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Walther Leopold

L E O P O L D   W A L T H E R

La Chiesa di Santa Maria di Randazzo di Francesca Passalacqua

Randazzo è l’ultima tappa dell’itinerario di Walter Leopold: lo studioso ne apprezzava immediatamente le caratteristiche paesaggistiche particolari di un centro storico incastonato sui declivi dell’imponente vulcano, in cui individuava una grande quantità di edifici civili di epoca medievale, ma affermando che «il massimo interesse lo destano la Chiesa di Santa Maria e la torre di San Martino» [Leopold 2007, 146].
La cittadina etnea deve il suo sviluppo all’amministrazione normanna, che ne aveva fatto lo snodo territoriale tra la costa ica siciliana e l’interno del territorio [Natoli Di Cristina 1965,; Basile 1984,; Terranova 1985, ].

Francesca Passalacqua

Sito alle falde del vulcano, sull’estremo lembo di un’antica colata lavica, l’abitato cresceva entro le mura con un andamento fusiforme e si sviluppava per effetto di un «singolare sinecismo di tre gruppi etnici distinti, derivanti dal ceppo latino-arabo, da quello lombardo e da quello greco» [Natoli Di Cristina 1965, 69].
Tre nuclei, pertanto: ciascuno cresciuto intorno alla propria chiesa, così da simboleggiarne i rispettivi valori e le rispettive tradizioni.
Fin dall’età medievale, le tre chiese di San Martino, di San Nicola e di Santa Maria, schierate lungo l’asse centrale dell’impianto urbano, erano i cardini di una forma urbis scandita da tre quartieri attraversati da un reticolo di viabilità variamente intersecato.
Era stato proprio l’assetto medievale della cittadina etnea ad attirare, come s’è detto, Walther Leopold a Randazzo, e a consentirgli di riconoscerne l’appartenenza agli oppida lombardorum di Sicilia.
Non a caso egli scelse di disegnare, insieme agli edifici e alle chiese, anche particolari costruttivi e decorativi che accomunassero i centri urbani attraverso le architetture risalenti a quell’aulica esperienza formale.
Per le architetture randazzesi Walter Leopold concepì dieci tavole.
La chiesa di Santa Maria, il campanile della chiesa di San Martino e le due piccole chiese di San Vito e Sant’Anna venivano rappresentati in sei tavole, mentre le restanti quattro si occupavano di alcuni edifici civili: i palazzi Lanza e Clarentano e le case La Macchia e Spitalieri.
Interessato esclusivamente ai caratteri originari delle fabbriche, Leopold riportava nelle tavole le piante, alcune sezioni, i prospetti principali e, come sappiamo, ometteva volutamente gli interventi incongrui con il periodo esaminato, arricchendo altresì il disegno di un gran numero di particolari costruttivi che esaltavano la fondazione medievale degli edifici selezionati.
Alla chiesa di Santa Maria egli dedicò ben tre tavole, ricostruendone l’ipotetico assetto primitivo, eliminando quelle trasformazioni considerate posticce.

 

W.Leopold – Chiesa di Santa Maria 1910/1911 – Randazzo

 

