Olga Foti
Nasce a Randazzo nel 1936 e fa in tempo a vedere un “prima” e un ”dopo” della guerra anche per i costumi, la mentalità.
E “il vecchio”, e quel che di “nuovo” malgrado tutto le guerre portano, si trova nella prima parte della raccolta Racconti sparsi nel tempo ed. Robin.
Appena maggiorenne lascia il paese e va da sola a Parigi per imparare il francese e lì lavora au pair presso la famiglia dello scrittore François Billetdoux.
Una cosa da pionieri, per qualcuno, invece quasi uno scandalo per la maggior parte dei randazzesi perché per le donne valeva ancora il detto:
Facci chi non cumpari cent’unzi vari
facci chi cumpari sira e mattina non vari
mancu na busa ri gallina
In seguito ripete l’esperienza in Germania e poi lascia definitivamente Randazzo per Milano dove vive tutt’ora ma ogni anno ritorna in vacanza nel paese che le stava stretto.
Il paese natio bisogna abbandonarlo per ritornarci con amore anche solo col pensiero.
A Milano ha insegnato per molti anni, ha viaggiato soprattutto attraverso l’Asia e l’Africa occidentale.
Come viaggiatrice, non come turista. Adesso si occupa di letteratura.
Uno dei tanti incontri per la presentazione della Sua ultima fatica.
Un bellissimo racconto di Olga Foti
L’AMANTE
L’Amante aveva le unghie laccate di rosso.
Anche un brillante, grosso come una nocciola, e avrebbe voluto darlo a mia madre se le avesse assicurato il pane – solo il pane – aveva precisato, per il tempo che restavamo sfollati. Eravamo sull’Etna, la Montagna, c’era la guerra.
L’Amante era arrivata dalla città con un uomo che si chiamava anche lui l’Amante, gli adulti dicevano che le aveva dato un mucchio di soldi ed era tornato in tutta fretta dalla moglie.
Strano che un uomo avesse il nome da femmina o forse era L’Amante con le unghie laccate che aveva un nome da maschio. Certo è che con il brillante e tutti quei soldi faceva la fame. Le piccole mele selvatiche che cercava di raccogliere sugli alberi stenti erano davvero troppo acerbe, troppo dure, immangiabili, e mia madre non poteva assicurarle il pane, né per carità cristiana né per amore del brillante. Ho due bambine, le aveva detto, e non sappiamo quanto tempo si deve restare qua.
C’era la guerra. Quella di Elio Vittorini era stata una bella guerra, la mia, bellissima, una straordinaria meravigliosa vacanza.
Non avevamo acqua, quella del pozzo doveva servire per bere e cucinare, non ce n’era per lavarsi e quindi non ci lavavamo. Si dormiva nella paglia, vestiti, e appena svegli, di corsa nei prati senza la solita perdita di tempo, compresa quella della colazione al tavolo di cucina. Qui non c’era né tavolo né cucina, solo un enorme fienile, un’aia, un pozzo e una distesa senza fine di terreni brulli e boscaglia. Tornavamo stanchi e affamati e per noi c’era pane e latte di capra e poi, nella giornata senza orari, formaggio, minestra di lenticchie o di fagioli, anche cosce di pollo.
Con i bambini, avevano detto gli adulti, non ci possiamo permettere di perdere la testa, e prima di andar via, sotto la pioggia colorata dei volantini americani che invitavano a lasciare il paese, avevano caricato le mule con sacchi di farina, legumi secchi, polli e conigli nelle gabbie. Quindi il cibo non ci mancava.
L’Amante, invece, prima aveva cercato di comprarlo, il cibo, con quel mucchio di carta che poteva servire solo ad accendere il fuoco e con il brillante grosso come una nocciola, poi si era rassegnata e se non fosse stato per il buon cuore delle donne che di nascosto dei mariti le davano qualcosa, sarebbe davvero morta di fame.
Noi bambini sempre in giro a far la guerra. Io ero il generale, tutti gli altri ufficiali, e non fu mai possibile trovare un soldato. Esploravamo il territorio in cerca di nidi vuoti, piante sconosciute, fiumi o ruscelli. Non per l’acqua ma per i ranocchi. Per questo avevo bocciato la proposta di un ufficiale di raggiungere il mare: lì i ranocchi non si trovavano.
Spesso incontravamo l’Amante che raccoglieva qualche pannocchia inselvatichita di granturco, mezza marcia, apprezzata solo dagli uccelli, e in uno di quegli incontri, educatamente, (ce lo ripetevano sempre: prima si saluta, e se si chiede qualcosa si dice “per piacere”) quindi io, dopo averla salutata, le chiesi:
Per piacere, perché hai un nome da maschio?
