirituale e materiale di tutta la Città di Randazzo, divenendone un sicuro e certo punto di riferimento per tutti, essendo stato egli sempre super partes e prodigo a dare gli opportuni suggerimenti e più che preziosi consigli ogniqualvolta a lui da chiunque richiesti.
Un uomo veramente disponibile ed amato da tutti, Mons. Vincenzo Mancini, come peraltro stette a dimostrare il grande affetto dimostratogli dalla nostra città, e non solo, con la continua processione di persone di ogni ceto sociale, provenienti da ogni dove, che nella Basilica di Santa Maria ebbe luogo nei tre giorni in cui riposò la sua salma – con la cassa appoggiata per terra nello stesso identico posto dove 62 anni prima egli si era prostrato in occasione della sua ordinazione sacerdotale – per dargli ancora una volta l’ultimo affettuoso saluto prima dei funerali avvenuti nel pomeriggio di lunedì 1° maggio 2006.
Ed è per tutti questi motivi che l’Amministrazione Comunale di Randazzo, nel decimo anniversario della scomparsa terrena del suo Arciprete Mons. Vincenzo Mancini – avvenuta il 29 aprile del 2006 –, con delibera di Giunta Municipale n. 19 del 19 febbraio 2016, ha deciso di intitolargli il Largo antistante al lato nord della Basilica di Santa Maria, chiesa dove il Prelato domestico di sua santità il Papa, per oltre 62 anni, dal 4 marzo 1944 sino al giorno della sua morte, ebbe ad esercitare il proprio ministero sacerdotale e pastorale.

      Giuseppe Portale

 

Randazzo / Riconoscimento filiale per mons. Mancini. A dieci anni dalla morte, il Comune gli dedica una piazza.

Lo scorso 29 aprile, giorno del 10° anniversario della scomparsa di mons. Vincenzo Mancini,  la città di Randazzo ha voluto dedicargli una piazza con una cerimonia che ha visto la partecipazione di autorità religiose, civili, militari, parrocchiani e numerosi altri cittadini.

Maristella Dilettoso

Mons. Vincenzo Mancini era nato a Randazzo il 26 agosto 1921.
Seguendo una vocazione manifestatasi fin dall’infanzia, ricevette l’Ordine Sacro il 4 marzo 1944, dopo gli studi compiuti presso il Seminario vescovile di Acireale.
Erano gli anni tristi della guerra (solo pochi mesi prima il fratello maggiore, Alessandro, era perito in mare durante l’affondamento della corazzata Roma), Randazzo non si era ancora completamente destata dall’incubo dei bombardamenti e dell’invasione, dovunque vi erano macerie, lutti, fame e distruzione, e il clero dovette molto impegnarsi a dare assistenza e sostegno.
Fin dall’inizio del suo ministero, il neo sacerdote fu assegnato alla Basilica di S. Maria, e da allora la sua vita è rimasta legata strettamente, inscindibilmente, a questa chiesa, uno splendido tempio che affonda le sue origini nella leggenda, che si è arricchito nei secoli di tante opere d’arte, grazie anche al mecenatismo degli arcipreti che vi si sono succeduti, che ha accolto la comunità randazzese nei momenti più luminosi come in quelli più bui, superando, magnifica e indenne, terremoti, eruzioni e guerre.
Di questa chiesa mons. Vincenzo Mancini è stato, per ben 62 anni, custode e guida, dal 1° dicembre 1966, quando ne divenne arciprete e parroco, succedendo a mons. Giovanni Birelli.
La successiva nomina di vicario foraneo, da parte del vescovo di Acireale, gli conferiva un ruolo pastorale, oltre che giuridico e amministrativo, che si estendeva ben oltre i confini della parrocchia e della città di Randazzo, comprendendo anche Linguaglossa e Castiglione di Sicilia, ruolo di grande importanza, che lo promuoveva tra i più vicini collaboratori del vescovo, e che mons. Mancini ha svolto sempre con grande dignità e competenza, grazie a quella prudenza e innata saggezza, diplomazia, capacità di mediazione e autorevolezza, che lo hanno sempre contraddistinto.
Il suo impegno non restò circoscritto all’attività parrocchiale, ma si era esteso anche al mondo della scuola, con l’insegnamento presso il liceo classico “Don Cavina”, e all’assistenza agli anziani, perseguita e realizzata particolarmente attraverso la casa di riposo “Paolo Vagliasindi del Castello”.
L’istituzione, fondata nel 1929, e in un primo tempo aggregata all’ospedale civile, dal 1964 collocata in una struttura autonoma e dignitosa, lo ebbe nel 1956 commissario prefettizio, e dopo alcuni mesi presidente, carica, questa, che padre Mancini ricoprì, salvo brevi interruzioni, fino alla fine, e nella quale investì energie e impegno, promuovendo ampliamenti e ristrutturazioni dell’edificio, al fine di assicurare una vecchiaia e un’assistenza dignitosa e adeguata a tanti anziani di Randazzo e del circondario.
Rimase attivo e presente nella vita parrocchiale, anche quando il fardello dell’età e degli acciacchi aveva cominciato a rallentare il suo passo, e nonostante il peso dei gravi lutti familiari che gli era toccato di affrontare negli ultimi anni.
Si spense a 84 anni, il 29 aprile 2006.

L’Amministrazione comunale di Randazzo, considerato lo spessore del sacerdote e dell’uomo, e quanto mons. Vincenzo Mancini sia stato, nel corso del suo lungo mandato, un punto di riferimento, per tanti giovani, adesso cresciuti, per tanti anziani, per il clero locale, per la comunità parrocchiale e per la città tutta di Randazzo, con deliberazione di Giunta. n. 19 del 19.02.2016, stabiliva di dedicargli un’area cittadina.

Largo Mons. Vincenzo Mancini

La manifestazione del 29 aprile scorso, iniziata con una concelebrazione nella Basilica di S. Maria, presieduta dal vescovo della Diocesi di Acireale, mons. Antonino Raspanti, con la partecipazione dell’arciprete don Domenico Massimino e degli esponenti del clero di Randazzo, è proseguita con l’intitolazione dello spiazzo antistante il lato nord della chiesa e la sacrestia (‘a Tribonia), che si affaccia sul fiume Alcantara, e che da oggi, a ricordo di chi in quei luoghi ha operato per lunghi anni, si chiamerà “Largo mons. Vincenzo Mancini”.

Prima della scopertura della targa il sindaco di Randazzo, prof. Michele Mangione, ha sottolineato la presenza costante nella comunità cittadina di mons. Mancini, figura sempre “super partes”, il suo impegno religioso e sociale, mentre il vescovo ha voluto ricordare il ruolo di sacerdote, assolto con puntualità e zelo.

Maristella Dilettoso

 

ON.LE PAOLO VAGLIASINDI

      Maristella Dilettoso 

Paolo Vagliasindi era nato il 16 settembre 1858, terzo di 13 figli, da Francesco Vagliasindi, barone del Castello, e Benedetta Piccolo di Calanovela.
Nel 1882 si laureò in giurisprudenza a pieni voti presso l’Università di Roma.
Dopo aver esercitato la professione per qualche tempo, intraprese la strada della politica, che sentiva più congeniale: veniva eletto sindaco di Randazzo nel 1885, a soli 27 anni, e una seconda una volta nel 1887.
Erano tempi difficili: si cominciava ad agitare la vertenza per l’Opera De Quatris, che si trascinò per oltre 50 anni, e vide le opposte fazioni schierate su posizioni contrastanti, e per di più nel 1887 si diffuse un’epidemia di colera, che il giovane sindaco affrontò in maniera “disinteressata, fattiva, responsabile” (Virzì), organizzando lazzaretti, soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo i propri collaboratori, tanto da meritare più tardi l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo. Dimostrò il suo impegno alla guida del paese nel curare le strade, e nell’imprimere un nuovo impulso all’agricoltura, in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava l’economia di Randazzo.

Pensando di compiere un “salto di qualità” e di candidarsi al Parlamento, consapevole dell’importanza tanto di una base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostò il suo centro d’interessi verso il capoluogo, riorganizzando a Catania l’Associazione Monarchica, poi “Associazione Costituzionale”, di cui fu presidente fino all’anno della morte, e rilanciando il foglio La Sicilia, trasformandolo in un giornale rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”.
Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli, il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale, senza alcun rapporto di continuità.

Paolo Vagliasindi si candidò per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, schierandosi con i “Conservatori liberali”, per il Collegio Catania II (Acireale), ottenendo un brillante risultato.
Fu eletto deputato una seconda ed una terza volta nel 1894 e nel 1897 per il Collegio di Bronte, una quarta volta sarà eletto nel 1900 (XXI legislatura) per i Collegi di Bronte e Giarre, optando per Bronte. L’anno 1899, durante il secondo gabinetto Pelloux, data anche la particolare competenza dimostrata nel trattare i problemi connessi all’agricoltura, fu chiamato a ricoprire l’incarico di Sottosegretario del Ministero all’Agricoltura, Industria e Commercio, dicastero allora retto da Antonio Salandra. Manterrà l’incarico dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo.
Nel 1897 si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale avrà cinque figli: Laura, Benedetta, Emilio (l’unico maschio, che morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903), Maria ed Ersilia.

Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
L’anno seguente con R.D. 4.3.1900 otteneva il rinnovamento del titolo di barone, che diversamente sarebbe spettato solo al fratello primogenito Giuseppe, barone del Castello.

Nel 1903 il partito monarchico, rappresentato a Catania da Gabriello Carnazza, Guglielmo Carcaci, il principe Manganelli, dopo la sconfitta elettorale, decise di riorganizzarsi, e ne assunse la guida Paolo Vagliasindi.
Fra i tanti che vi aderirono, vi fu anche Giovanni Verga, alieno per temperamento ed educazione dalle lotte politiche.
L’organo del partito fino allora era stato il settimanale Le Marionette, ritenuto da molti troppo frivolo e polemico, cosicché il Vagliasindi disciplinò la stampa del partito, concentrando nelle sue mani, di fatto anche se non di nome, la direzione del quotidiano La Sicilia. Divenne in breve tempo il capo indiscusso del partito costituzionale a Catania.
L’esponente di spicco della parte avversaria era Giuseppe De Felice, leader della sinistra catanese.
L’antagonismo fra i due personaggi si esasperò in occasione della municipalizzazione del pane, voluta proprio da De Felice, cui seguirono lotte e disordini, e conobbe, in seguito, momenti di aspra rivalità, che culminarono in una sfida a duello, ma vi furono anche momenti di sana e leale competizione.

Paolo Vagliasindi si ricandidò per le elezioni del 6 novembre 1904 nel Collegio di Bronte, ma non fu rieletto.
Dai numerosi carteggi emerge come la sua rielezione fosse stata fortemente osteggiata in tutti i comuni del Collegio dall’azione del Prefetto Bedendo, longa manus di Giolitti nella provincia etnea, che favoriva invece l’elezione a deputato di Francesco Saverio Giardina, di Bronte, uomo di Giolitti.
Il Vagliasindi avrebbe poi sostenuto con prove documentarie e testimonianze, davanti alla Giunta delle Elezioni, come quelle votazioni si fossero svolte in un clima di intimidazioni e minacce ai suoi sostenitori, in tutto il Collegio di Bronte, messe in atto ad opera dell’opposta fazione e del prefetto stesso, ricorrendo anche alla violenza ed alla corruzione.
Caduto il governo Giolitti, Bedendo fu deposto, allontanato da Catania e sostituito a Palazzo Minoriti dal comm. Trinchieri.
Paolo Vagliasindi presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si attendeva che la Giunta delle Elezioni emettesse le deliberazioni definitive, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, finiva di vivere a Catania il 23 dicembre 1905, a soli 47 anni.

Monte Colla foto di Paolo Vagliasindi

La sua prematura scomparsa suscitò grande cordoglio, giunsero telegrammi da Ministri e Deputati, visite dalle maggiori autorità civili e religiose di Catania, la città si vestì a lutto, innalzando bandiere a mezz’asta, come la natia Randazzo, il giornale La Sicilia di cui era collaboratore pubblicò un necrologio a tutta pagina, oltre 5000 firme furono apposte sul registro delle visite. Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”.
Solenni e partecipati i funerali, cui presero parte, tra gli altri, molti tra i maggiorenti randazzesi.
L’ultimo saluto fu dato proprio dall’avversario di sempre, Giuseppe De Felice e dall’avv. Gabriello Carnazza. che di lì a poco avrebbe preso il posto dell’estinto nella politica.

Paolo Vagliasindi, politico e giornalista, visse in una città piena di fermenti politici e culturali qual era la Catania di fine ‘800 e inizio ‘900, fu amico di De Roberto, Capuana e Verga, conobbe anche Martoglio, che in “Cose di Catania” gli dedicò un sonetto satirico.
Tra le tante testimonianze, contemporanee e postume, vogliamo citare quella dello storico don Virzì:
“Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelava le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici…”.
Nella politica ebbe un ruolo notevole, sempre in prima fila, sia che si trovasse nella maggioranza, sia che si trovasse all’opposizione, da sottosegretario fece numerosi interventi, propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia.
Tra i tanti scritti, a carattere personale e pubblico, va ricordata la proposta per combattere la fillossera della vite, intervento molto documentato, dove il Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura, Industria e Commercio il 04.12.1899, esponeva la sua proposta per combattere la malattia della vite, con competenza e scioltezza di linguaggio.

Nel 1° anniversario dalla morte, lo scrittore Federico De Roberto (La Sicilia n.335 del 23.XII.1906), rese una toccante commemorazione dell’amico fraterno.
L’autore de I Viceré, volle ricordare Paolo Vagliasindi nel suo “nido d’aquila”, la tenuta di Monte Colla dove era stato spesso ospite, e, così concludeva: “Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi”.

Il 19 aprile 1914, a Randazzo, nel corso di una cerimonia cui parteciparono numerosi cittadini, e le varie associazioni del tempo, dietro iniziativa del sindaco Alberto Capparelli, veniva inaugurata una lapide, scolpita da Antonino Corallo, e posta sul cantonale del Palazzo Vagliasindi in via Umberto I, il cui testo, dettato proprio da Federico De Roberto, recita:

“Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.” 

