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Canonico Giuseppe Finocchiaro

                                                                                                                      Un protagonista di mezzo secolo di storia randazzese

                                                                                                                          IL CANONICO GIUSEPPE FINOCCHIARO

Maristella Dilettoso

         Difficile restare obiettivi e asettici quando si parla di persone verso le quali ci si sente apparentati da un legame di stima, di affetto, ancor più quando la loro immagine è sfumata, da un canto, dai ricordi dolcissimi dell’infanzia, ed è ingigantita, dall’altro, dalle testimonianze di rispetto di quanti ancora ne conservano memoria. Ma poiché il Canonico Giuseppe Finocchiaro ebbe un ruolo più che attivo nella comunità randazzese, riscuotendo stima ed amicizia, tanto nell’ambiente laico quanto in quello clericale, e purtroppo i più, a quarant’anni dalla sua scomparsa, sembrano avere dimenticato troppo presto questo concittadino, tenteremo di ricostruire le linee generali della sua biografia.
 Giuseppe Finocchiaro nacque a Randazzo il 7.1.1884, quarto di sei figli, da Cesare e Giovanna Vagliasindi, e dal padre, più volte impegnato nell’amministrazione della cosa pubblica, dovette forse ereditare quella certa passione per la politica che fu uno dei tratti più singolari e discussi della sua personalità.
            Compiuti gli studi, si ordinò sacerdote il 21 dicembre 1907. Sua prima aspirazione era stata quella di entrare nella famiglia salesiana, ma le precarie condizioni di salute della madre gli fecero accantonare questo proposito.
Il latino, appreso sui banchi di scuola, per lui non aveva segreti: lo insegnò per qualche anno al Real Collegio Capizzi di Bronte, più tardi dava ripetizioni in privato, e si dice che riuscisse a tradurre ed a comporre in questa lingua con notevole scioltezza e padronanza.
Suo è il testo dell’epigrafe, incisa in marmo e posta all’interno dell’abside maggiore della chiesa di S. Maria, a commemorare la riconsacrazione dell’altare dopo i danni subìti durante i bombardamenti del 1943.

 

In questa foto il canonico Giuseppe Finocchiaro con alcuni allievi del Real Collegio Capizzi di Bronte.

Nel 1910 l’Arciprete Francesco Fisauli, invitato da Don Luigi Sturzo ad una conferenza a Paternò, delegava, quale rappresentante del clero di Randazzo, il Canonico Finocchiaro con il compito di acquisire elementi utili per costituire ed organizzare anche a Randazzo un movimento cattolico.
          Partecipò quindi all’Atto costitutivo e alla stesura dello Statuto della Cassa Rurale Cattolica di Randazzo, ricoprendo il ruolo di Segretario dal 1910 al 1915, e facendo parte del Consiglio di Amministrazione fino al 1935, quando si dimise come molti altri esponenti del clero, dietro invito dei superiori (la Sacra Congregazione del Concilio “sconsigliò” in vari paesi i sacerdoti dal fare parte delle casse Rurali).
In quegli anni, quando una terribile e mortale epidemia di colera si abbatté su Randazzo (1911), si prodigò incessantemente in prima persona per l’assistenza ai malati ed ai moribondi, trascorrendo con loro gran parte delle sue giornate, nel lazzaretto che era stato allestito presso il Convento di S. Domenico.
            Nel 1912 venne nominato Economo Cassiere della Parrocchia di S. Nicolò, dove era coadiutore dal 1908, perché “abbastanza versato in fatto di contabilità” (V. verbale di nomina del 3.9.1912).
Lasciò la Parrocchia dal 1915 al 1918, quando, allo scoppiare del 1° conflitto mondiale fu inviato, come Cappellano Militare, col grado di Tenente, in zona di operazione.


Il canonico Giuseppe Finocchiaro in divisa di Cappellano Militare durante la guerra 15/18.