Da maschio…? Io mi chiamo Marinella, non è un nome da maschio.
Non ti chiami l’Amante?
Mi guardò, prima stupita, poi rise fino alle lacrime e mi fece una carezza con quella mano bianca con le unghie rosse.
Quindi il suo nome non era l’Amante. Mi sembrò giusto informare gli adulti.
Cosa c’era da ridere? E invece anche loro risero fino alle lacrime.
Hai sentito?, si ripetevano, Marinella si chiama, non l’Amante, e continuavano a ridere. Ma una donna arrivata per ultima col padre e le zie e che dormiva in un angolo del fienile, mi regalò un uovo piccolino, il primo della sua pollastrella, disse. Proprio me lo meritavo.
Solitamente con gli adulti ci stavamo poco, solo un mattino siamo rimasti con loro perché quello che chiamavamo zio Peppino, anche se non era lo zio di nessuno, aveva cercato di rubare un secchio d’acqua.
Non era nemmeno mezzo secchio, protestava lui debolmente, smarrito, maldestro, volevo lavarmi. Puzzo!
E quelle parole caddero pesanti come sassi davanti il grande pozzo. Ci fu un momento di silenzio, lungo più dell’eternità, poi un uomo disse: mi dispiace, zio Peppino, con l’acqua dobbiamo bere e dar da bere agli animali e gli voltò le spalle per entrare nel fienile. Ritornò con un grosso catenaccio mezzo arrugginito e da quel giorno il pozzo rimase chiuso. Si apriva solo al mattino per il rito della distribuzione dell’acqua, e allora si vedeva l’Amante, in fila assieme agli altri, con in mano il pentolino che le aveva regalato mia madre.
A volte veniva a trovarci il baronello, sfollato con la famiglia in una sua proprietà non lontana, e portava anche notizie del paese. Parlava e poi chiedeva un bicchiere d’acqua che a volte diventavano due e anche tre.
Nella loro grande tenuta con casa e palmento il pozzo era quasi vuoto. Ma la cosa che suscitò l’indignazione di molti fu il fatto che il baronello un giorno si versò un po’ d’acqua sul palmo della mano per lasciarla leccare al cane. Cose da pazzi, anche al suo cane dovevamo dar da bere!
Io segretamente parteggiavo per il baronello e quel povero cane morto di sete ma allora i bambini non avevano il diritto di esprimere la propria opinione.
Non potevamo permetterci di scialacquare l’acqua, decretarono molti adulti, e appena vedevano arrivare il baronello gli uomini se la squagliavano. Lui era troppo educato e non si sarebbe permesso di restare con le donne se gli uomini di famiglia non erano presenti. Ma una volta, il signore del lucchetto al pozzo, non fece in tempo ad andar via e si trovò il baronello proprio di fronte. Un momento di silenzio, di imbarazzo, e poi: Abbia pazienza barone, noi qui non abbiamo acqua da sprecare.
Il baronello non si vide più.
Tutti erano certi che gli Americani avrebbero distrutto il paese perché: non avevamo il mare, né un porto, e nemmeno fabbriche d’armi, ma c’era il ponte che collegava la provincia di Catania a quella di Messina, e per quel ponte quante bombe avrebbero buttato?
E in quelle parole anche noi bambini potevamo intravedere della guerra un volto fino a quel momento sconosciuto, quello di Guernica che non conoscevo ancora, ma che apparve, inconfondibile, quando il paese bruciò. Illuminato a giorno nel buio della notte, fiamme che si levavano verso il cielo, altissime, e noi in quell’aia davanti il fienile, adulti e bambini, un mucchio di teste con lo sguardo verso il paese lontano.
Il nostro paese. Sapevamo dov’era, oltre il bosco di castagni, ma in basso, molto più in basso, sotto la Valle del Bove, e si capiva come le bombe incendiarie si stavano accanendo su quel che restava ancora delle case. Tacevamo e il silenzio era peggio di tutti i pianti, di tutte le grida.
Ma non avrei potuto immaginare che al ritorno, quella distruzione sarebbe stata ai miei occhi la cosa più affascinante vista in vita mia. Mucchi di macerie come colline, montagne di calcinacci che si dovevano scalare per poter entrare – dai balconi e dalle finestre – in quel che era rimasto delle case. Persino sul terrazzo della signora Carmeni dove c’era ancora il bellissimo glicine ormai sfiorito potevo arrivarci direttamente dalla strada senza chiedere permessi a nessuno. E potevamo entrare nelle case di persone che conoscevamo ma che non erano parenti né amici, nelle loro cucine senza tetto dove nelle crepe dei muri crescevano violacciocche o qualche uccello aveva fatto il nido.