Maristella Dilettoso 
 

                                                              ————————————————————————————————————————————

 

BARONE ON. PAOLO VAGLIASINDI (1858-1905)  di Salvatore Calogero Virzì.

 

      Federico De Roberto

Sac. Calogero Virzì

Un proclama del Sindaco del tempo (1914), l’avv. Alberto Capparelli invitava i cittadini randazzesi ad una cerimonia inusitata per la domenica 19 Aprile 1914: lo scoprimento di una lapide commemorativa in onore di uno dei più degni figli della nostra cittadina l’on. Paolo Vagliasindi deceduto, tra il rimpianto di tutti i buoni e degli amici, il 23 dicembre 1905.
Accorsero in folla i cittadini, come ci testimoniano le fotografie del tempo; onorarono il raduno, con la loro attiva partecipazione, tutte le associazioni del luogo con le loro bandiere: partecipò il Collegio Municipale salesiano con la sua associazione  sportiva “La Vigor”, macchia vivace di colore tra la folla amorfa dei partecipanti; allietò la cerimonia la banda musicale coi suoi squilli argentini e riscaldò i petti con la sua parola vivace e cordiale il buon Sindaco Capparelli che inneggiò a quest’uomo, onore della famiglia e gloria cittadina.
Ma chi era questo Paolo Vagliasindi che ebbe l’onore di una epigrafe dettata dal grande Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita con amore dal più abile scultore della città, Antonino Corallo?
Paolo Vagliasindi, nato il 16 Sett. 1858, era figlio del Barone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo, uno dei tanti figli che allietarono la famiglia più eminente della cittadina.
La sua giovinezza fu guidata dall’assistenza del padre e dall’esempio cristiano della madre che infusero nel cuore del futuro onorevole il più sentito ideale della patria e della religione.
Giovane ancora fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi per quella via, la politica, che lo avrebbe portato al Parlamento ed al Governo.
Fu Sindaco di Randazzo nel 1885 e 1887 “portando nell’amministrazione della cosa pubblica quella fierezza, integrità e correttezza che furono le doti non comuni del suo carattere”.

                    Il Palazzo Vagliasindi nel corso Umberto – Randazzo


Tempi difficili in verità, sia per la nazione sia per la comunità randazzese, furono quelli in cui visse il nostro personaggio.
Ho qui davanti una memoria del fratello Diego, uomo singolare del paese, estroso, intelligente, entusiasta, buon parlatore e forbito scrittore che, con stile aggressivo e realistico ci fa un ritratto della vita pubblica politica del paese in questi tempi a cavallo dei due secoli: corpo elettorale inadeguato, Consiglio Comunale imbelle e diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare con onestà gli eterni problemi del paese, vita pubblica dominata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, pensando di essere gli unici investiti del diritto al comando, e in questo marasma di contraddizioni, di risentimenti e di bramosia del potere, ecco inserirsi, con una violenza inaudita, la vertenza “de Quatris” che agitò la vita del paese per anni con le azioni più irriverenti contro la Chiesa si S. Maria che, colpevole di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella de Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vede, dalla violenza settaria dei nobilucci del paese, seguiti, violenti o nolenti, dalla massa del popolo ignorante ed illuso, spogliare del suo patrimonio con mistificazioni ed orpelli avanzati da legali senza coscienza che imbrogliarono talmente le cose nei cinquanta e più anni che durò la vertenza, da fare desiderare dai cuori onesti la pace anche a costo di subire ingiustizie e danno.
In questo clima operò Paolo Vagliasindi come Sindaco che, seguendo il programma, fatto poi suo, esposto nel citato articolo del fratello Diego, si occupò delle strade del paese, delle campagne circostanti; diede un impulso efficace alla agricoltura; si industriò ad aprire nuove vie al commercio del vino, cespite primo del paese.
Ma quello che rivelò agli amici ed ai nemici le alte qualità di buono e responsabile amministratore, fu la sua azione disinteressata, fattiva, organizzativa, responsabile, in occasione del colera che imperversò nel paese nel 1887.
Si vide il giovane Sindaco ad organizzare i lazzaretti, a soccorrere i colerosi, personalmente, senza alcun timore e ritrosia; infuse in tutti i responsabili suoi collaboratori tale carica di impegno da fargli meritare gli elogi più alti dalle autorità governative che si sentirono in dovere di ricompensare tanta abnegazione con la medaglia d’argento al valore civile perché con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità.
Purtroppo ben poco sappiamo e possiamo aggiungere e specificare di quanto egli fece come Sindaco, dato l’ormai inesistente Archivio Comunale, ma l’esperienza di pubblico amministratore di un paese così contrastato lo aprì verso nuovi ideali più complessi, più responsabili, più vasti in cui avrebbero potuto esplicare gli ideali che formavano la sua personalità.
In verità anche la politica italiana di questo ultimo scorcio del sec. XIX, fu un garbuglio tale da dovere assistere ad una successione continua di Ministeri purtroppo effimeri ed inattivi.
Per cui dobbiamo dire con lo storico che non furono anni molto lieti per l’Italia questi che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo.
Anni tra i più oscuri e depressi della vita nazionale “senza grandi ideali e senza speranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta”: grandi dissesti finanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali specie con la Francia e con il Vaticano e, “dulcis in fundo”, sotto il Ministero del Marchese di Rudinì, il 22 Aprile 1897, il primo attentato al Re ad opera opera dell’anarchico P. Acciarito, la morte in duello di Felice Cavallotti “bardo della democrazia” (6/III/1898) ed i moti sovversivi in Piemonte, Sardegna, Milano sottoposta ad uno “stato d’assedio”, seguito dalla chiusura dei circoli socialisti, dalla soppressione di giornali di personaggi di sinistra, e dal conflitto con lo Arcivescovo di Milano.


Non valsero le azioni decise del Di Rudinì, dei due ministeri del Pelloux, dello Zanardelli e dell’avvento del nuovo astro della politica italiana della sinistra moderna, on. Giolitti, perché il triste e travagliato periodo politico si concluse con l’atto più orrendo per una nazione, il regicidio di Monza (29-VII-1900).
In questo tremendo periodo politico si innesta l’attività del nostro onorevole Paolo Vagliasindi.
Preparatosi alla lotta elettorale e politica riorganizzando l’Associazione Monarchica di Catania, andata in sfacelo per lotte interne e per difficoltà di organizzazione, si lanciò con entusiasmo nel giornalismo, facendo rivivere a nuova vita il foglio che sarà la palestra della sua battaglia “La Sicilia” operando, in modo che esso, da foglio per un pubblico esclusivo, diventasse un giornale rivolto ad una folla sempre più vasta.
Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelano le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per es., il famoso De Felice, dominatore della sinistra catanese che, violento e intransigente, pur avendolo provocato ad un duello, come era stile del tempo, seppe apprezzare la nobiltà del suo nemico quando, prigioniero delle patrie galere a Volterra, ebbe, commosso, la visita consolatrice di chi meno si aspettava,  il Barone Paolo Vagliasindi.
Atto questo che si innesta e lumeggia la personalità di quest’uomo, signore nei modi, nel sentimento, cavaliere di stampo antico che seppe perdonare con nobiltà e con nobiltà vivere, agire con correttezza anche in quella vita pubblica piena di scontri, di amarezze, di opposizioni e tradimenti che avrebbe dovuto affrontare nella sua breve vita politica durata appena soltanto per 4 anni.
Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, fu eletto con una bellissima votazione, facendo parte dei “Conservatori liberali” del partito di Destra.
Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così potè essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, 1897, 1900 nei due Collegi di Bronte e di Giarre.
Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua perizia mostrata nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Ministero Pelloux ad affiancare il Ministero Sonnino come sottosegretario all’Agricoltura, Industria e Commercio, distinguendosi per zelo, per appropriati interventi portando in quel dicastero “un soffio di vitalità e di energia”, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguardavano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo constatare dal volume delle “Cronache Parlamentari” del tempo, religiosamente conservati fino a qualche tempo fa dalla famiglia e da me attentamente sfogliati nelle copie fornitemi gentilmente dal nipote Ing. Edmondo SCHIMIDT di FRIEDBERG di Roma che volle venire a Randazzo a rivedere i luoghi originari della sua stirpe.
“Gli interventi suoi furono particolarmente numerosi – mi scrive il sopraddetto nipote da me interpellato, cultore appassionato delle memorie familiari – nell’anno in cui fu Sottosegretario, e spaziavano su un orizzonte nazionale ed internazionale… buon oratore, con qualche punto di felice ironia e competenza degli argomenti trattati.
Ma soprattutto uomo di onore nel senso migliore della parola” a lui si deve la proposta di provvedimenti che riguardavano la Sicilia come risulta dalle sopracitate “Cronache Parlamentari” del tempo, e dai numerosi documenti che giacciono a Torino e dal numeroso epistolario (oltre 2000 lettere) che egli scambiò con i più rappresentativi uomini politici del suo tempo, “Salandra, Sonnino, Sangiuliano… Giustino Fortunato”.
Ma purtroppo, nonostante questa sua intensa e costruttiva politica come membro del Governo, nelle susseguenti elezioni, inaspettatamente, fu sopraffatto dai brogli e dalle violenze di un Prefetto venduto (tale Bedendo) che incitò la plebaglia contro di lui, liberò perfino i delinquenti carcerati che scatenarono l’inferno tra gli elettori, con la tacita e consapevole accondiscendenza e il segreto verdetto dell’allora dominatore della politica italiana, on. Giolitti, che nella ultima composizione del precedente Ministero Zanardelli, aveva potuto valutare la forza e il valore di un tanto avversario.

                                              Campanile San Martino – Randazzo


Si ribellarono gli elettori, si pretese la nomina di un Comitato ispettivo delle votazioni, ma il verdetto non arrivò più giacchè la tragedia si era inaspettatamente abbattuta sulla Famiglia Vagliasindi: il 23 Dicembre alle ore 14,30 1905 il Barone Paolo Vagliasindi, curato invano dai medici di famiglia, assistito da parenti ed amici, visitato affettuosamente dal Cardinale Nava, Arcivescovo di Catania, salutato ed affettuosamente abbracciato dall’amico-avversario De Felice, tra lo sbalordimento delle piccole figlie innocenti e della moglie (aveva sposato a Torino una dolce e nobile fanciulla, Ottavia Caissotti di Chiusano nel 1897), portando nel cuore la tragedia della morte immatura dell’unico figlio, moriva questo impareggiabile e nobile lottatore, come “un gladiatore romano”.
Sbalordì la città che in tre giorni appena si era potuto concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato e ammirato che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata dagli avversari, il vanto dei parenti e della città natia.
Questo spiega il fatto che i funerali furono un trionfo: accorse tutta la città, memore delle battaglie sostenute da lui per la difesa dei suoi diritti: accorsero folti gruppi da Bronte, Adrano, Biancavilla, S. Maria di Licodia, Acireale, Randazzo.
Il lungo corteo che si svolse per la via Vittorio Emmanuele alla fioca luce di tutti i fanali abbrunati e sotto la nuvola di petali di fiori gettati a piene mani dai balconi sulla bara portata a spalla dagli amici più cari e sostenuta coi cordoni in mano alle Autorità più alte: Prefetto, proSindaco De Felice, Presidente del Tribunale, Sindaco di Randazzo, vari Senatori.
Una folla di bandiere di tutte le Associazioni catanesi e della provincia chiudevano il corteo lungo la interminabile via facendo una breve sosta alla Chiesa di S. Agostino dove un gruppo degli amici Salesiani impartì la benedizione alla salma.
Alla Porta Garibaldi l’estremo saluto ad un personaggio che tante simpatie aveva suscitato nel popolo tutto appartenente ad ogni ceto che affettuosamente lo accompagnava portando ben 46 corone di fiori, fu detto, tra le lacrime dei più cari amici dall’on. De Felice e dal senatore prof. Carnazza Amari.
Né qui si chiuse il ricordo della giornata terrena del nobile uomo. Manifestazioni imponenti si svolsero nella ricorrenza di trigesima e per vari anni nel giorno anniversario.
Si fecero presenti con lettere e lunghi telegrammi una colluvie di alti personaggi della politica e del Governo sia della Sicilia che del resto della Nazione.
Solenne fu la commemorazione all’Associazione Costituente che volle nella sua sede un suo mezzobusto, alla Federazione Operaia Monarchica che depose sulla tomba una corona floreale di bronzo, alla Camera dei Deputati dove presero la parola nella vasta assemblea dai seggi stipati, gli onorevoli Riccio di Scalea, e Fortis i cui discorsi si conclusero con l’invio di un telegramma di circostanza alla moglie Baronessa Ottavia da parte del Presidente on. Marcora.
Vasta fu l’eco della stampa, i cui stralci ho qui davanti a me assieme ai tre opuscoli che ripetono discorsi e testimonianze: si commossero i poeti che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse l’amico del cuore, il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto con l’articolo pervaso di poesia e delicato sentimento che segue questo breve profilo e col dettare il testo della lapide che, come abbiamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palazzo di Famiglia che ancora possiamo leggere sul niveo marmo:
PAOLO VAGLIASINDI – nelle lotte della vita pubblica – portò la forza e la gentilezza – di un cavaliere antico – in Parlamento e al Governo – fu propugnatore immutabile – di libertà con ordine – crudelmente troncata – prima di dare tutti i suoi frutti – l’opera nobilissima – del Cittadino esemplare – vive nella memoria dei contemporanei – rivivrà nella storia – di questa diletta sua terra.