W.Leopold – Chiesa di Santa Maria profilo laterale 1910/1911 – Randazzo

W.Leopold – Chiesa di Santa maria 1910/1911 – Randazzo

Disegnando il tempio maggiore, rappresentava un edificio interamente marcato dai soli caratteri medievali. Interessato soprattutto all’assetto esteriore e ai caratteri originari, Leopold tralasciava le modifiche che sarebbero intervenute successivamente all’interno e all’esterno della chiesa, trasformandone radicalmente l’impianto originario.
Dalle epigrafi di fondazione deduceva l’esemplarità federiciana della chiesa e, nel ridisegnare la pianta e il prospetto laterale, secondo i procedimenti costruttivi dell’epoca di fondazione, Leopold sostituiva persino il portale meridionale – più tardo – con il disegno di un portale preesistente.
La rappresentazione restava anche mutila del prospetto principale e della cupola, che avevano completato il cantiere tra il XVIII e XIX secolo.
L’analisi dell’edificio è introdotta (senza alcun commento) dalla rappresentazione del calco delle due epigrafi, che gli permettono di confermare l’impostazione planimetrica del tempio, composto da tre navate separate da due file di sei colonne a sostegno di archi e concluso dalla vasta area del transetto triabsidato [Leopold 2007, 148].
La prima tavola  riproduce l’area absidale della chiesa. Divisa in due parti, nella superiore rappresenta (a scala maggiore rispetto ai restanti disegni) il prospetto delle absidi e del transetto affiancato dalle relative sezioni delle cornici di coronamento.
Nell’ inferiore, invece, pone al centro la pianta dell’intero edificio, riportandone fedelmente soltanto i caratteri presumibilmente originari e inserendo lateralmente il disegno della cripta e la relativa sezione trasversale sormontata dalle absidi; completano la tavola i disegni dei particolari delle bifore del transetto, delle finestre absidali e delle sculture leonine, che Leopold ritrova incastonate nella muratura della cripta e che ritiene di epoca romanica [Virzì 1984, 243].
Nella seconda tavola , dedicata principalmente al prospetto meridionale dell’edificio, risaltano le omissioni.
Leopold infatti non disegnava il campanile del prospetto principale, tralasciava integralmente la cupola e sostituiva il portale laterale con un portale coevo alla costruzione della fabbrica, «conservato», a suo dire, «in un ripostiglio». Dovrebbe trattarsi del portale laterale, originariamente sul prospetto settentrionale, poi rimosso per dar posto all’attuale porta d’ingresso, che invece proviene dal prospetto principale. [Leopold 2007, 148].
Grande risalto ricevono invece i particolari costruttivi del doccione, della cornice di coronamento e delle diverse aperture (le bifore e la trifora) dell’area del transetto, che occupano la parte sottostante della tavola.
 Il suo rigoroso senso del restauro dell’architettura medievale induceva, per contro, lo studioso a rappresentare, nella terza tavola concernente il tempio di Santa Maria , i portali laterali rimossi dal disegno dei prospetti.
Databili non prima del XVI secolo – proprio in ossequio al Cinquecento – potevano meritare di essere rappresentati: un privilegio negato alle successive opere (quali le modifiche della zona absidale finalizzate alla copertura del transetto con cupola e la torre campanaria, ricostruita nel secondo Ottocento), che restavano del tutto ignorate [Mothes 1882, 576-577; Bottari 1950, 41-42]. 

Leopold attribuendo la costruzione della chiesa di Santa Maria al tempo di Federico II di Svevia, come attesta l’epigrafe ancora conservata nel portico sottostante la sacrestia, la riteneva, nel suo aspetto esterno «uno splendido esempio di architettura» di quel tempo.

Conclusioni

Alla fine degli anni Novanta, Mario Manganaro, docente di disegno all’Università di Messina, recentemente scomparso, celebrava il viaggio-studio di Leopold con una raccolta di disegni dal titolo: Isole nell’isola. Ripercorrendo l’itinerario dello studioso tedesco realizzava raffinate vedute dei centri siciliani «con lo spirito del diario grafico di un viaggiatore» e un animo attento e delicato come la sua mano di esperto disegnatore.  Rappresentando, ottant’anni dopo il viaggio-studio di Leopold, gli stessi luoghi, rilevati e disegnati dallo studioso tedesco, Manganaro riproponeva scorci e vedute delle isole, prescelte all’interno della nostra Isola, 

 

Mario Manganaro

scoprendo, ancora una volta, un panorama tanto variegato dei centri storici, quanto è varia la storia della Sicilia. 
Alla ricerca del medioevo lombardo, Manganaro come Leopold, aveva individuato quei monumenti che mantenevano salda l’origine della costruzione, malgrado le modifiche e le sovrapposizioni successive.
Era rimasto particolarmente affascinato dal campanile della cattedrale di Piazza Armerina, che, «serrato dalla poderosa fabbrica barocca, mostra sul fianco laterale

 

Mario Manganaro – Chiesa di Santa Maria 1997


la sua candida architettura originaria». [Manganaro 1998, 1], rappresentandolo con dovizia di particolari per esaltarne le forme gotiche.
L’autore, come tanti studiosi, confermava la validità dell’opera di Leopold che, con un approccio curioso ha contribuito a diffondere un patrimonio artistico che è testimone, tra i tanti popoli che si sono avvicendati nel corso dei secoli, della cultura lombarda in Sicilia.
Francesca Passalacqua

per saperne di più:

 

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a cura di Francesco Rubbino 

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