Ma la scoperta straordinaria, l’esplorazione che dava i brividi, soprattutto all’imbrunire, era quella delle chiese. In piedi ne erano rimaste ben poche (il nostro era il paese delle chiese) e quelle crollate avevano fatto venir fuori crani e scheletri. Scheletri di preti, pensavamo, forse di vescovi. Anche di Papi, era possibile?
Restavamo nel dubbio, agli adulti non si poteva chiedere, lo capivamo da soli, va bene la guerra e quella straordinaria libertà, va bene tutto, ma andare a scovare gli scheletri nelle chiese era troppo davvero.
Un giorno, però, mentre esploravamo il convento mezzo distrutto delle monache, davanti a un teschio che doveva essere per forza di donna visto che là c’erano state sempre monache, quello che era stato un mio ufficiale disse all’improvviso: E l’Amante, forse è morta ed è diventata così?
Nessuno di noi l’aveva più nominata, forse l’avevamo dimenticata, ma lui, che s’incantava quando l’incontravamo nella boscaglia, che non osava salutarla ma non le levava gli occhi di dosso fino a quando lei non si vedeva più, davanti a quei teschi aveva detto: E l’Amante, forse è morta ed è diventata cosi?
Nessuna risposta ma qualcosa che assomigliava alla paura circolò fra di noi anche se non era l’imbrunire, anche se il sole splendeva come gli altri giorni.
Gli adulti parlavano soprattutto dei furti subiti, anche le radio erano state rubate eppure erano grandi come mobili, rubate da gente del paese, certo, che le teneva ben nascoste. A nessuno piaceva passare per ladro. C’era già stato il caso di donna Anna, la lavandaia, con i carabinieri che le avevano fatto “il sopraluogo”.
La figlia di donna Anna, una ragazzina di tredici anni, si vantava con le amiche :
“Quando mi sposo mia mamma mi dà il corredo a dodici.”
“Come sarebbe a dire?”
“Vuol dire: dodici lenzuoli, dodici tovaglie da tavola, dodici coperte.”
Donna Anna, povera che più povera non si può? O erano vanterie senza capo né coda oppure…
Quando la vecchietta andò dalla baronessa madre a riferire quel che aveva sentito con le sue orecchie: così, così, e così, la baronessa non voleva crederci, scemenze di ragazzina, e poi donna Anna era la sua lavandaia da sempre, quasi una di famiglia, la baronessa in inverno diceva alle serve di riscaldarle l’acqua. Certo, anche perché con l’acqua calda la biancheria viene meglio.
I carabinieri comunque glieli mandò ma era sicura che non avrebbero trovato niente.
Invece trovarono, altro che se trovarono! Dodici paia di lenzuoli, dodici tovaglie… Il corredo della baronessina ricamato dalle suore del convento di clausura.
Comunque da noi la guerra era finita, gli Americani erano sbarcati in santa pace, si erano messi d’accordo con i “Don”, quelli potenti, i capi dei capi, dicevano gli adulti, e la contraerea non aveva sparato un colpo, i soldati si erano subito arresi, le armi consegnate col sorriso sulle labbra.
In Continente però non era così e c’erano i Partigiani, non era chiaro chi fossero, non se ne sapeva molto, i giornali non arrivavano e le radio erano state rubate.
Noi bambini correvamo ancora da una parte all’altra del paese con pentole e padelle che gli adulti chiedevano o davano in prestito perché quelle in rame erano sparite, altre erano sfondate, e la maggior parte dei tegami in coccio erano ridotti in mille pezzi.
Il sapone si faceva sempre in casa con la cenere e il grasso di pecora, bambine giocavano ancora sulle macerie con vestitini di broccato ricavati da pezzi di tende rimaste miracolosamente intatte o con vestiti ricavati da pezzi di lenzuoli non ancora completamente lisi, ma la nostra bellissima guerra era finita.
Infatti, anche se dai soffitti delle aule cadevano sulle nostre teste i calcinacci, si erano riaperte le scuole.
E l’Amante?
Uno di noi aveva chiesto una volta a un gruppo di adulti che si raccontavano di quando eravamo sfollati, ma la risposta infastidita era stata: Che amante?
Non gradivano interventi nei loro discorsi, sciò, sciò, ci dicevano come si faceva con le galline per allontanarle e noi non ci pensammo più.
Poi cominciarono a tornare gli uomini che avevano fatto la guerra. Per primi due avanzi di galera partiti volontari, poi uno che aveva ucciso la moglie buttandola giù per le scale “E’ caduta…” ma lui andava a combattere e non si poteva indagare.
Del resto molte donne cadevano dalle scale e restavano sciancate o segnate per tutta la vita, erano deboli di gambe o di testa, soggette a capogiri.
