Pietro Silvio Rivetta detto Toddi – La Città del TRE

Pietro Silvio Rivetta detto Toddi – La Città del TRE

 

                                    LA CITTA’ DEL 3

 

Un laghetto periodico – La prediletta dell’Etna – Un parente di Ernani Involami – Le viventi statue digiune – il tempo è relativo.  

Randazzo, febbraio 1934, XII.

    Se – come afferma un detto latino non aureo ma secolare – omne trinum est perfectum – la città della perfezione è sulle pendici settentrionali dell’Etna: Randazzo.
    Una locale tradizione vuole che Randazzo sia << città >> a causa di una illusione ottica di Carlo V: l’Imperatore, vedendo da lontano tre merlati campanili, li prese per  importanti castelli e domandò:
    – Come si chiama questa città che ha tre si dei castelli?

   I notabili randazzesi, gongolanti per l’abbiglio preso dall’Imperatore, acciuffarono la bella occasione e ringraziarono Sua Maestà Cesarea per il titolo di << città >> che egli si era compiaciuto di conferire a Randazzo. 
    Ciò sarebbe avvenuto, secondo la tradizione, presso quel bizzarro lago di Gurrida il quale esiste solamente una parte dell’anno: in estate si asciuga e diventa pascolo. 
    Per trovare un altro lago periodico dobbiamo recarci all’estrema frontiera orientale d’Italia, nella Venezia Giulia, oltre Postumia, ove il lago Circonio è periodico anch’esso: il grande lago – che sol per un piccolo lembo è in territorio italiano, e gran parete in Jugoslavia – d’estate è coltivato a grano, chè le acque sono scomparse, inghiottite da caverne e pozzi. 
    Ma l’episodio di Carlo V sulle periodiche sponde del laghetto di Gurrida è pura leggenda: una delle tantissime che fioriscono qui: sgorgano e si solidificano come i getti di lava i quali nereggiano, a larghe strisce paurose.
    Randazzo è la città più vicina al cratere dell’Etna: ne dista appena 15 chilometri. L’audacia di queste case medievali, ricamate di bifore e solide nelle mura massicce, non ha irritato il vulcano, il quale ha sempre risparmiato Randazzo, inerpicata a mezza costa da epoca remotissima.
    Era certamente già << città >> – con onori ed oneri – nell’epoca in cui sarebbe avvenuto l’episodio di Carlo V.
Negandolo, sicchè, non le si toglie nulla: anzi!

    Che Randazzo sia di origine assai antica è fuori dubbio: che tutto il vicinato sia regione ricchissima di cimeli attici, sicelioti, italioti, è documentato dalla mirabile collezione del Museo Vagliasindi: ma la bella fantasia linguistica si è sbizzarita nelle più stravaganti filiazioni per stabilire la paternità del nome di Randazzo. 
    E’ vero che la temerità etimologica non ha confini: e non si basa su una calunnia l’epigramma del cavalier Jacques de Cailly contro Gilles Mènage:

Alfana vient d’equus san doute:

                                                             mais il faut avouer aussi

                                                             qu’en venant de là jusqu’ici

                                                             il a bien changè sur la route!

    Se il pedante maestro di Madame de Sèvignè riusci a far discendere alfana da equus, non c’è da stupirsi che si sia voluto far derivare Randazzo del Tiracium di cui parla Plinio (III, 91).
    Tra questa e altre etimologie – elleniche, latine o bizantine, collegate a nomi geografici o personaggi – assai sensata ci sembra l’opinione popolare:
randazzu, in dialetto locale, non significa forse << grande, grandioso >>?
    Ebbene: Randazzo è randazzu.
La grandiosità, Randazzo la conserva ancor oggi, pur semidiruta com’è, mentre si avvia a risurrezione per un intelligente piano regolatore, una bella strada che abborderà l’Etna per congiungersi a quella che ascende da Catania.
    Saran messi in valore tutti quei gioielli d’arte che qui si incontrano ad ogni angolo: bifore, colonnine agili, rosoni, palazzi maestosi che han l’aspetto di maniero, portali ingenui di botteghe medievali.
    La Vòlta di S. Nicolò, o via degli Archi degli Uffizi, è – pur cosi com’è ora – un idillio storico-pittoresco: quattro archi allineati su la viuzza stretta, in pietra cupa allineata da ciuffi vegetali: a sommo di una bifora ad esile colonnina tòrtile, forma giocondo irsuto pennacchio pallido un’acrobatica agave in cerca di sole.    Randazzo è << la città del tre >>. Cosi può chiamarsi questa bizzara cittadina in cui, ancor oggi, prosperano tre cattedrali.

    Tutta la storia di Randazzo è, fondamentalmente, la storia della rivalità tra chiese: Santa Maria, S, Nicola, S. Martino.

    Aspetto austero, esternamente, conserva la trecentesca Santa Maria, dalla poderosa struttura in lava: una lapide nella sacrestia che la costruzione cominciò nel 1215:
    mille duecento decem quinque septena fluebant

    tempora post Genitum Sanctae deVirgine…

    Il resto della lapide è enigmatico o addirittura enigmistico e menziona, come artefice, un Leo Cumier del quale non si ha notizia.