Sac. Salvatore Calogero Virzì

Randazzo, 6 Settembre 1984

                                                                   IL RICORDO DELLA FIGLIA LAURA

Torino 27 Giugno 1984 

                   Gent.mo e Reverendo don Salvatore Virzì 

    Con profonda gratitudine e commozione ho ricevuto la sua richiesta, e molto mi rallegro per l’amorevole iniziativa verso la memoria di mio padre, che veramente ritengo sia stata una figura esemplare come lealtà e rettitudine, carità di Patria, chiaroveggenza politica, passione di lotta per il trionfo del bene.

           on.le Paolo Vagliasindi

Lo attestano antiche opinioni di amici e collaboratori ormai trapassati, ma in modo speciale il culto devoto e la non mai affievolita affezione di mia madre che, per tutta la vita, serbò nel cuore il suo luminoso ricordo.
Nel 1897, mio Padre aveva infatti sposato Ottavia Caissotti di Chiusano, torinese come tutta la famiglia di lei. Matrimonio sotto ogni aspetto felice, non mai offuscato dalla benché minima nube.
Purtroppo le nozioni che potrò fornire personalmente saranno scarse e un po’ vaghe, sia perché alla morte di mio Padre eravamo 4 sorelle ancora proprio bambine, sia perché la tardissima età, nonché un incidente stradale quasi mortale, mi hanno ridotta allo stato di rudere.
Sappiamo comunque che mio Padre è stato direttore del giornale “La Sicilia” che, se ancora esiste, avrà certamente in archivio tutti gli articoli scritti da lui e su di lui.
Sappiamo che fu eletto deputato per ben 4 volte e che la 5^ legislatura gli venne bocciata dai delinquenti appositamente usciti di carcere e liberati per opera dei suoi detrattori.
Tutte queste angherie, e in modo speciale la morte dell’unico figlio maschio – dolore straziante sopportato con cristiana fermezza e rassegnazione – hanno certamente contribuito a debilitare l’organismo di mio Padre, e a provocare la prematura scomparsa.
Ricordo in modo confuso il clima di appassionato conflitto nei riguardi di un certo “De Felice” che io mi figuravo come una specie di mostro.
Ricordo che mio Padre ebbe un duello in proposito.
Ricordo la sua devozione all’ideale monarchico e conservatore.
Come  Sindaco di Randazzo sappiamo che si adoperò con piena dedizione alla cura del colpiti durante l’epidemia di colera.
Ricordo… una frase scritta da lui in cima ad un mio quaderno:
“Chi impara a conoscere se stesso, impara anche a migliorarsi”.
Qualche anno fa ho avuta la sconvolgente sorpresa di vedere mio Padre ritratto in televisione, a grandezza naturale, mentre in Parlamento citava versi di Dante!
Ulteriori dettagli potranno forse esserle forniti da mio nipote Edmondo Schimidt di Friedberg, figlio di mia sorella Benedetta, il quale è un competente di tradizioni familiari, e sempre ha nutrito grande ammirazione per il Nonno mai conosciuto.
Voglia accogliere i più devoti omaggi e commossi ringraziamenti da una superstite di altri tempi. 
Laura Vagliasindi                                                                                                                      

 

 

NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DELL’AMICO BARONE  PAOLO VAGLIASINDI

Lo vidi disteso sul letto di morte, lo seguii verso la fossa e credetti di non poterlo più ritrovare altrove fuorchè nell’intimo mondo delle memorie.

M’ingannavo: lo rividi!

Il suo spirito aleggia ancora sulla vetta di un monte.(nota: m. Colla presso Randazzo, che era di sua proprietà).

       Palazzo Vagliasindi – Randazzo

E’ una delle più alte cime dei Nebrodi orientali: nessun’altra la sovrasta fin dove arriva lo sguardo, tranne quella dell’Etna; ma il vulcano, troneggiando da lungi, oltre l’immenso solco del fiume, non la schiaccia, le dà anzi più spicco. E dal fumante culmine della montagna del fuoco, l’occhio corre, di là dai vaporosi abissi del mare, alle isole del vento (Eolie), emergenti come per incanto dall’incerto orizzonte.
In quel nido d’aquila, tra il candore delle nubi e delle nevi, fuori delle vie del mondo, in mezzo e dinanzi ai primigenii elementi, egli edificò la sua casa: una casa vasta e forte come un castello, ma tutta illeggiadrita dall’edera che la veste come di un verde merletto, ma tutta profumata dal parco che le è cresciuto d’intorno.
La volontà pertinace e l’intelletto d’amore trasformarono quella cima nuda e deserta  in un soggiorno delizioso ed in un campo fecondo. Dove mani imprudenti divelsero e distrussero la secolare foresta, una mano accorta e paziente piantò e difese i nuovi rami che già proteggono l’erta pendice.Quella mano industre prodigò l’alimento al suolo per accrescerne le energie, e tracciò gli argini per infrenare le acque, ed eresse i ricoveri agli armenti che dovevono popolare i pascoli pingui e dissetarsi alle cristalline sorgenti.  

A quel suo piccolo regno dove, pieno di vita, egli mi aspettò nei giorni che le fonti della erano esauste in me, io salii troppo tardi, quando la terra aveva ricoperto da tempo la sua fredda salma.
Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi.

            Catania, 23 Dicembre 1906                                                                                           Federico De Roberto

 

Sac. Salvatore Calogero Virzì  da Randazzo Notizie n. 11 – Novembre 1984

 

                                                                     —————————————————————————————————- 

                                                          

        Discorso tenuto dal Sindaco di Randazzo Ernesto Del Campo il 5 settembre 2009, in occasione della posa del Busto in bronzo e dell’Intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo Vagliasindi del Castello.

    E’ con sommo piacere che oggi, sabato 5 settembre 2009, accogliamo, in questa nostra Città di Randazzo, i rappresentanti della Famiglia Vagliasindi, una delle più antiche e più nobili di Randazzo, in occasione dell’inaugurazione del Busto in bronzo e dell’intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo, che, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò alla nostra città ed alla Sicilia tutta.
Riteniamo che occasioni come questa siano utili per conoscere, capire, approfondire il nostro passato, la nostra storia, la nostra cultura.
Ho detto in occasione della recente intitolazione della Piazza di Montelaguardia all’Avv. Gualtiero Fisauli e mi piace qui ricordarlo Una società che dimentica le proprie origini, la propria storia, indipendentemente dal ceto sociale, dal ruolo o dall’appartenenza politica dei relativi protagonisti, è una società senza memoria.
Un popolo senza ricordi, senza capacità critica, senza dialogo e senza riflessione non ha futuro, anzi ha difficoltà a comprendere persino il presente”.
Ma chi era questo nobile uomo della nostra terra?
Riteniamo opportuno tracciarne un breve profilo biografico che, certamente, non pretende di essere completo ed esaustivo tenuto conto dell’intensa attività svolta in ogni campo dall’uomo, dal politico, dallo statista, sia qui a Randazzo, dove fu Sindaco, sia al Parlamento Nazionale, dove fu Deputato, sia ancora al Governo, dove fu Sottosegretario di Stato, apprezzato tanto che ebbe l’onore di una epigrafe dettata da Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita dal più abile sculto­re della città, Antonino Corallo.
Paolo Vagliasindi, nato il 16 settembre 1858, era il terzo di 13 figli del Ba­rone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo di Calanovella.
Casato illustre, quello del Vagliasindi, presente a Randazzo già alla fine del XVI secolo, ripartitosi successivamente, dal ceppo principale, in numerosi altri rami, così come altrettanto illustre era, ed è, quello dei Piccolo che, tra i suoi, annovera personaggi di spicco illustri come il grande scrittore Lucio, discendenti da antica nobiltà siciliana, imparentati con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, altro celebre scrittore, noto per il suo romanzo “Il Gattopardo”.
La famiglia Vagliasindi aveva avuto sempre un ruolo di primo piano nella vita cittadina, protagonista in ogni attività socio- economico-culturale di Randazzo.

Busto di Paolo Vagliasindi nella sala della Giunta – Palazzo Municipale Randazzo


Ancora giovane, fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi verso la politica, che lo avrebbe successivamente portato al Parlamento ed al Governo.
Nel 1885, a soli 27 anni, veniva eletto Sindaco di Randazzo, carica alla quale venne riconfermato nel 1887, portando nell’amministrazione della cosa pubblica la fierezza e correttezza che furono le doti principali del suo carattere.
Non erano anni facili, né a livello locale, né ancor meno a livello nazionale.
Leggiamo, infatti, in un ritratto della vita pubblica politica del paese in quegli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo fatto dal fratello Diego, uomo singolare, estroso, intelligente:
corpo elettorale non sempre all’altezza della situazione, Consiglio Comunale il più delle volte diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare gli eterni problemi della Città, vita pubblica domi­nata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento, ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, e – nel marasma di contraddizioni, di risenti­menti e di bramosia del potere – , ecco inserirsi, con una vio­lenza inaudita, la vertenza De Quatris che doveva trascinarsi per oltre 50 anni, fino al secolo successivo, schierando su posizioni diverse le opposte fazioni.
Vertenza che agitò la vita della nostra Città per tanti anni, con le azioni più irriverenti contro la Chiesa di Santa Maria che, “colpevole” solo di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella De Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vide spogliare, alla fine, del suo ingente patrimonio”

Per di più, nel 1887 si diffuse una tremenda epidemia di colera, che il Nostro giovane sindaco affrontò in maniera responsabile, organizzando i lazzaretti e soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo pure i suoi collaboratori, tanto da meritare, più tardi, l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo proprio perché, con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità.
Dimostrò, inoltre, il suo impegno alla guida della Città nel curare le strade, ma soprattutto imprimendo un nuovo impulso all’agricoltura, ed in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava, allora, la nostra economia.
Coincide, infatti, con quest’epoca l’importanza del porto di Riposto da cui partivano navi e bastimenti carichi di vino diretti in tutto il mondo, Russia compresa. E ciò a dimostrazione del significativo rilancio in quel tempo della viticoltura etnea.

…la scienza ha nell arte la funzione di metodo, fornisce gli strumenti per l osservazione oggettiva del fatto umano e cerca di ricostruirlo in totale aderenza al vero nell arte quel che più ci attrae è sempre la vita Romanzi importanti: Giacinta e Il marchese di Roccaverdina A list of procedures and steps, or a lecture slide with media. Luigi Capuana. 23.


Da rilevare, ancora, che fu proprio durante la sua sindacatura che vennero iniziati, e successivamente portati a termine gli scavi archeologici in Contrada S. Anastasia, i cui reperti sono stati catalogati e resi fruibili nel nostro Museo Archeologico dedicato all’altro cugino Paolo Vagliasindi, oggi vero punto di forza dell’offerta culturale della nostra città.
L’esperienza di pubblico amministratore di una cittadina così contrastata lo aprì verso nuovi interessi, più complessi e più vasti, in cui avrebbe potuto esplicare gli ideali che formavano la sua per­sonalità.
Paolo Vagliasindi meditava di compiere quel “salto di qualità” che da una cittadina di provincia del “profondo sud” lo avrebbe portato ai palazzi della Capitale. Iniziava, così, a preparare il terreno per il momento in cui avrebbe presentato la sua candidatura al Parlamento Nazionale.
Consapevole dell’importanza tanto di una solida base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostando il suo centro d’interessi verso il capoluogo etneo riorganizzò a Catania l’Associazione Monarchica che diventerà, poi “Associazione Costituzionale”, di cui Paolo sarà presidente fino all’anno della morte –, e rilanciò il foglio La Sicilia, trasformandolo in un vero e proprio giornale, rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”.
Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli, il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà, poi, nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale.
Polemista di valore ed alieno però da ogni forma di sterile polemica fine a se stessa, Paolo Vagliasindi, sia come giornalista, sia come politico, seppe esprimersi con dignità, aperto ad ogni novità, lontano da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere, si conquistò la stima e il rispetto persino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per esempio, il famoso De Feli­ce, dominatore della sinistra catanese.
Gli anni che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo furono tra i più oscuri e depressi della vita nazionale senza grandi ideali e senza grandi spe­ranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta: grandi dissesti fi­nanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali. In questo tremendo periodo politico si innestava l’attività del nuovo Onorevole, Paolo Vagliasindi.
Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, nel Collegio elettorale di Catania II (Acireale), fu eletto con un larghissimo consenso popolare, facendo parte dei “Con­servatori liberali” del partito di Destra.
Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così poté essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, e poi nel 1897, per il Collegio di Bronte, e poi ancora una quarta volta nel 1900, nei due Collegi di Bronte e di Giarre, optando per Bronte.
Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua competenza nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Gabinetto Pelloux come Sotto­segretario all’Agricoltura, Industria e Commercio.
Incarico che mantenne dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguar­davano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo co­nstatare dal volume delle «Cronache Parlamentari» del tem­po e, soprattutto, fece numerosi interventi e propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia.
Nel frattempo, il 19 luglio del 1897, si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale ebbe cinque figli: Laura, Benedetta, il terzogenito Emilio – l’unico maschio che purtroppo morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903 –, e poi ancora le altre due figlie: Maria ed Ersilia.
Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
Nel mese di novembre del 1904 Paolo Vagliasindi si ricandidò nel Collegio di Bronte, ma stavolta non veniva rieletto a seguito di pressioni ed intimidazioni ad opera dei suoi avversari.
Il barone Paolo Vagliasindi, raccolto il materiale ed acquisite le testimonianze necessarie, presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si era in attesa che la Giunta delle Elezioni emettesse i provvedimenti definitivi, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, alle ore 14.30 del 23 dicembre 1905, ad appena 47 anni, cessava la sua vita terrena.
Sbalordì l’intera città che in tre giorni appena si era potuta concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato ed ammirato, che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata degli avversari, il vanto dei parenti e della città natia.Il giornale “La Sicilia” di cui era collaboratore ne pubblicò un necrologio a tutta pagina.
Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”. Come riportato da La Sicilia del 24-25 dicembre 1905, ai funerali di Paolo Vagliasindi la città di Catania fu rappresentata da tutte le classi sociali.
Vasta fu l’eco della sua dipartita: si commossero i poeti, che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto col dettare il testo della lapide che, come ab­biamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palaz­zo di Famiglia che ancora oggi possiamo leggere sul niveo mar­mo:

   Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.

Come ebbe a scrivere L’Ora del 23.12.1905, giorno della sua dipartita terrena, Paolo Vagliasindi godeva “le simpatie della cittadinanza, per le alte qualità morali e intellettuali, che lo distinguevano tanto da meritarsi anche la stima degli avversari”.