Poi stranamente il fenomeno cessò per riprendere quando gli uomini tornarono dalla guerra.
L’impegno contro il femminicidio :
LA BARONESSA DI CARINI
In Italia l’abrogazione del delitto d’onore è solo del 1981: 5 agosto 1981. Questi assurdi parrucconi ancora oggi assolvono stupratori in nome della verginità o dei jeans. Ma, per fortuna, tutto il mondo ride di loro. Era affacciata ‘inta lu so balcuni
La vecchia strada a zig-zag tutta in ombra e i pipistrelli che piombavano dall’alto, oscillando, sembravano una premonizione. Davanti al castello l’uomo scese da cavallo con un salto, toccò terra davanti alla grande porta di quercia rinforzata con lamine di ferro, cominciò a camminare lentamente, a passi pesanti. Serrava e disserrava i pugni percotendoli l’uno contro l’altro, e a tratti guardava verso il balcone ora vuoto. La luce del tramonto metteva in risalto la sfera del suo viso e i neri mustacchi che accentuavano la piega della bocca contratta dalla collera. Restò qualche istante fermo, immobile come un giustiziere, poi fece un segno d’intesa ai suoi soldati e entrò da solo nel castello. La baronessa gli venne incontro: “Signuri patri chi vinisti a fari?” Con un’aria quasi cortese il padre le annunciava la decisione di ucciderla. “Signuri patri chi vinisti a fari?” Sentì come un pugno alla bocca dello stomaco e cominciò a correre sulle assi di legno del corridoio quasi buio, malgrado il vestito lungo l’impacciasse, le cordelle del busto la stringessero. Il corridoio sembrava interminabile, la porta della foresteria così lontana, mentre l’uomo era sempre più vicino, più vicino, con il suo puzzo di stalla e di sudore. Lu primu colpu la donna cariu E poi più niente. L’uomo uscì dalla stanza, ripercorse il corridoio buio, attraversò un piccolo cortile dove i resti di un’armatura sanguinavano ruggine in una pozzanghera. Ciumi, muntagni, arburi, cianciti Seduti davanti il porticciolo i pescatori cantavano per i villeggianti come avevano sentito fare ai cantastorie. Olga Foti
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Un articolo a favore delle persone anziane
Gentili lettori, qualche tempo fa una milanese di spirito ci informò di essere stanca di essere definita «nonnina » quando veniva derubata o «anziana pensionata» se veniva investita. Sono una signora, mandò a dire, o più semplicemente una cittadina. Punto.
Ci iscriviamo al club dei signori e delle signore che non accettano a cuor leggero di aggiungere alla loro persona il titolo di anziano o vecchio, con associato risolino di compatimento: è un’offesa gratuita e un po’ volgare.
Una caduta di stile che, se viene da una carica istituzionale, non passa inosservata.
Così è stato per il sindaco Albertini, quando ha detto di Ombretta Colli che è solo «un’anziana signora», riprendendo il giudizio su di lei dato da un ex presidente della Milano Serravalle: poteva evitarlo, e magari essere anche più cattivo, senza scivolare nella gaffe.
Perché in quell’ «anziana signora», come i lettori hanno segnalato, c’è una sentenza inappellabile che si legge in sottinteso: vuol dire «finita », «passata», «bollita», cosa che può essere anche giusta se attribuita a una campionessa dello sport, a una maratoneta, una tennista, una nuotatrice che misura i suoi riflessi in base all’età, ma che mal si addice a un ex assessore, europarlamentare e presidente di Provincia che torna in pista con una lista per Milano.
L’ironia fa bene alla politica ma quando diventa greve o volgare infastidisce.
Se il sindaco vede così Ombretta Colli (64 anni), sarebbe curioso sapere che cosa pensa di Diana Bracco (60) e Inge Feltrinelli (76): nessuna di loro ci appare un’anziana signora, tutte hanno voglia di fare, di appassionarsi, di credere in un’impresa. E sono anziani signori Umberto Veronesi, 80 anni, Giorgio Armani, 69, Fedele Confalonieri, 68?
In un Paese governato da un premier di 69 anni, sfidato da un leader politico di 66, l’età è una variabile indipendente. Contano l’entusiasmo, il carisma, la capacità di trasmettere esperienza, saper guidare i giovani con l’esempio e la parola.
Mandi un mazzo di rose a Ombretta Colli per ritrovare la gentilezza smarrita, sindaco Albertini. E consideri le donne, in politica e altrove, signore a prescindere. I cittadini, anziani e no, apprezzeranno.
Il resto, lasciamolo a «Scherzi a parte»
Olga Foti