Raramente, poi, avrebbe parlato ad altri degli orrori vissuti e delle scene drammatiche cui gli toccò assistere al fronte: e questo fu sempre un altro aspetto del suo carattere: una qualche forma di pudore, o riservatezza, gli impediva di diffondersi a narrare i propri ricordi più tristi, o i propri dispiaceri, o le proprie sofferenze fisiche.
Preferiva piuttosto intrattenere gli intimi con gli aneddoti e gli episodi più divertenti. Così fu anche per l’esperienza della guerra, quando in realtà gli pesava troppo parlare di tanti amici e commilitoni che si era visto morire davanti tra le sofferenze, o straziati dalle granate, senza poterli aiutare, dovendosi accontentare di somministrare loro in fretta gli ultimi Sacramenti, spesso senza neanche il tempo di una Confessione.
Nel 1928, a seguito delle dimissioni per motivi di salute dell‘Arciprete Francesco Paolo Germanà (del quale era stato segretario), partecipò al Concorso per la carica di Arciprete. Superò il concorso Mons. Giovanni Birelli, che detenne la carica fino al 1966.
Tra la fine del 1936 e la primavera 1938, venne inviato in qualità. di Vicario Economo nella vicina Castiglione, dove si fermò circa un anno, alloggiando in Canonica, allo scopo di rivedere la contabilità, per presunti illeciti verificatisi durante i lavori di ricostruzione della Chiesa di Maria SS della Catena.
Una bolla del nuovo Vescovo di Acireale, mons. Salvatore Russo, emanata l’8 dicembre 1936, doveva segnare una data storica per Randazzo: con essa infatti si poneva fine a quella vexata quaestio della secolare disputa fra le tre chiese di S. Maria, S. Nicolò e S. Martino. Fino ad allora esse ricoprivano il ruolo di matrice a rotazione, per un anno ciascuna, e l’unico Arciprete parroco aveva sede nella matrice di turno. Il Vescovo, trovando ciò difforme dalle norme di Diritto Canonico, sanciva con tale bolla la parrocchialità autonoma delle tre chiese, con proprio parroco e due coadiutori, abrogava i turni di matriciato, eleggendo come unica matrice la chiesa di S. Maria, la quale sarebbe stata anche sede di Arcipretura.

In questa foto si riconoscono: Padre Matteo Paparo, Gaetano Vagliasindi, canonico Finocchiaro. 2°fila: arc. Giovanni Birelli, sig. Polizzi, canonico Edoardo Lo Giudice.

Il Canonico (perché talvolta emerge il conflitto tra l’uomo e il sacerdote), che con altra bolla episcopale del 4 luglio 1937 veniva nominato Parroco di S. Nicolò, nel suo intimo dovette mal digerire questa subordinazione ad un’altra chiesa.
La bolla del 1936, ad esempio, stabiliva fra l’altro che S. Maria avrebbe dovuto, per prima, il Sabato Santo, suonare le campane a gloria, e pare ch’egli si regolasse con i propri tempi e ritmi…
            Ma ben altre nubi si profilavano all’orizzonte. La Seconda Guerra mondiale, che a Randazzo portò lutti e rovine, distruggendo un patrimonio storico e monumentale di inestimabile valore, a Don Giuseppe portò eventi dolorosissimi: la notizia della morte del figlioccio e nipote prediletto, il Tenente Gaetano Vagliasindi, ucciso dai Tedeschi a soli 22 anni nell’isola egea di Coos, il 6 ottobre 1943, e poi ancora quella del nipote Alessandro Mancini, perito in mare il 9 settembre assieme a quasi tutto l’equipaggio della corazzata “Roma”.
E infine, i bombardamenti incessanti del luglio-agosto 1943, che aprirono in lui ferite profonde, come nel suo fraterno amico Salvatore Calogero Virzì.
La Chiesa di S. Nicolò venne centrata da una bomba, che distrusse la cupola, gran parte della navata centrale, la navata destra con tutta la sagrestia, la Canonica e molte opere d’arte.
Il parroco in quei giorni fu sorpreso a piangere, seduto tra le macerie della “sua” chiesa, che riteneva ormai irreparabilmente distrutta.
Ma l’attività di un sacerdote non si può mai fermare, neanche di fronte ai momenti di prostrazione più profonda. In un primo tempo aveva pensato di delimitare la navata di sinistra, rimasta quasi integra, per potervi officiare, ma in un secondo tempo le manifestazioni di culto vennero spostate nella chiesetta di S. Barbara, poi nella vicina S. Domenico (anche questa chiesa era pericolante, benché al momento del crollo della torre era già stato ripristinato il culto in S. Nicolò), mentre per ovviare alla perdita dei locali della canonica, dove soleva riunire tanti giovani, adattò una stanza al pianterreno della propria abitazione (Palazzo Clarentano), aprendola agli affezionati di sempre.
            Durante gli anni del conflitto si era adoperato, con impegno e a proprie spese, per rintracciare i prigionieri di guerra: dopo aver ricavato il codice dell’ultima corrispondenza inviata ai familiari, si metteva in contatto, a Roma, con l’Ordinariato militare, ottenendo le notizie di tanti militari randazzesi dispersi, che si affrettava a trasmetterle ai parenti.
            E venne la insperata ricostruzione, i lavori della cupola furono completati nel 1950, e in seguito anche quelli della chiesa, della canonica e sagrestia, sebbene con pianta diversa.


    Questa è una foto storica della ricostruzione della cupola della chiesa di San Nicola distrutta dai bombardamenti del 1943. Si riconoscono: Padre Mangano, il Canonico Finocchiaro, Padre Saro Maugeri e il carpentiere don Pippo Crispino.     