Ed è proprio per ricordare – ancora una volta – questo nobile figlio della nostra terra, il quale, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò a Randazzo e alla Sicilia, che oggi siamo qui a farne memoria, inaugurandone il Busto in bronzo, gentilmente donato dalla famiglia ed accettato dall’Amministrazione Comunale con Atto deliberativo n. 38 del 30 marzo 2006, assunto dall’Amministrazione guidata dal Prof. Salvatore Agati e integrato con Delibera n. 76 del 15 maggio 2009, ed intitolandogli la Sala Giunta, ben consapevoli come siamo che una città, o un popolo, che non ha memoria storica del proprio passato, non ha certamente neanche le basi giuste e solide per il suo futuro.

 

Lettera al Sindaco Francesco Sgroi per acquisire dall’Archivio di Stato di Catania l’archivio privato dell’on.le Paolo Vagliasindi.

 

La relazione che accompagna l’Archivio puoi leggerla di seguito.

 

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Francesco Paolo Finocchiaro

 

 

Francesco Paolo Finocchiaro : il  pittore randazzese apprezzato alla Casa Bianca

 

Francesco Paolo Finocchiaro nacque a Randazzo, da Raffaele e Maria Catena Camarda, il 15 marzo 1868.
Non sappiamo quando si manifestò la sua vocazione pittorica, ma pare che gli fosse stato accordato un sussidio dall’Amministrazione comunale del tempo per proseguire gli studi artistici.
La sua formazione avvenne all’Istituto di Belle Arti di Napoli, sotto la guida di un grande maestro, Domenico Morelli. Proprio a Napoli, durante una mostra, il dipinto Un nuovo fra Melitone, acquistato dal re, doveva far ottenere al giovane Finocchiaro, appena diciottenne, il primo grande successo.

Da lì si trasferì a Roma, dove rimase cinque anni, affermandosi fin da allora in quella che fu la sua specializzazione, la ritrattistica: non sappiamo se per una sorta di predilezione tematica, o se per seguire una tendenza o una “richiesta di mercato” capace di assicurargli stabilità economica, certo è che, nella sua non breve vita, il pittore eseguì numerosissimi ritratti di notabili, ecclesiastici, nobili e dame dell’aristocrazia del tempo. 
Una tappa importante per il giovane artista fu la realizzazione del Battesimo di Gesù, per la Basilica di S. Maria. È possibile seguire la genesi dell’opera attraverso il fitto carteggio con l’Arciprete Francesco Fisauli, durante l’estate del 1892.
In una prima lettera, da Roma, Finocchiaro comunica di avere finalmente trovato il soggetto, in una tela di Prospero Piatti (1879), posta nel Duomo di Ferrara, e di attendere l’exequatur del committente; nelle successive, è assillato dalle dimensioni, dovendo ridefinire le proporzioni nella copia in funzione della cappella di destinazione; finalmente, risolti tutti questi problemi, il 15 ottobre 1892 scrive da Ferrara: ottenuta dalle autorità ecclesiastiche l’autorizzazione a riprodurre, è immerso nel lavoro, e tanto pieno di fervore ed entusiasmo, da dichiarare: “…ed io nulla risparmierò pel migliore disimpegno del mandato affidatomi, mandato pel quale tutto ho impegnato con anticipo, e fama, e avvenire, ed esistenza…”. 
Evidentemente quest’opera assumeva il valore di una scommessa sulla propria carriera futura, di una consacrazione ufficiale; il tono delle missive all’Arciprete Fisauli è deferente, sottomesso, comprensibile però in un giovane e speranzoso artista di 24 anni che più di un secolo fa si rivolgeva al suo committente, ch’era un alto e potente prelato.
Ancor più se il giovane era alle prese con un’
opera grande – non solo per le dimensioni – un’opera destinata ad apparire, e rimanere, nella cattedrale del suo paese, non più in un salotto privato.
Il Battesimo di Gesù, ultimato nel 1893, sarà collocato in S. Maria nel 1895, sopra il fonte battesimale.

Particolare del “Battesimo di Gesù” .

È una grande tela (380 x 520 cm circa), e, benché il suo essere copia può sminuirne il valore, dimostra tuttavia una notevole padronanza della tavolozza e della pennellata, e comunica indubbiamente, per il suo pathos, delle emozioni immediate.
Quello delle riproduzioni di altri dipinti è un filone presente spesso nella pittura del Finocchiaro, ma siccome tante sue opere sono disperse, è difficile stabilire se in questi
d’après egli abbia trasferito validità autonoma e personale.
Sappiamo che eseguì una copia della Madonna in trono di Pietro Vanni, posta sull’altare maggiore di S. Maria, che un tempo faceva mostra di sé nella sua villa di S. Spirito, una copia della tela con la
Morte di S. Giuseppe ai Minoriti di Catania, e una dell’ormai rovinata Resurrezione di Lazzaro di Onofrio Gabrieli (XVII sec.) a S. Martino.
Durante il soggiorno a Ferrara, dove si accostò alla pittura di Giovanni Boldini, Francesco Finocchiaro fu ospitato dai conti Gulinelli, strinse molte amicizie, eseguì vari restauri e ritocchi nelle case patrizie, e lasciò due ritratti, del Conte Massari e del Duca Fioravanti, oggi al Museo civico di Arte Moderna di Palazzo Massari.
Sembra sia stato anche a Parigi, ma non disponiamo di notizie più dettagliate. Certo il nostro pittore ebbe una vita sociale molto intensa e movimentata, dovette riscuotere la stima e le simpatie di molte personalità del tempo, e intessere una fitta rete di amicizie “importanti”.
Ma la stagione più esaltante nella vita e nella carriera del Finocchiaro inizia con il suo trasferimento negli Stati Uniti d’America, intorno alla fine dell’800, o, al più tardi, nei primissimi anni del ‘900, se già nel 1902 ha luogo il suo matrimonio con Florence Angel Manson, a New York.
Si vuole che la moglie fosse una bellissima e ricchissima principessa pellerossa, morta giovane, mentre l’unico figlio nato da queste nozze perì immaturamente.
In sua memoria il pittore avrebbe devoluto all’Ospedale civile di Randazzo l’allora cospicua somma di 100.000 lire, per l’attrezzatura della sala operatoria.
In America Francesco Paolo Finocchiaro incontra successo, fortuna, e ricchezza. Si inserisce negli ambienti newyorchesi più in vista, apre il Bryant Park Studio, nella 44° Strada di New York, dove può esporre le sue opere ed organizzare ricevimenti di un certo richiamo, cui partecipano, tra i tanti, il Console italiano in America, il maestro Sapio e signora, che intrattengono gli ospiti eseguendo brani d’opera accompagnati al pianoforte, un altro emigrato illustre, il tenore Enrico Caruso, collezionista ed intenditore d’arte, allora all’apice della sua luminosa carriera, ambasciatori, esponenti dell’alta società, e persino Theodore ed Eleanor Roosevelt.

Eleanor Roosevelt.


Quella con la famiglia del 26° Presidente degli Stati Uniti dovette essere un’intensa amicizia, con scambi d’inviti e di corrispondenza: sembra che il pittore sia stato un supporter e finanziatore di una campagna per l’elezione di Roosevelt alla Casa Bianca, e più tardi, in occasione di un viaggio in Italia di Mrs. Roosevelt, le scriveva per darle il benvenuto e augurarle “che la mia terra le sia gradita quanto per me lo è stata la sua”.
In quella terra ospitale oltre ai ritratti di Roosevelt e della sua famiglia, alla Casa Bianca, ne realizzò molti altri, dell’Ambasciatore e dell’Ambasciatrice baroni Mayor del Planches,  e di altri personaggi del jet-set statunitense, mentre i giornali si occupavano spesso di lui. L’ombra del sospetto doveva turbare però quegli anni tanto pieni di gloria e di gratificazioni, allorché esplose lo “scandalo degli arazzi”, in cui si trovò coinvolto, per avere trasferito in America, esposto e venduto alcuni arazzi per conto di conoscenti dell’aristocrazia romana.
In suo favore sarebbe sceso in campo Luigi Barzini, che intervistò l’artista nel Massachusetts, per avere la sua versione dei fatti, e lo stesso direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, che dichiarava, dalle colonne del suo giornale (27.08.1908): “…Egli è incapace di prestarsi a sotterfugi ed intrighi. È un’anima entusiasta ed ingenua…”.
Non abbiamo, oggi, gli elementi per giudicare, ma lo stesso Finocchiaro, nel 1907, da New York, redige una memoria in cui espone tutta la dinamica dei fatti, dimostrando la propria buona fede ed estraneità alle accuse, che peraltro anche la stampa italoamericana riteneva prive di fondamento. 
Non si conosce la data del rientro in Italia, pare comunque che, per qualche anno, il pittore alternasse i soggiorni a Roma, al n.33 della mitica via Margutta, a quelli a Randazzo, dove possedeva terreni coltivati e ville in campagna.
Dal primo gennaio 1930 si stabilisce a Taormina, in una villa sontuosamente arredata di tappeti e oggetti d’arte riportati con sé dai suoi viaggi, gestisce un Hotel e viene anche nominato Commendatore.
Muore proprio a Taormina, il 26 aprile 1947, lasciando ai numerosi nipoti, in assenza di eredi diretti, un immenso patrimonio. Sarà tumulato nella cappella di famiglia del cimitero di Randazzo, e insieme con lui saranno seppelliti tanti misteri, tante domande  che non hanno ancora trovato risposta.

Francesco Paolo Finocchiaro – il Pastorello

Difficile comprendere la personalità di questo artista sfuggente e solare al tempo stesso, entusiasta, provvisto di notevole cultura, geniale secondo qualcuno, sicuramente dotato di fascino ed intraprendenza, forse di un pizzico di spregiudicatezza.
Fu un libertino scialacquatore, oppure un oculato amministratore del proprio genio e della propria ricchezza? Uomo di mondo, ambizioso ma capace anche di grandi slanci di generosità, antepose l’arte ad ogni affetto, o piuttosto riversò in essa quanto la vita gli aveva sottratto? 
Difficile redigere un catalogo completo dei dipinti di Francesco Paolo Finocchiaro, che furono numerosissimi, ma sparsi in varie città d’Italia (Napoli, Roma, Ferrara) e in America.
A Randazzo lasciò ritratti e quadri a soggetto religioso, ma pochissime opere ci sono state documentate: oltre al già citato Battesimo di Gesù, resta la deliziosa tavoletta con il Pastorello (Municipio), opera fresca e spontanea, dai colori sobri e smorzati, ma non spenti, che ritrae un ragazzino dall’espressione ingenua e furbesca al tempo stesso, un San Francesco di Paola (coll. privata), dove l’artista, pur trattando un tema sacro, effonde tutta la sua abilità di ritrattista: lo sfondo appena accennato e il mantello scuro mettono in risalto le tinte calde delle mani e del volto, dallo sguardo palpitante ed intenso, dall’aria saggia e sofferta, non è datato ma è evidente l’influsso della pennellata sfrangiata del Morelli.
Abbiamo notizia di una Trasfigurazione, nella chiesa di S. Francesco di Paola di Randazzo, andata distrutta durante gli attacchi aerei del 1943, di una Madonna, prima esposta a Monaco di Baviera e successivamente nello studio di New York, e di una Cabeza de nino, presentata nel 1910 all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires.

Randazzo, 2 ottobre 1909, Palazzo di Città: al Consiglio comunale, riunito in seduta ordinaria, il Presidente, avv. Sebastiano Polizzi, comunica che:
                 “…l’egregio nostro concittadino Sig. Francesco Paolo Finocchiaro… ha donato a questo Municipio alcune fotografie riproducenti taluni lavori da lui eseguiti..” e prosegue  col dire che lo stesso ”occupa ormai nella vita sociale ed artistica un posto così eminente da attirare l’attenzione delle persone più rispettabili ed elevate. Egli primieramente in Roma ed ora negli Stati Uniti di America, ha saputo acquistare degnamente la fama di onesto ed intemerato cittadino e di valente cospicuo artista…”. Il Consigliere  Andrea Capparelli, suo amico d’infanzia, che sarà poi Rettore dell’Ateneo catanese, rende omaggio “a chi con grandi sacrifici e con frutti del suo ingegno ha saputo illustrare la patria sua che è patria nostra…cittadino di elette virtù private, e artista insigne il cui nome sommamente ci onora”.

Questo quasi un secolo fa. Oggi solo pochi anziani in paese hanno “sentito parlare” di Francesco Paolo Finocchiaro, eppure il suo nome ha varcato i confini angusti della patria, ha varcato anche l’Oceano, mentre oggi, a 55 anni dalla scomparsa, neppure una via, una piazza, un monumento, gli è stato dedicato in memoria, e nessuno va a deporre un fiore sulla sua tomba..

Anche se egli visse lontano per parecchio tempo, è strano come a Randazzo se ne sia quasi perduto il ricordo, come nel paese natale ci siano così poche testimonianze, mentre sue tracce si trovano in mezzo mondo.
E poi l’artista ebbe una vita intensa, fitti carteggi, che, resi pubblici, se non giacessero dimenticati, o troppo “gelosamente” conservati, servirebbero a mettere in piena luce la sua figura ed i tanti aspetti ancora oscuri della sua vita.
Perché sicuramente la fama da lui conquistata avrebbe meritato in patria qualcosa di più.

(Articolo pubblicato sul Gazzettino di Giarre n. 12 del 2002)

Maristella Dilettoso

 

Francesco Paolo Finocchiaro “Battesimo di Gesù” – 1893

 Nella Basilica di Santa Maria sopra il Fonte Battesimale si trova una grande tela del Finocchiaro ” Battesimo di Gesù “ opera commissionata dall’Arciprete  Don Francesco Fisauli nel 1892 e ultimata l’anno successivo  nel 1895.

 

 

 

BEATO DOMENICO SPADAFORA

 

                                 Il Beato Domenico Spadafora                                                                                                                           (Randazzo 1450 – Montecerignone 1521)

 

La biografia – La famiglia – I luoghi – I tempi 

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Venetico Superiore (ME) – antichissimo ritratto del beato Domenico donato dalla famiglia Spadafora alla chiesa.