    Probabilmente questo Leo Cumier non è mai esistito: fu un Leo non meglio identificabile, chè, invece Cumier, va letto culmine….

   Il Leo Culmier menzionato autorevolmente da alcuni storici sarebbe sicchè un personaggio simile al Re Tappella o ad Ernani Involami.

    All’altro estremo della città, presso il palazzo Ducale, è la chiesa di S. Martino, troppo rimaneggiata in varie epoche, ma che ha, salvo, un meraviglioso merlato campanile trecentesco in lava, con bifore e trifore che la lava e la pietra calcare pallida zèbrano graziosamente.
    Fra le due chiese, nel centro della città, è la << statua di Randazzo vecchia >>, bizzarra figura umana che la compagnia di un’aquila, un serpente e un leone rendono sibillina.
    Sono ancora tre curiosi simboli, in questa strana città ove domina il numero 3.
    Chi sa con quali argomenti reconditi, si vuole che la statua sia la veridica effigie del ciclope Pyracmon. Del resto anche Virgilio ci fornisce pochi connotati di lui: ci dice (Eneide, VIII, 425) che fosse nudus: e questo Pirammone è nudo. Il pudore delle autorità randazzesi gli ha donato una metallica foglia.
   Non ci fu modo, attraverso secoli, di conciliare con un compromesso qualsiasi le tre chiese, si che una sola- come ovunque altrove . fosse la cattedrale. Perciò anche oggi le cattedrali sono tre: ognuna per un triennio, a turno.
    E nessuna delle tre cede all’altra, nemmeno come primato artistico: ognuna possiede una ricca mazza pastorale, tre copie dello stesso lavoro. E cosi per i calici ed altri oggetti dei tre tesori.
   Poco più che un secolo fa, nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la chiesa di S. Nicola – che funzionava da cattedrale del triennio – celebrò solenne funerale: ma, dato il caso specialissimo, anche le altre due chiese vollero celebrare ciascuno il suo: e i funerali furono tre.
    Questa tripartizione, corrispondente a tre rioni, si connette con l’origine di Randazzo, città composta da tre diverse popolazioni che, siano al XVI secolo, parlavano ancora tre dialetti diversi. 

Oenochoe il mito dei Boreadi Museo Vagliasindi Randazzo

 Non c’è da stupirsi che avessero tre cattedrali, tre vescovi…
    Unica, però, è la bara, strano appellativo – che nulla ha di funebre – di un singolare altissimo trofeo recato in processione nella festa dell’Assunzione: l’armatura, di legno e ferro, alta 20 metri e rivestita di cartone variopinto, sorregge figure simboliche viventi: sono fanciulli vestiti da pretoriani, martiri o angeli, legati a un grosso tamburo rotante.
    I ragazzi – martiri tutti, anche se vestiti da pretoriani – dovrebbero soffrire di mal di mare, per il rotar del tamburo cui son legati: ma non c’è pericolo: per un paio di giorni sono stati tenuti prudentemente a digiuno.
   Se la Randazzo medievale lascia un ricordo indimenticabile, una visita al Museo Vagliasindi desta  una impressione non meno forte, diversa.
   L’archeologo, con occhi cùpidi, ammira quella ricca collezione di vasi, tra i quali la celebre oenochoe raffigura il mito dei Boreadi che liberano Fineo, re di Salmidesso, dalle Arpie.

 

Intatto e perfettamente conversato, nella vernice neppur screpolata, è questo recipiente con cui si attingeva il vino dal kratèr per versarlo nel bicchiere, ventiquattro secoli or sono. Nel mondo d’oggi non ne son rimasti che tre, raffiguranti questo mito finèide: ma la pittura della oenochoe Vagliasindi supera le altre per bellezza.
   Superano anche, in finezza di fattura i gioielli di qualunque museo di Europa quelli che son racchinosi nelle vetrine, qui, presso la finestra che si apre sulla valle dell’Alcàntara, la quale custodisce ancora chi sa quanti altri tesori
Il proprietario del Museo, (Vincenzo Vagliasindi figlio di Paolo ndr) podestà di Randazzo, ti mostra con legittimo orgoglio pithi e olpe, aryballi e trulle, helike e anelli: grossi recipienti di argilla, con coperchi a chiusura perfetta quanto quelli dei modernissimi thermos.
   Ma soprattutto ti commuovono i piccoli vasi che ornarono la tavola di toletta delle belle dame, più che duemilaquattrocento anni or sono. Insinuando le dita nell’ansa graziosa, questa ti sembra ancor tepida, per il calore della mano giovane e bella che la teneva.
    Le teorie einsteiniane affermano che il tempo è una nozione << relativa >>. Oltre Einstein lo dice, con più efficacia, anche la storia, quando la storia diventa bellezza e poesia.

   Pietro Silvio Rivetta in arte TODDI 

 

   Randazzo, febbraio 1934, XII.

   

 

 

 

 

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