Nel dopoguerra ricoprì la carica di Presidente dell’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza),  ma in quei tempi troppi erano i bisogni, la popolazione randazzese era stata duramente colpita, ed era difficile accontentare tutti coloro che chiedevano sussidi.
            In parrocchia venne istituita la devozione a S. Rita da Cascia, al cui simulacro, ritirato direttamente da Ortisei, seguirono quello di S. Giuseppe e più tardi di S. Lucia, posti tutti nelle cappelle laterali; proprio nella ricorrenza di questi due Santi si fecero volare dalla piazza enormi palloni a gas, dalle forme più strane.
Durante la Settimana Santa il parroco seguiva e curava personalmente la solenne e suggestiva processione col Cristo nel “cataletto”, che si svolgeva allora il Giovedì Santo sera, e creò il gruppo dei figuranti rappresentanti i 12 Apostoli.
            Nelle arroventate elezioni amministrative del 1956, fu accanito sostenitore (fiancheggiato in ciò da una nutrita rappresentanza del clero), della Lista Civica che portò alla carica di Sindaco Pietro Vagliasindi.
Sembra che il Canonico ne sia stato, per alcuni versi e in varie occasioni, consigliere e ispiratore “Ma chi scrissi ‘u Canonicu?”, avrebbe esclamato il Vagliasindi mentre cercava di leggere, durante un comizio, gli appunti scritti nella grafia illeggibile di don Giuseppe).
            Morì l’11 marzo 1957, dopo essere stato colto da un ictus mentre si trovava in canonica.
            L’attività di don Giuseppe Finocchiaro non si fermò al suo ministero, che svolse sempre con estrema fermezza e dignità, ma spaziava anche in altri campi. Oltre che un latinista, era anche un esperto di Diritto Canonico, cui si rivolgevano spesso altri sacerdoti per chiarimenti e consulti, apprezzava la musica lirica, ma non disdegnava una partita a biliardo o una mano di briscola con gli amici.
            Un aspetto rilevante è quello dell’interesse per i giovani, di cui si circondava sempre in Canonica e fuori: forse proprio in quest’ottica si possono anche inquadrare l’affinità ed i buoni rapporti di amicizia e frequentazione con molti Salesiani, cui lo accomunava la cura e l’attenzione nell’intrattenimento dei ragazzi. Seguì per parecchio tempo l’Associazione S. Paolo, di Azione Cattolica maschile.
            Fu senz’altro una figura non convenzionale, quasi controcorrente, ma non comunque nel senso odierno di “prete scomodo”. Alcuni atteggiamenti, poco consueti per quei tempi in un sacerdote, gli costarono le critiche dei più formalisti.
Certi tratti sono rimasti fortemente impressi nella memoria collettiva randazzese, come il suo modo particolare di incedere, la dizione stretta e particolarissima, l’aroma di caffè che aleggiava in Canonica, l’eterna sigaretta “Tre Stelle” (aveva preso il “vizio” nel periodo trascorso al fronte, quando le scorte nei magazzini restavano inutilizzate perché tanti non tornavano più), le sue capacità di esperto solutore di giochi enigmistici, l’abito talare indossato in modo informale, con il collarino spesso slacciato.
            Era dotato di una memoria formidabile, e capace di grandi slanci di generosità e abnegazione, amante della compagnia e delle facezie, personalità molto spiccata e poco incline all’ossequio formalistico, intollerante dei soprusi e schietto nel suo dire, senza peli sulla lingua.

 

Nella foto il Canonico Giuseppe Finocchiaro co alcuni amici.

Molte cose ancora si potrebbero dire del Canonico, molti episodi si potrebbero riportare, di quelli che ci sono stati rievocati con simpatia e commozione da quanti gli furono accanto; tanti apprezzamenti e testimonianze postume si potrebbero citare, di quanti fecero a gara per ottenere l’amicizia di un personaggio considerato di levatura superiore; molte opere buone si potrebbero narrare, se non si temesse di fare un torto a quella sua modestia e ritrosia, che in vita non lo indusse mai a vantarsi del bene fatto, applicando alla lettera la massima evangelica “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”.
Ma non era il nostro intento quello di costruire un ritratto agiografico, da immaginetta commemorativa, bensì di riconsegnare al ricordo la figura di un uomo che ha contribuito a fare la storia del nostro paese, una figura dai forti tratti umani, sanguigna, coraggiosa, aliena dai compromessi, ma fortemente attaccata ai valori essenziali, autentici, fuori da schemi ieratici e convenzionali.

Maristella Dilettoso
(Articolo pubblicato sul Gazzettino di Giarre, nn. 26 e 27 del 1998)
Le foto con le didascalie sono di Maristella Dilettoso che si ringrazia anche per l’ottimo articolo.

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