Domenico Spadafora discendeva da una nobile, antica famiglia, giunta in Sicilia da Costantinopoli probabilmente nell’XI secolo: capostipite fu Basilio Spadafora, capitano della guardia dell’imperatore Isauro Comneno.
I discendenti ricoprirono alte cariche sotto i Normanni e poi sotto gli Aragonesi. Secondo una delle tante interpretazioni, il nome “Spadafora” deriverebbe dal privilegio di poter portare, in pubblico, la spada sguainata davanti a sovrani e imperatori.
Questo casato diede al regno di Sicilia letterati, senatori, pretori, vescovi, giureconsulti, ebbe molti titoli e feudi: principi di Maletto, Mazzarà, Venetico, Spadafora, Carcaci, Cerami, Cutò, baroni di Roccella… Ma ebbe anche stretti legami con la città di Randazzo: qui aveva la tomba di famiglia nella chiesa di S. Francesco, e due case, il Palazzo del Duca, presso S. Nicola, e un’altra nota come Palazzo dei Conti di Gagliano dove oggi è la Piazza del Municipio.  

Gli storici parlano di due rami della famiglia, uno a Palermo e l’altro a Messina, da dove una propaggine si trasferì nel Val Demone, ed ebbe stretti legami con Randazzo, Roccella, Maletto.

Monumento del beato Spadafora al santuario.

Randazzo era allora città demaniale, ma avveniva spesso che gli aristocratici avessero la dimora nelle città demaniali, ed i possedimenti feudali altrove. Benché la città non fosse un feudo, gli Spadafora vi ebbero un ruolo importante, e vi ricoprirono sempre delle cariche, di giustizieri, capitani reggenti, capitani a guerra, sindaci… Pare che Randazzo per la sua posizione strategica e per motivi economici fosse molto ambita dagli Spadafora, che non potendo ottenerla in feudo, in quanto demaniale, riuscirono tuttavia ad ottenere il controllo del territorio con l’assegnazione di feudi nei centri vicini, esercitando però, di fatto, il potere in Randazzo, con l’aggiudicarsi le più importanti cariche pubbliche.  Così Ruggero Spatafora, per primo, ottenne il feudo di Roccella, e successivamente la famiglia si sarebbe assicurato quello di Maletto, sul versante opposto.

Alcuni nomi e alcune date per dimostrare quanto fosse rilevante la loro presenza a Randazzo:

L’urna con i resti del Santo.

15 febbraio 2005 – don Bialowas consegna alla basilica di Santa Maria le reliquia del beato Spadafora.

Nel 1282 Pietro e Damiano Spadafora furono due dei sei senatori che governarono la città nell’interregno dopo la guerra del Vespro, per conto di re Pietro I d’Aragona. Nel 1470  Ruggero Spadafora fa testamento in favore dell’Ospedale di Randazzo. L’anno 1479 Giovanni Spadafora, padre di Domenico, riceve l’investitura della baronia di Maletto.
Ancora, nel 1522,  Giovan Michele Spadafora, barone di Roccella, investito nel 1510, e nipote di Domenico, commissiona ad Antonello Gagini la statua marmorea di S. Nicola di Bari per l’ omonima chiesa di Randazzo, in qualità di fideiussore.
Infine, nel 1612 un principe di Spadafora fa dono alla chiesa dei PP. Cappuccini di Randazzo della tela con la Trasfigurazione, attribuita al Lanfranco.
Da Giovanni Spadafora (o Spatafora), barone di Maletto e signore di Casale, Castello e Tonnara, nasce a Randazzo, intorno al 1450, Domenico, e si vuole che sarebbe stato battezzato in S. Nicola.
Era il terzogenito, ma il secondo dei maschi, e non gli spettava pertanto nessuno dei feudi paterni, appannaggio esclusivo del primogenito Giovannello.

il “Conventino”, i resti della chiesa e del convento di Santa Maria delle Grazie, fondato dal beato Domenico.

Veduta di Montecerignone con la Rocca.

Presto fu inviato a Palermo, per compiere i suoi studi. Frequentò le scuole dei Frati Predicatori di S. Domenico, ma è certo che fece la professione e divenne novizio nel convento domenicano di S. Zita, che proprio in quel periodo viveva un clima di rinascita spirituale per opera del beato Pietro Geremia, che in Sicilia si era impegnato attivamente per ricondurre i conventi domenicani all’osservanza delle regole.
Domenico vi fece il noviziato, raggiungendo attraverso la preghiera, l’osservanza dei precetti ed i sacrifici, l’ideale del domenicano. Praticava digiuno e penitenza, portava cilici sotto le vesti, senza tralasciare di dedicarsi allo studio e alla scienza.
I superiori, nel 1477, dopo l’ordinazione sacerdotale, lo mandano a compiere gli studi a Perugia, e poi a Padova, dove Domenico conseguì nel 1479 il grado di Baccelliere in Sacra Teologia, “con aggregazione a quella Università ed ampia licenza di esercitare il suo ministero con l’insegnamento pubblico della Teologia”.
Richiamato a Palermo, sempre a S. Zita, vi rimane circa otto anni, proseguendo nella sua vita austera, e in un’intensa attività apostolica.
Nel 1487 fu indetto a Venezia, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, il Capitolo generale, per eleggere il nuovo Maestro Generale dell’Ordine,. Il Vicario generale, fra Giovacchino Torriani, aveva ricevuto dal papa la facoltà di nominare 12 Maestri in Sacra Teologia, dopo avere ascoltato le dispute.
Domenico prese parte al Capitolo, e il 7 giugno, tenne una disputa che riscosse grandi consensi, facendolo eleggere tra i 12 nuovi Maestri. Subito dopo, il Vicario Torriani lo volle come collaboratore presso di sé, nell’intento di circondarsi di uomini “saggi e prudenti”, che potessero dare il loro contributo nella restaurazione dell’Ordine.

Il Santuario del beato Spadafora.


Intanto gli abitanti di Monte Cerignone, nel Montefeltro, chiedevano al Maestro Generale di fondare una chiesa, in contrada Fontebuona, a mezzo miglio dal paese, dove esisteva una cappella della Madonna di cui erano particolarmente devoti, e un convento di frati.
Il Torriani pensò d’inviare proprio Domenico, con l’incarico di fondarvi una comunità riformata.
Questo potrebbe sembrare un misconoscimento delle doti di Domenico, da parte del Generale, ma la chiave di lettura di questa decisione è invece nella volontà di mandare una persona saggia, che evitasse conflitti e scissioni.
 Il beato vi giungeva il 15 settembre dell’anno 1491.
Per avere l’autorizzazione pontificia, Domenico si recò a piedi a Roma, dal papa Alessandro VI, tornando col Breve che autorizzava l’erezione del convento.
Con un atto del 1492, ratificato nel 1493 dal Vescovo di Montefeltro, Monte Cerignone cedeva a Domenico alcune terre.
 Completata la chiesa, S. Maria delle Grazie, con un solo compagno, si occupò della costruzione del convento e di richiamare i frati necessari al culto e alla predicazione. Instancabile, teneva sermoni, insegnava ai giovani di Montecerignone la Logica e le altre scienze, facendo affidamento sui legati e le elemosine.
Ultimato il convento, fu creata la comunità dei frati. Numerose seguirono le vocazioni.
Qui Domenico trascorse circa 30 anni, dedicandosi alla carità e alla direzione spirituale delle anime, amato e riverito da tutti, tenuto già in considerazione di Santo.


 Nella primavera del 1521, sentendosi venire meno le forze, scriveva al maestro Generale fra Garzia di Loagna, un’istanza per rimettere la carica di Vicario, ma l’istanza veniva rifiutata.

L’urna con i resti del beato.


Solo in un secondo tempo ottenne di associare P. Tommaso in qualità di Pro-Vicario.
Il 21 dicembre di quell’anno celebrò la Messa come di consueto, riunì i frati nel capitolo, e dopo avere loro raccomandato l’osservanza delle regole, la bontà e lo zelo, ed essersi scusato per i suoi difetti e per eventuali torti o dispiaceri arrecati loro, annunciò che sarebbe morto prima del tramonto.
Recatosi nella sua cella e ricevuti i sacramenti, rendeva l’anima a Dio.

 

  1. Tommaso di S. Marino, che gli era succeduto nella carica di Vicario, volle che Domenico non fosse seppellito nella fossa comune, ma nella chiesa. Nel 1545, quando i suoi resti furono traslati, durante deii lavori di ampliamento, furono trovati intatti. Aumentarono i prodigi e le guarigioni a lui attribuiti, e il culto attorno alla sua tomba.

Nel 1652 il convento di S. Maria delle Grazie venne chiuso per ordine di Innocenzo X, e la chiesa passò sotto la giurisdizione della Parrocchia di S. Maria in Reclauso.
L’urna con il corpo del beato Spadafora vi fu traslata il 3 ottobre dell’anno 1677. Il santuario fu ricostruito nel 1870, e nel 1874 ebbe luogo una nuova ricognizione del corpo, con relativo verbale.

 

Mancava solo il riconoscimento della Chiesa, fin quando, nel 1921, mons. Raffaele Santi, vescovo di Montefeltro, rivolse istanza al sommo pontefice Benedetto XV, corroborando così le sollecitazioni dell’Ordine, affinché a Domenico venisse riconosciuto il titolo di beato.
La sanzione ufficiale avveniva il 14 gennaio 1921, nel 4° centenario dalla sua morte, 7° dalla morte del fondatore, Domenico di Guzmàn.
 

Una preghiera ininterrotta

La vita terrena del Beato Domenico Spadafora si potrebbe compendiare nella mortificazione della volontà ed osservanza delle regole, che si adoperò incessantemente per ripristinare e riportare alla disciplina originaria.

Festa del beato – concelebrazione all’aperto.

Nato da nobile stirpe, avrebbe potuto far leva sulla sua posizione sociale per ottenere alte cariche e privilegi, in un tempo in cui il censo era fattore di forza e potere. Aveva parenti nelle più alte cariche dell’isola, influenti presso la casa d’Aragona, non potevano mancargli gloria, agi e vita facile, invece “si rinchiuse in un chiostro e si cinse di silenzio”.

La gente lo amava, i confratelli riconoscevano le sue eccezionali qualità, di cuore, di spirito e d’intelletto, i superiori gli conferivano titoli accademici e teologici, lo incitavano, gli davano stima e fiducia, eppure, lungi dall’aspirare a cariche ed onorificenze, si ritirò in un convento di montagna “piccolo coi piccoli”, accontentandosi di indicare la via del bene ai contadini e agli umili. “E sembra quasi che questa umiltà sia stata rispettata dalla storia – dice il suo biografo P. Diaccini – Quasi tutto infatti che si riferisce alla sua azione è scomparso e il silenzio circonda la sua figura”.

Smorzò con i digiuni, le veglie e le mortificazioni la sua indole impetuosa di siciliano, per trasformare la sua vita in una preghiera ininterrotta. Un continuo anelare alla perfezione e al bene. La città di Randazzo, che gli diede i natali può

Il santuario di S.Maria in Reclauso in Montecerignone.

 andare fiera di annoverare, tra i suoi figli più illustri, il nome del Beato Domenico Spadafora.

Il culto del beato Domenico, il gemellaggio e i rapporti tra le comunità di Randazzo e Montecerignone, inizio processo di canonizzazione, iniziative dell’O.P. 

L’altare del beato Domenico al santuario di S.Maria in Reclauso

Il culto del beato Spadafora, vivo sui luoghi dove visse e operò – basta notare la grande devozione attorno all’urna coi suoi resti mortali, e l’affluenza al santuario di S. Maria in Reclauso, a Montecerignone, specie la seconda domenica di settembre, in occasione della sua festa – e vivo anche fra i Domenicani, che ne fanno memoria il 3 ottobre, era caduto quasi nell’oblio proprio nei suoi luoghi di origine.
Qualcosa si risvegliò nel 2004, allorchè don Bialowas, rettore del santuario e poi postulatore della causa di santificazione, dopo aver visionato gli atti relativi alla beatificazione, e i documenti parrocchiali e diocesani, volle mettersi in contatto con il paese di origine, Randazzo. Iniziarono così e si cementarono anche i rapporti fra le due comunità, mentre da parte sua l’Ordine dei Predicatori si fece promotore di diverse iniziative religiose.
Proprio nel 2004 ad alcune visite a Randazzo di don Bialowas, per acquisire notizie e documentazioni, o alla testa di pellegrini cerignonesi, seguirono visite di delegazioni del comune di Montecerignone, giungendo così al gemellaggio tra le due città (Comune di Randazzo, Deliberazione consiliare n.11/2004).
Lo stesso anno un gruppo di circa 50 Randazzesi, con in testa l’Arciprete e il Sindaco, si recò per la prima volta in pellegrinaggio al santuario di S. Maria in Reclauso, partecipando alla festa del 12 settembre.
Il 20 ottobre i sindaci di Randazzo e Montecerignone, Agati e Giorgini, furono ricevuti a Roma da sua Santità Giovanni Paolo II; all’udienza furono presenti, fra gli altri, lo stesso don Bialowas e il principe Michele Spadafora, discendente del beato Domenico e allora attore della causa.

Il 13 febbraio 2005 don Bialowas offre alla città di Randazzo una reliquia del beato Domenico Spadafora, nel corso di una concelebrazione solenne nella basilica di S. Maria, alla presenza di autorità religiose, civili e militari.

Una data importante è quella del 10 settembre 2006: la Festa del beato Domenico Spadafora a Montecerignone, con massiccia partecipazione di pellegrini, coincideva con l’apertura del processo di canonizzazione.
Gli atti del processo diocesano saranno consegnati a Roma, alla Congregazione dei Santi, il 14 gennaio 2009.

Oltre ai vari scambi di visite e delegazioni, e al riacceso interesse per la figura del beato Domenico nella sua terra d’origine (non è un caso se negli ultimi anni sono state realizzate su di lui 4 o 5 tesi di laurea all’Università di Catania), oltre alle celebrazioni nelle varie ricorrenze e anniversari, una importante iniziativa, patrocinata dall’Ordine dei Domenicani, sono state le  “celebrazioni itineranti” , svoltesi dal 2006 al 2012, il 3 ottobre, giorno in cui l’O.P. fa memoria del beato, nei centri che furono legati alla famiglia Spadafora: Randazzo, Venetico Superiore (ME), Maletto (CT), Spadafora (ME), Roccella Valdemone (ME), con conclusione nella chiesa di S. Domenico a Catania, concelebrazioni che hanno visto la partecipazione dei parroci, del clero, dei sindaci ed autorità dei centri interessati, e di numerosi fedeli.

 Maristella Dilettoso

Raimondo Diaccini – Vita del Beato Domenico Spadafore

Raimondo Diaccini – Vita del Beato Domenico Spadafora


 

Per saperne di più guarda il sito : 

http://web.tiscali.it/beatodomenico/20%20Il%20Beato%20Domenico%20Rassegna%20Stampa.htm

 

LUCIA LO PRESTI

    Randazzo :  Sala consiliare “Falcone e Borsellino” gremita per la presentazione del libro postumo di Lucia Lo Presti 
Randazzo la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale”. 

Maristella Dilettoso

Si è svolta il 23 aprile, presso la Sala consiliare “Falcone e Borsellino” del Comune di Randazzo, gremita da un folto pubblico di amici, parenti, conoscenti, giovani e non, la presentazione del libro di Lucia Lo Presti Randazzo, la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale, pubblicato da Il Convivio Editore. Una presentazione di certo insolita, per l’assenza dell’autore.

Dopo il saluto del primo cittadino, prof. Michele Mangione, ha preso la parola Gaetano Di Silvestro, in veste di moderatore, tracciando una breve biografia di Lucia Lo Presti, una ragazza di Randazzo che nel 2012 aveva conseguito la laurea all’Accademia di Belle Arti di Catania, specializzandosi in Restauro, venuta a mancare a soli 28 anni il 5 giugno 2014, dopo aver lottato contro una lunga malattia.
Il volume presentato è appunto la sua tesi di laurea, che i familiari hanno voluto pubblicare non solo per onorarne la memoria, e per rendere tutti partecipi di una ricerca rilevante per la storia della città, ma anche per devolverne il ricavato alla Fondazione IEO (Istituto Europeo Oncologico) – CCM di Milano. Si tratta di una monografia che indaga i danni subiti dalla cittadina di Randazzo durante i bombardamenti del 1943, al fine di fare un bilancio non solo delle opere distrutte, ma anche di quelle danneggiate e ancora recuperabili. 

Primo relatore è stato Giuseppe Manitta, direttore editoriale de “Il Convivio”, critico letterario, autore di numerosi volumi, tra i quali apprezzati studi sul Leopardi, ma anche compagno di studi di Lucia, negli anni di frequentazione del Liceo classico “Don Cavina” di Randazzo:
Con Lucia ci eravamo conosciuti in un’aula del Liceo – ha esordito – e quindi la mia partecipazione emozionale è superiore rispetto ad altri episodi del genere” e ha proseguito analizzando la metodologia utilizzata dall’autrice nella ricerca e nell’uso delle fonti, affermando: “Lucia ha svolto un lavoro fondamentale, quello che è avvenuto a Randazzo fa parte della storia, ma purtroppo i piccoli centri mancano di studi su tali avvenimenti, e Lucia ha colmato questo vuoto. Il metodo di ricerca e il metodo storiografico individuano la centralità di Randazzo nella 2a guerra mondiale, poiché il paese si trovava lungo una linea di difesa che interessava le forze italo-tedesche. Oltre alle fonti letterarie e alle testimonianze, ancora più importanti sono le fonti iconografiche, sia quelle antecedenti la distruzione, sia le immagini riprese nel momento della distruzione, che mostrano le deturpazioni subite dalla città”, per concludere: “Nel libro di Lucia non è vi è solo l’analisi della distruzione, ma di quello che si può recuperare del patrimonio artistico e architettonico, quindi il libro va letto anche in positivo”.    

 È stata poi la volta di Maristella Dilettoso, per oltre un trentennio direttrice della Biblioteca comunale, giornalista, autrice di numerosi articoli e di testi sulla storia e tradizione locale, che si è soffermata sugli aspetti devastanti dei bombardamenti del luglio-agosto 1943 per la città di Randazzo, su come quei tragici giorni furono vissuti dagli abitanti, e quanto negli anni e nelle generazioni successive sia stato importante per loro conoscere quale fosse prima il volto della città.

 “La mia generazione ha avuto la sorte di non conoscere la guerra, almeno non direttamente, ma è cresciuta nell’immediato dopoguerra, quando il ricordo di quei giorni, e di quegli eventi, era ancora troppo forte, e tante ferite non si erano ancora chiuse e cicatrizzate.
La mia generazione non è cresciuta soltanto con i racconti delle fiabe, ma è venuta su anche con i racconti ancora vivi del tempo di guerra, racconti di aerei, di bombe, di sfollamento nelle campagne, di incertezza del domani, di fame, di paura.
La mia generazione ha camminato, per diversi anni, lungo le strade di un paese che portava visibili le stimmate della guerra, imbattendosi ancora in tante case e palazzi sventrati impietosamente, o ridotti in macerie.
Cosa c’era, cosa è scomparso, cosa è rimasto, cosa è stato recuperato… ecco l’importanza di questo libro
”, aggiungendo: “Il libro si rivela molto interessante perché è un altro tassello che va ad aggiungersi agli scritti che costituiscono, sotto aspetti diversi, la bibliografia su Randazzo, per noi randazzesi e per quanti ne avessero la voglia, potrà essere utile a ricostruire, a immaginare com’era il nostro paese, e a non dimenticare. Inoltre il libro raccoglie, in un tutto organico, notizie che finora si trovavano in ordine sparso, e offre una vera e propria mappatura del paese, perché suddivide la materia in edilizia sacra, civ

ile, militare, toccando chiese, palazzi, edifici pubblici, vie, porte, ecc. e distinguendo tra patrimonio distrutto, danneggiato, e recuperato”.
Come puntualmente è documentato dal libro di Lucia Lo Presti, il luglio – agosto 1943 fu un mese di incessanti attacchi aerei, dove, ad onta della Convenzione dell’Aja del 1907, non si esitò a bombardare ospedali, edifici indifesi, chiese e luoghi di culto, vi persero la vita molti civili, e come se ciò non bastasse, vi furono anche gli strascichi, a causa dei tanti ordigni inesplosi di cui pullulava il territorio di Randazzo, che nell’immediato dopoguerra causarono morti e numerosi feriti, anche tra i bambini.  “A morire, oltre la gente, furono anche le opere d’arte…” con questa frase lapidaria Lucia concludeva infatti la sua Tesi di laurea.
Molto indovinate le citazioni di scrittori siciliani poste in apertura dei capitoli: dalla Cronachetta siciliana di Nino Savarese, per la parte storica, e dagli autori randazzesi per la parte descrittiva, è come se questi incipit facciano da contrappunto alla descrizione dei nudi fatti, proponendo le sensazioni e riflessioni dell’uomo.
Il sindaco di Randazzo, Michele Mangione, ha concluso, nella sua qualità di docente, ravvisando l’opportunità di adottare il testo nelle scuole superiori, e la necessità di trasmettere ai ragazzi i valori della tradizione locale, educarli a conoscere la storia del proprio paese, di avviare dei progetti che incoraggino gli alunni a ricostruire, anche attraverso la conoscenza delle fonti orali, la mappatura del paese e del patrimonio scomparso, per far crescere una gioventù impegnata a raccogliere il valore della storia e della propria storia personale.

Dopo alcuni interventi del pubblico in sala, fra gli altri quello del professore Arcidiacono, dell’Accademia di Belle Arti, col quale la giovane scomparsa aveva collaborato negli ultimi tempi a un tirocinio per il restauro di una chiesa a S. Pier Niceto, e della dott.ssa Rossella Caporale, amica e collega di studi, che tra l’altro ha osservato: “Lucia sarebbe stata felicissima, perché desiderava concretizzare con la pubblicazione questo suo lavoro”, è stato il coordinatore della serata, Gaetano Di Silvestro, a concludere, dicendo:
Penso che Lucia ci abbia voluto dare un messaggio, di riunire le nostre forze, di capire le ricchezze che possediamo e di raccoglierne il frutto, il messaggio che ci lascia Lucia è di amore verso il proprio paese”.


Maristella Dilettoso  
(Articolo pubblicato su Il Convivio n. 65 – 2016)

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        Lucia Lo Presti – La Cassino del Sud

(Randazzo 23 aprile 2016: Aula Consiliare “Falcone e Borsellino” – contributo di Maristella Dilettoso durante la presentazione del libro) 

Gli Alleati a San Martino – Randazzo

 

Maristella Dilettoso

Se mi trovo qui stasera, è perché tempo addietro i familiari di Lucia vollero affidarmi questo testo per una revisione, prima di darlo alle stampe, e voglio ringraziarli per questa fiducia.
Il testo, infatti, era nato come una tesi di laurea, e prima che diventasse un libro, questo era un primo passaggio obbligato: dei passaggi successivi, e dell’aspetto editoriale, si è occupato poi Giuseppe Manitta. Sinceramente, dopo il suo intervento, dove sono stati approfonditi gli aspetti storici e letterari, c’è poco da aggiungere.
Avevo conosciuto l’autrice, anche se superficialmente, per ragioni familiari, e inoltre quando operavo presso la biblioteca comunale, l’avevo incontrata spesso proprio mentre lavorava alla tesi, e cercava dei testi, delle fonti, e qualche suggerimento.

Tuttavia c’è un altro aspetto di questo lavoro che mi intriga, e che mi ha incuriosita da sempre, ed è la voglia di capire, di sapere come e quanto sia cambiato il volto di Randazzo nell’arco di un secolo. Tanto che mi ero occupata anni addietro dell’argomento, dei bombardamenti alleati e di ciò che ne è conseguito per Randazzo, molto più in breve, naturalmente, per un articolo pubblicato nel 2000, dove provavo a censire i danni riportati dalla città a causa dell’evento più catastrofico che l’abbia colpita fino ad ora. Questa è una ragione in più perché questo scritto mi ha profondamente colpita e interessata.

La mia generazione ha avuto la sorte di non conoscere la guerra, almeno non direttamente, ma è cresciuta, negli anni dell’immediato dopoguerra, quando il ricordo di quei giorni, e di quegli eventi, era ancora troppo vivo nei più grandi, tanti lutti erano ancora troppo recenti, tante ferite non si erano ancora chiuse e cicatrizzate.

Le macerie lungo il corso Umberto – Randazzo

La mia generazione non è cresciuta soltanto con i racconti delle fiabe, ma è venuta su anche con i racconti ancora vivi del tempu ri guerra, ed erano racconti di aerei, di fortezze volanti, di spezzoni incendiari, di oscuramento, di sfollati nelle campagne, di incertezza del domani, di fame, di paura.

La mia generazione ha camminato, per diversi anni, lungo le strade di un paese che portava visibili i segni della guerra, perché la ricostruzione fu lenta e faticosa, percorrendo quelle vie ci imbattevamo ancora in tante case e palazzi sventrati in modo impietoso, o ridotti in cumuli di macerie, e quelli rimasti in piedi mostravano sui muri, come delle ferite ancora aperte, i fori delle bombe.

La maggior parte dei randazzesi visse quella “lunga estate calda” del 1943 nelle case di campagna, nelle proprie o in quelle di amici e parenti, in una strana promiscuità, con poco cibo, dando fondo alle scorte alimentari che erano riusciti a portarsi dietro; qualcuno dei più giovani tentava ogni tanto delle rapide spedizioni in paese, per recuperare qualche provvista dimenticata nella fretta, mettendosi così a duro rischio e pericolo: spesso durante queste “incursioni” trovavano la loro casa già distrutta, in altri casi saccheggiata, o ancora invasa da saccheggiatori, tedeschi o inglesi che fossero.

Andando avanti negli anni, si è fatta sempre più forte e costante la voglia di conoscere quale aspetto avesse Randazzo prima di quel fatidico luglio-agosto 1943, ci sarebbe voluta la macchina del tempo, invece abbiamo dovuto accontentarci di poche immagini viste sui libri, come quello del De Roberto, e di qualche sbiadita foto d’epoca, che purtroppo non documentano tutto, perché di molti angoli del paese, chiese, palazzi, statue, quadri, ecc. non esiste più nessun documento o nessuna testimonianza.

Cosa c’era, cosa è scomparso, cosa è rimasto, cosa è stato recuperato… ecco l’importanza di questo libro

Soldati Alleati a Randazzo

Vero è, e dobbiamo ammetterlo, che anche prima di allora, ma soprattutto dopo, tanti altri guasti sono stati perpetrati ai danni del nostro patrimonio, e non solo con le distruzioni, ma anche con interventi quanto meno discutibili.

Ma quella che si consumò in appena un mese, un mese interminabile per chi lo visse, fu la più devastante delle catastrofi, il culmine, una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo, perché di danni Randazzo ne aveva subiti tanti nel passato, saccheggi, incendi, inondazioni, eruzioni dell’Etna, terremoti, e tanti, anche per incuria umana o ignoranza, ne avrebbe subiti dopo.

Perché dopo i danni inferti dagli Alleati e dai Tedeschi, la storia di Randazzo, è costellata di vere e proprie violenze al patrimonio, al residuo nostro patrimonio, che dal dopoguerra si sono protratte fino ai giorni nostri, penso all’euforia della ricostruzione negli anni ’60, e penso a tanti rifacimenti e restauri anche decisi dall’alto, e spesso improvvidi e di dubbio risultato.

Come già è stato detto, e come puntualmente è documentato dal libro di Lucia, fu un mese di incessanti attacchi aerei, dove in barba alla Convenzione dell’Aja del 1907 non si esitò a bombardare anche ospedali, edifici indifesi, chiese e luoghi di culto, persero la vita numerosi civili, o per mano dei soldati, o sotto le bombe, come quelli che si erano rifugiati dentro la chiesa di S. Martino, devastata dalle bombe il 7 agosto, anzi uno dei beni più danneggiati, e come se ciò non bastasse, vi furono anche gli strascichi, una lunga scia di sangue, a causa di tutti gli ordigni inesplosi  di cui pullulava il territorio di Randazzo, che nell’immediato dopoguerra causarono morti e numerosi feriti, anche tra i bambini.

Abbiamo avuto molte testimonianze su quei giorni, oltre a quelle riportate sul libro, credo che ciascuno di noi ne abbia sentito parlare in gioventù, in famiglia e fuori, e purtroppo non abbiamo avuto sempre il buon senso e la preveggenza di registrarle o di trascriverle.

Però una testimonianza, una per tutte, vorrei riportare, dato il tema, quella di un uomo, un grande uomo, che a quei tempi non era ancora cittadino randazzese (lo sarebbe diventato nel 1979). Era venuto a Randazzo nel 1937, aveva trovato una splendida cittadina medievale, uno scrigno di tesori d’arte, e se ne era innamorato, ma anche lui come tutti dovette assistere, in quella estate infausta del 1943, allo scempio e alla devastazione. Parlo di don Virzì, che nella premessa al suo libro sulla chiesa di S. Maria descrive tutto questo con parole che a oltre 30 anni di distanza commuovono e danno i brividi.

Ho perduto, come tanti altri, tutto, rimanendo con solo ciò che avevo addosso e col rimpianto della distruzione di tutto quello che era stato il sogno più bello della mia vita: la visione di bellezza di una città medievale (e qui descrive tanti particolari, finestre, portali, viuzze…). Ed io, pellegrino doloroso, mi immersi in mezzo a queste rovine, cercando il passaggio tra i mucchi di macerie, … ma ogni cosa gridava il suo dolore e il suo strazio…E il mio cuore impotente pianse davanti alla distruzione di tanto materiale artistico e storico insostituibile che aveva reso, con la sua scomparsa, impenetrabile e incomprensibile ormai alla mente umana intieri periodi storici della vita della città e della Chiesa…”

Per me, se mi concedete una considerazione personale, c’è una statua che compendia e rappresenta la guerra e la distruzione di Randazzo: avrete certamente presente la Madonna attribuita a Vincenzo Gagini, oggi a S. Martino, e un tempo a S. Maria del Gesù. È una statua bellissima, per me la più bella che ci sia a Randazzo, ho visto qualche vecchia fotografia che la ritrae ancora integra… invece adesso è una Madre dall’aria triste, che regge sulle braccia un Bambino con le gambe spezzate… ecco, questa statua è per me una metafora della guerra, una metafora di ciò che la guerra fece e lasciò a Randazzo: dolore, danni agli uomini e alle opere d’arte, la metafora di una storia spezzata.

Infatti “A morire, oltre la gente, furono anche le opere d’arte…” con questa frase lapidaria Lucia conclude la sua Tesi di laurea. È una frase che fa riflettere.

Perché, a rileggere queste pagine, dove è stato profuso impegno, ricerca, lavoro fisico e mentale, nel ricostruire con puntualità, precisione cronologica e documentaria, la sofferenza di una città, è difficile non ripensare alla sofferenza di Lucia, ma anche al fatto che una giovane donna, nell’espressione culminante del suo percorso di studio, qual è una tesi di laurea appunto, ha espresso un atto d’amore, ma anche di speranza e di volontà di recupero, verso il proprio paese.

Il libro si rivela molto interessante – oltre che per lo scopo umanitario e solidale per cui ne è stata voluta la pubblicazione – ma perché è un altro tassello che va ad aggiungersi agli altri scritti che costituiscono, sotto aspetti diversi, la bibliografia su Randazzo, è pregevole per la ricchezza delle fonti, sia locali che esterne, ma su questo si è già soffermato Giuseppe Manitta, per noi randazzesi e per quanti ne avessero la voglia, potrà essere utile a ricostruire, a immaginare com’era il nostro paese, e a non dimenticare.

Questo libro raccoglie, in un tutto organico, notizie che finora si trovavano in ordine sparso, e offre una vera e propria mappatura del paese, perché suddivide la materia in edilizia sacra, civile, militare, toccando chiese, palazzi, edifici pubblici, vie, porte, ecc. e distinguendo tra patrimonio distrutto, danneggiato, e recuperato.

Ho trovato molto indovinate le citazioni dalla Cronachetta siciliana di Nino Savarese, per la parte storica, e degli autori randazzesi per la parte descrittiva, perché è come se questi incipit messi in apertura a ogni capitolo facciano da contrappunto alla descrizione dei fatti, dei nudi fatti, proponendo le sensazioni e riflessioni dell’uomo.

E fa ancora molta impressione (personalmente almeno mi ha molto colpita) rivedere la fredda cronologia dei bombardamenti, dell’aviazione alleata, vedere come, in questo “bollettino delle incursioni” il nome di Randazzo ricorre di continuo, quasi tutti i giorni, in un elenco cosi asettico, di una freddezza chirurgica, direi, dove si elencano le località colpite, e tutto questo mentre qui, nel paese, per ciascun abitante, ogni giornata, ogni incursione, rappresentava altra sofferenza, dolore e distruzione.

Infine, ricordiamoci (non voglio dirlo a scopo consolatorio ché sarebbe riduttivo) che ciascuno continua a vivere attraverso quello che ha prodotto, nel bene come nel male, attraverso le proprie opere: oggi ancora tanta gente del passato, artisti pittori musicisti poeti continuano a parlarci attraverso i loro quadri, le loro musiche immortali, i loro scritti, consegnando all’umanità valori che sopravvivono nella memoria, nella cultura e nella storia. E conoscere il passato del proprio paese alimenta la memoria storica, perché la memoria non è un dato immobile, statico, ma un qualcosa che, passando per la conoscenza delle proprie radici e della propria identità, ci fa proiettare verso il futuro.

 

Randazzo, la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale:
Il saggio si articola in due parti: i danni che la guerra ha causato e ciò che, dall’altro lato, ha risparmiato.
Per ognuna di esse si ritrovano riscontri e testimonianze documentarie, siano scritturali o iconografiche, così che è possibile per il lettore non solo affidarsi alla descrizione dei mutamenti, ma anche di seguirli ipso oculo.
Tra le opere danneggiate si possono individuare due categorie ben specifiche: le opere completamente distrutte dalla guerra e dalle ricostruzioni o abbattimenti successivi, quindi oramai non identificabili nel tessuto urbano, ed opere gravemente danneggiate ma ancora esistenti…

The essay is divided into two parts: the damage the war caused and what, on the other hand, has saved. For they themselves are iconographic and documentary evidence, or scriptural, so it is possible for the reader not only rely on the description of the changes, but also to follow them ipso oculus. Among the works are damaged you can identify two specific categories: works completely destroyed by war and the subsequent slaughter, then rebuilds or unidentifiable now into the urban fabric, and severely damaged but still standing.

Eroi dimenticati: la tragedia dei soldati italiani a Kos (sott.ten.Gaetano Vagliasindi)

Beato quel popolo che non ha bisogno d’eroi” .   ( Bertold Brecht) 

 

Maristella Dilettoso al Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari

L’armistizio firmato l’8 settembre 1943 non segnò soltanto l’inizio della Resistenza e della lunga strada che portò l’Italia alla democrazia, ma anche della tragedia di tante migliaia di soldati italiani sorpresi in terra straniera, che in quell’evento invece avevano visto l’imminenza di un ritorno alla loro patria e alle loro case.

Kos – foto Roberto Santangelo

Nel settembre 2001 l’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, forse per la prima volta, volle commemorare presso Porta San Paolo gli oltre 500, tra militari e civili, che persero la vita nella cosiddetta battaglia di Roma, nell’intento di fermare l’ingresso dei nazisti nella capitale. Il gesto del Capo dello Stato non era che il seguito di una sorta di viaggio nella storia di quegli eventi, dolorosi e controversi, che drammaticamente si susseguirono dopo l’8 settembre 1943, senza limitarsi alle sole vittime cadute durante la Resistenza, ma ricordando anche quegli 87mila appartenenti alle forze armate che caddero durante la guerra di liberazione, e particolarmente «gli eroi di Cefalonia, Corfù, delle isole dell’Egeo, i marinai della “Roma” e tanti altri che non vollero cedere le armi».
Infatti, il 1° marzo dello stesso anno il Presidente Ciampi si era recato a Cefalonia, ridente isola dello Ionio, per commemorare i soldati italiani della divisione Acqui fucilati dai tedeschi nei tragici avvenimenti che seguirono all’armistizio, una delle pagine più amare e dolorose del 2° conflitto mondiale, ancor più perché dimenticata per decenni dalla storia ufficiale, tenuta viva soltanto nel ricordo dei familiari, e dei pochi sopravvissuti.
Grazie a quel gesto del Presidente parve che finalmente qualcosa si fosse mosso, seguirono infatti una puntata della trasmissione radiofonica Radio anch’io, un reportage televisivo, una puntata di Novecento di Pippo Baudo, il tutto in concomitanza all’uscita sugli schermi di due film, I giorni dell’amore e dell’odio, per la regia dell’esordiente Clever Salizzato, che sembra però essere passato inosservato nelle sale cinematografiche, e Il mandolino del capitano Corelli, di Madden, tratto dall’omonimo romanzo di Louis de Berniéres, in cui, come spesso avviene nella cinematografia straniera, gli italiani sono rappresentati con la solita immagine stereotipata di gente intenta solo a suonare il mandolino.

Kos – foto Roberto Santangelo

  Di là da tutto questo, e dei giudizi in merito, l’importante è che se ne sia cominciato a parlare, e che dopo decenni di un silenzio, non del tutto incolpevole, si sia aperto uno spiraglio su quei fatti. Purtroppo però ai fatti analoghi verificatisi sul fronte dell’Egeo non fu riservata la stessa diffusione dalla stampa e dai media.
Quando, l’8 settembre 1943, Badoglio firmò l’armistizio, pur prevedendo che avrebbe potuto conseguirne un’aggressione da parte tedesca, lo Stato Maggiore contava di avvertire i comandi periferici solo dopo qualche giorno.
Poiché gli Alleati anticiparono la proclamazione, e i tedeschi ne vennero subito a conoscenza, i più impreparati a fronteggiare gli eventi erano proprio gli italiani: nei Balcani, in Grecia e nell’Egeo le truppe italiane e tedesche erano frammischiate, e le nostre, inferiori numericamente, furono, in pratica, lasciate allo sbaraglio; gli ordini centrali furono così tardivi, confusi e contraddittori da far sì che i militari italiani cadessero nelle braccia dei tedeschi.
Essi infatti, appena avuto notizia dell’armistizio, iniziarono contro l’esercito italiano una serie di rappresaglie, occupazioni, combattimenti, deportazioni. Messi sempre più alle strette, e «traditi» dai loro alleati, dovevano punirli: nei Balcani, in Grecia, nell’Egeo, non vi furono che eccidi e deportazioni in massa. Si volle poi colpevolizzare i comandi periferici, ma, di fatto, l’esercito ricevette ordini contraddittori, quando ci furono, e si trovò abbandonato al proprio destino, in balia dell’alleato del giorno prima, ora nemico acerrimo assetato di vendetta.
Fra le cronache, fuggevoli e frammentarie, di queste vicende, spiccano, perché circostanziati, precisi, ricchi di nomi, testimonianze e densi di pathos, i memoriali di due cappellani militari, due “preti con le stellette” sopravvissuti alle stragi, quello di P. Romualdo Formato[1], cappellano presso il 33° Artiglieria della divisione Acqui, e quello di P. Edoardo Fino[2], cappellano dell’Aeronautica a Rodi.

S.Ten. Gaetano Vagliasindi con altri Ufficiali

La resistenza di Cefalonia iniziò il 13 settembre. In un primo momento fu dato l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi, che dovevano impegnarsi a rimpatriare gli italiani… Il generale Gandin, comandante della divisione Acqui, volle interpellare i suoi uomini, sottoponendo loro uno strano referendum: «contro i tedeschi con i tedeschi – cessione delle armi»; la truppa si espresse per la resistenza, che durò fino al 22. Non giunsero i richiesti rinforzi alleati, invece dal cielo e dal mare arrivano rifornimenti ai tedeschi, il cielo si ricoprì di stukas, la lotta fu impari e feroce.
Il 24 settembre i tedeschi comunicarono al mondo che gli uomini della «ribelle» divisione Acqui avevano in parte deposto le armi, in parte erano stati «annientati in combattimento».
Era una menzogna. Lo stesso giorno gli ufficiali furono condotti presso la penisola di S. Teodoro, vicino a una villetta, la «casetta rossa», per essere interrogati; invece furono fucilati in massa.
I superstiti, disarmati, furono imbarcati per essere avviati ai campi di concentramento su due navi che affondarono appena raggiunsero il largo dopo aver urtato contro delle mine.
Le salme della «casetta rossa» furono gettate in mare. Cefalonia, l’isola della morte, era piena di cadaveri. Scrive Padre Formato nel suo racconto drammatico, terribile, eppure profondamente pervaso di spirito cristiano, proprio lui che assolse tutti, e raccolse l’ultimo saluto degli ufficiali: «Ho scritto trepidando… molte volte piangendo». E ancora: «Le vittime di Cefalonia… chiedono qualche cosa alla Patria, per il cui onore esse si immolarono. Chiedono che il loro sacrificio non venga dimenticato. Le gloriose gesta della divisione Acqui dovranno essere tramandate alle future generazioni come uno dei più puri esempi di sacrificio collettivo affrontato per un alto sentimento di obbedienza e di dovere».
Nella vicina Corfù l’ordine di resa fu respinto, i soldati si rifiutarono di consegnare le armi senza dignità e senza garanzie, si resisté con l’appoggio della popolazione, ma il 25 l’isola era in mano ai tedeschi, gli ufficiali uccisi.

Kos – foto R.Santangelo

Maristella Dilettoso al sacrario dei Caduti d’Oltremare – Bari

Questo sul versante ionico. Dall’altro lato, sull’Egeo, la tragedia si replicò, una due, tre, tante volte quante erano Rodi e le isole del Dodecaneso, tragedia quasi ignorata, presto dimenticata, questa, rievocata dal libro parallelo di Padre Edoardo Fino.
Rodi, l’isola delle rose, fulcro di tutto il Dodecaneso, sede dell’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni, caduta in mano turca, fu riconquistata dall’Italia nel 1912, durante la Guerra di Libia. Dal 1923, col il Trattato di Losanna, l’Italia vantava il Possedimento delle Isole Italiane nell’Egeo, 14 in tutto: Rodi, Castelrosso, Calchi, Piscopi, Scarpanto, Caso, Simi, Nisiro, Coo (patria di Ippocrate, la più importante dopo Rodi), Calino, Lero, Lisso, Patmo, Stampalia. Non colonie, ma Possedimenti, alle dirette dipendenze del Ministero Affari Esteri, con uno speciale ordinamento giuridico, rette da un Governatore e dai Podestà. Vi erano state realizzate scuole, edifici, strade, ospedali, eseguiti restauri.
A Rodi c’era una missione, e un Cappellano militare per ogni campo. Gli uomini di truppa presenti nell’Egeo prima dell’8 settembre erano oltre 30.000, della divisione Cuneo e Regina, la base navale era a Lero, per l’inadeguatezza del porto di Rodi.
II comando di Roma si preoccupava poco di Rodi e dell’Egeo; sapendo che gli italiani vi erano in maggioranza, l’ammiraglio Campioni fu autorizzato a regolarsi discrezionalmente, ma gli alleati suggerivano di contrastare i tedeschi. Questi occuparono subito gli aeroporti, fecero prigionieri all’improvviso ufficiali italiani, cominciarono a bombardare le caserme, mentre le comunicazioni venivano interrotte, e dall’Italia non arrivavano né notizie, né disposizioni, né rinforzi. Si combatté con sorti alterne, con molte perdite di uomini, fino all’11 settembre.
I soldati che resistettero furono uccisi, mentre, dopo la resa di Rodi, i tedeschi si spostavano verso le isole minori per continuarvi la guerra.
A Coo vi era un ospedale, una Missione cattolica, circa 4000 uomini e pochi tedeschi, fino all’8 settembre l’isola era stata tranquilla.
Dall’11 al 2 ottobre ci furono 30 attacchi aerei, il 3 ottobre arrivarono anche i mezzi navali tedeschi, dapprima scambiati per inglesi.
. Gli inglesi che erano sbarcati precedentemente si defilarono, gli italiani rimasero a combattere da soli, e, sopraffatti dovettero rassegnarsi alla resa.
Gli ufficiali italiani, concentrati nelle saline di Linopoti il 5 ottobre, interrogati sommariamente e avviati verso il porto – per imbarcarli, si disse – lungo il percorso furono mitragliati alle spalle.
Erano un centinaio, 103 probabilmente, ma solo 66 di loro furono riconosciuti nel marzo 1945 quando, grazie al cappellano militare padre Michelangelo Bacheca ed alla pietas e collaborazione degli abitanti dell’isola, greci e civili italiani, rinvenute in fosse comuni, le loro spoglie non furono raccolte e traslate nel cimitero cattolico di Kos, dove una lapide ricorda tuttora il loro sacrificio e i loro nomi. Solo a guerra finita, nel 1954, furono trasportate in Italia e tumulate nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.

Dopo Kos, i tedeschi si spostarono a Lero, che resistette eroicamente, ma inutilmente, fino a novembre.

Kos – foto R.Santangelo

Sacrario dei Caduti d’Oltremare – Bari

Col trattato di Cassibile Rodi e le isole dell’Egeo vennero assegnate alla Grecia.
Pagina amarissima, questa, e tuttavia trascurata dalla storiografia ufficiale, dimentica che i martiri ci furono dappertutto, non soltanto alle Fosse Ardeatine e a Marzabotto, partigiani ma anche militari, italiani essi pure, che avevano lasciato la loro terra ed i loro affetti più cari, avevano indossato la divisa, avevano imbracciato le armi, ragazzi di appena vent’anni che con i loro sogni finirono in fosse comuni, o in fondo al mare, senza nome né gloria.
L’oleografia ufficiale della Resistenza, assieme del resto ai tanti governi che si sono avvicendati in quasi sessant’anni, si è resa autrice di un ingeneroso “distinguo”, quasi che, rispetto a quegli italiani che lottarono sulle montagne, questi altri fossero cittadini di serie B.
Ricordiamo anche un’intervista, alquanto sconvolgente, rilasciata dal senatore a vita P. Emilio Taviani[3] dove si dichiarava che nel 1956 non si vollero perseguire i tedeschi responsabili di quegli eccidi perché allora, in tempi di guerra fredda, mentre l’URSS stava invadendo l’Ungheria, e la Germania tentava a fatica di risollevarsi, e di riarmarsi per assumere un ruolo importante in seno alla NATO, prevalse la ragion di stato, per il timore delle eventuali ripercussioni che questi fatti avrebbero potuto avere nell’opinione pubblica. Basti pensare al gravissimo e sconcertante episodio del cosiddetto “armadio della vergogna”.
Quando nel 2001, durante la commemorazione dei morti delle Fosse Ardeatine, e per la prima volta, ad essi furono accostati, e nobilitati nel ricordo, i martiri di Cefalonia, sul fronte ionico, in molti restò ancora una punta di rammarico, un po’ d’amaro in bocca, per la dimenticanza dei caduti dell’Egeo, a Rodi, Kos, Lero, italiani e martiri anch’essi, in quell’estremo guizzo d’orgoglio che fece loro alzare la testa per difendere il nome d’una patria, seppure ridotta in ginocchio e a brandelli.
Era ora che se ne parlasse, di questi morti, ritenuti forse per troppo tempo imbarazzanti, dacché un certo modo di fare storia, manicheo e farisaico, ne aveva relegato in soffitta la memoria, ignorando come «la storia può essere maestra solo a coloro che non hanno troppa fretta di dimenticare».
Sicuramente non hanno dimenticato tanti congiunti, madri, spose, figli, discendenti, molti dei quali hanno visto questi uomini solo in fotografia, ma anche gente tenace, che si è battuta e continua a battersi, contro tante difficoltà, prima tra tutte l’oblio, e poi il disinteresse, l’imbarazzo forse, affinché queste vittime avessero il giusto riconoscimento, anche da parte delle istituzioni. 
Poco alla volta, sono nate iniziative, comitati, associazioni, e, dato il forte impatto delle nuove tecnologie, sono apparsi anche dei blog e dei gruppi sui social network, gruppi dove gli interessati hanno potuto conoscersi, comunicare a distanza e prendere e condividere iniziative attraverso il web.
Sull’argomento sono stati pubblicati libri, che hanno squarciato, purtroppo ancora solo in parte, il velo della generale indifferenza, com’è stato nel 2002 per quello del giornalista Ettore Vittorini [5], sulla tragedia delle isole egee in generale, ma, in maniera più circoscritta e dettagliata riguardo ai fatti di Kos, nel 2008 è stata la volta della pubblicazione del colonnello Liuzzi[6], personaggio cardine in questa vicenda, e nel 2010 di quella della professoressa Isabella Insolvibile [7].

Kos – foto Roberto Santagelo

Pietro Giovanni Liuzzi, ex colonnello dell’Esercito Italiano, si batte da anni tenacemente, con gli scritti ma anche con le azioni concrete, perché sia riconosciuta dignità a quanti versarono il proprio sangue innocente per mantenere fede a una promessa e a un ideale di patria.
L’aveva già fatto anni prima occupandosi del massacro dei militari italiani perpetrato dai nazisti sull’isola di Cefalonia all’indomani dell’Armistizio dell’8 settembre 1943[8] e adesso, dedicandosi a Kos, da qualcuno definita “la piccola Cefalonia”, per la gravità e l’efferatezza dei crimini consumati, in qualità di Presidente del Comitato per i Caduti di Kos, ha promosso numerose iniziative, volte ad ottenere risultati tangibili, scrivendo ai comuni di provenienza dei caduti, al fine di individuare e contattare i familiari, collaborando e creando gruppi sul web, promuovendo petizioni alle massime autorità istituzionali, organizzando o presenziando a mostre e conferenze che potessero tenere desta la memoria, intervenendo, il 6 ottobre 2013, a Kos, con numerosi congiunti delle vittime, alla cerimonia per il 70° anniversario dell’eccidio degli Ufficiali del 10° Reggimento “Regina”.
Scrive Ugo Sbisà: “A quella pagina oscura della storia italiana si è appassionato in Italia Pietro Giovanni Liuzzi, un colonnello in congedo di origini tarantine, promotore di una petizione al presidente Napolitano per il riconoscimento storico e la commemorazione dell’eccidio di Kos[9] e autore di Kos. Una tragedia dimenticata (…), un volume … nel quale la vicenda viene ricostruita anche attraverso documenti ufficiali rimasti fin troppo a lungo negletti. Nelle intenzioni di Liuzzi, che ha promosso varie conferenze e iniziative e ha ottenuto che nel 2010 e nel 2011 venissero celebrate a Kos commemorazioni ufficiali in onore dei 103 caduti, c’è l’inserimento di Kos negli itinerari della memoria insieme a Cefalonia, El Alamein, Sant’Anna di Stazzena… “ .[10]

Ultimamente lo stesso Liuzzi, si è indirizzato alla ricerca delle fosse comuni mancanti, e di quelle 37, su 103 salme, non ancora recuperate:  nonostante le oggettive difficoltà dovute al tempo trascorso, alla natura acquitrinosa del suolo di Linopoti, agli eventi atmosferici (alluvioni, ecc.), alle trasformazioni avvenute nel terreno, ottenuto l’interessamento del ministro Gentiloni, e delle autorità locali di Kos, grazie al contributo materiale ed economico di sostenitori, di operatori italiani e greci, è partita, nella prima settimana del luglio scorso, la cosiddetta “operazione Lisia”[11] . Gli scavi, effettuati nei luoghi dell’eccidio, hanno dato i loro frutti: sono infatti stati rinvenuti oggetti e ossa umane (ancora da identificare attraverso esami istologici e definizione del DNA) di quella che doveva essere una delle fosse comuni.

S.Ten. Gaetano Vagliasindi

Pare che le autorità di Kos siano intenzionate a proseguire le ricerche nel tempo, e che gli oggetti ritrovati saranno esposti nel Museo di Storia della II guerra mondiale in allestimento a Kos.

Gaetano Vagliasindi era nato nel 1921, era un ragazzo che amava la famiglia, gli amici, gli scherzi, quando vestì la divisa frequentava il 3° anno di Ingegneria all’Università di Messina, la sua breve vita finì in un giorno di ottobre (il 6, forse) … fu ritrovato nel 1945, assieme a tre dei suoi infelici compagni, in una fossa comune a Linopoti (Kos), grazie alla pietà di un cappellano coraggioso e dei generosi abitanti di quell’isola ridente. Dal 1954 i suoi resti riposano nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.

 Era mio zio, sì, ma non l’ho mai conosciuto se non in fotografia, e non voglio certo dire che fosse speciale o diverso dagli altri, tutti i morti sono un po’ speciali per i loro congiunti. Allora voglio dedicare questo scritto alla memoria di Gaetano e degli altri 102 ufficiali suoi compagni d’arme e di sventura, che videro prematuramente la fine troppo presto e in un luogo troppo bello.

 A cura di Maristella Dilettoso

(Articolo pubblicato su Cultura e Prospettive n. 28, Supplemento a Il Convivio n. 62, Luglio – Settembre 2015)

 

[1]  P. Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia (Mursia, 1968)

[2]  P. Edoardo Fino, La tragedia di Rodi e dell’Egeo (EICA, 1957)

[3]  L’Espresso (n. 45 del 9 novembre 2000)

[4]  Dal libro di Franco Giustolisi,, L’Armadio della vergogna (Nutrimenti, 2004): un armadio, rinvenuto nel 1994 in un locale di palazzo Cesi-Gaddi (sede di vari organi giudiziari militari) in via dell’Acquasparta a  Roma. Vi erano contenuti centinaia di fascicoli e registri, relativi a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazifascista. Tra i fascicoli, atti riguardanti le più importanti stragi naziste, fra le quali l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, l’eccidio di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto), di Monchio e Cervarolo, di Coriza, di Lero, di Kos, di Scarpanto, la strage del Duomo di San Miniato e altri ancora…

[5]) Ettore Vittorini, Isole dimenticate: Il Dodecaneso da Giolitti al massacro del 1943  (Le Lettere, 2002)

[6] ) Pietro Giovanni Liuzzi, KOS una tragedia dimenticata, settembre 1943 – maggio 1945 (Taranto, 2008)

[7] ) Isabella Insolvibile, Kos 1943-1948. La strage, la storia (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010).

Isabella Insolvibile, di Napoli, già borsista della Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, ricercatrice presso l’Università “Federico II” e consulente tecnico della Procura Militare di Roma per l’indagine relativa ad alcune stragi naziste, collabora alle attività didattiche e di ricerca della cattedra di Storia Contemporanea della Seconda Università di Napoli; è membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, componente del gruppo di ricerca che sta lavorando all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia, e molto altro ancora, si occupa da tempo in maniera specialistica di storia militare, con ricerche relative alle stragi naziste contro soldati italiani e alla prigionia di guerra.

[8]) Pietro Giovanni Liuzzi , Leali ragazzi del Mediterraneo. Cefalonia Settembre 1943: viaggio nella memoria (Taranto, 2006)

[9]) Alla petizione avrebbero  aderito ben 4.162 firmatari

[10]) Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 13 giugno 2015

[11] ) Ugo Sbisà, ibid. : “Un ultimo dettaglio di natura storico – letteraria: il nome dell’operazione, “Lisia” .. è stato mutuato dall’epitaffio scritto dal celebre giurista ateniese per i caduti in difesa dei Corinzi

          Vi segnaliamo alcuni libri che parlano di questa tragedia.

 

 

   A cura di Lucio Rubbino

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