Archivio mensile Settembre 2018

Enzo Crimi

 

Enzo Crimi, Graziano Calanna

Vincenzo CRIMI, già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana, è nato a Randazzo (CT) ed è entrato a far parte del Corpo Forestale nel 1981.

Dopo avere frequentato la Scuola del Corpo Forestale dello Stato e il relativo corso di formazione  professionale, presso le sedi di Cittaducale (RI) e di Sabaudia (LT), il 01.03.82 viene immesso in ruolo presso il Distaccamento Forestale di Zafferana Etnea. In seguito dirige i Comandi dei Distaccamenti   Forestali di Linguaglossa e Randazzo e dall’1.6.2004, assume il  Comando del Distaccamento di Bronte che, unitamente a quello di Cesarò (ME), detiene sino al 31 marzo 2016, quando viene collocato in quiescenza.
Oltre all’attività d’Istituto, nel corso della propria carriera Vincenzo Crimi, arricchisce le proprie conoscenze professionali organizzando e partecipando direttamente a convegni di studio in Italia, Austria, Germania, Francia e Svizzera, con personale appartenente al Corpo Forestale di quelle nazioni.
Nel 2004 è in Amazzonia, dove partecipa ad un progetto internazionale  sulla salvaguardia di un’etnìa indios.
Viene proposto dalla commissione europea per l’ambiente come componente a gruppo di lavoro per il monitoraggio delle piogge acide nella Foresta Nera, in Germania e l’avifauna migratoria.
Nel 2002 in Giappone viene nominato uomo dell’anno in materia di ambiente.

Frequenta corsi di aggiornamento professionale  organizzati dalla Direzione del Corpo Forestale, presso la scuola del Corpo Forestale dello Stato di Rieti e Antrodoco (RI). Collabora organicamente con varie Università italiane e straniere. Contribuisce con grande passione a promuovere il prodotto ambiente, attraverso il periodico dell’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana, “Sicilia Foreste”,  sul quale  pubblica  argomenti quali, prevenzione e repressione  degli incendi boschivi, sistemazione idraulica forestale.
Si occupa e scrive di problematiche relative ai  dissesti idrogeologici, tutela e legislazione forestale, interventi di protezione civile relativamente a problematiche vulcaniche e sismiche, descrizione e studio di ecosistemi locali e loro rapporti socio-economici con la popolazione locale. Nel 2013 e 2014, é’ chiamato dal proprio Ufficio Superiore  a organizzare e svolgere docenza per i volontari di Protezione Civile  della provincia di Catania, di un corso  di aggiornamento di primo impiego in tema di “avvistamento incendi boschivi e di interfaccia”.
Collabora attivamente, sia istituzionalmente che personalmente con gli Enti Parco dell’Etna, dei Nebrodi e del Parco Fluviale del fiume Alcantara, allo scopo di promuovere l’immagine e le finalità delle aree protette, cercando di armonizzare i bisogni dell’ambiente e la  fruizione delle popolazioni locali.
Ha collaborato con il periodico “Etna Uomo Ambiente” e con il settimanale “Il Sette” per i quali ha scritto articoli tecnico-professionali.

Pubblicati dal Dipartimento Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana, ha scritto i libri “Rahab: il bosco Ragabo di Linguaglossa” 1^ e 2^ volume,  – “Il territorio di Castiglione di Sicilia” e “Al Quàntarah”- la valle incantata”. I lavori, ricchi di argomentazioni tecnico-storiche di grande pregio, sono indirizzati verso i giovani delle scuole, affinché comincino a comprendere e a conoscere le realtà naturalistiche del territorio siciliano.  Pubblicato dall’Assessorato Regionale Agricoltura e Foreste – Corpo Forestale, ha scritto il volume “Tutela e Legislazione Forestale e Ambientale” prezioso contributo alla promozione della cultura ambientale attraverso la conoscenza di nozioni storiche e giuridiche armonizzate con la realtà legislativa del settore.Nel 2009 pubblica il volume “Flora, Fauna e aspetti naturalistici del territorio di Bronte”, rivolto agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado di Bronte. Il 2010 è l’anno in cui pubblica “Flora, Fauna e Aspetti Naturalistici del territorio del Gal Etna”, rivolto principalmente, alle scuole e agli appassionati dell’ambiente, in modo da conoscere e valorizzare le potenzialità naturalistiche facenti parte dei comuni di Adrano –Bronte – Ragalna – Biancavilla – Santa Maria di Licodia e Maletto. 

Il 2017 é l’anno del libro “Randazzo e il suo territorio: storia, arte, turismo, paesaggio e natura incontaminata” che vuole essere un intrigante viaggio attraverso il territorio naturalistico di Randazzo, passando per i tesori artistici e culturali che esso custodisce. Un modesto contributo alla promozione e valorizzazione del territorio di Randazzo, uno degli ambienti naturali siciliani, ancora oggi, per un certo verso e in certi luoghi, veramente integro.
 
Web site: www.etnalcantara.it E-Mail:  vincenzocrimi@libero.it Facebook: Enzo Crimi
 

INDICE

TEMPO DI ESCURSIONI: VISITATE IL LAGHETTO DI “COLAÙGGHIA-ZARBATE” DI RANDAZZO – LA PERLA DEI NEBRODI.

“LE LAVE DI SANTA VENERA” DI BRONTE – UNA SUGGESTIVA E VEROSIMILE STORIA CHE DEVE ESSERE SVELATA.

Produzione Letteraria

Enzo Crimi: la bellezza della Natura – otto articoli inediti.


 

 

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      ALLERTA MALTEMPO: ITALIA SOTTO ATTACCO: (di E. Crimi)

      Ancora una volta messo a dura prova il sistema idrogeologico del nostro paese, dopo le persistenti piogge di questi giorni, anche sottoforma di vere e proprie “bombe d’acqua”, il tragico fenomeno degli allagamenti alluvionali si è presentato in gran parte della penisola.
      In Liguria le mareggiate hanno schiantato decine di yacht nel porticciolo di Rapallo, in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino, una situazione definita apocalittica ha creato milioni di danni e in Sicilia ci sono stati persino morti. In tante altre regioni d’Italia: forti mareggiate, fiumi esondati, strade e ferrovie inondate e interrotte, città allagate e isolate, come al solito, questi eventi ci trovano impreparati e allora i danni diventano ingenti.
      Questa volta la Madre natura diventata “matrigna”, è stata ancora più dura e spietata a colpire e non ha purtroppo risparmiato alcuni luoghi magici delle Dolomiti dichiarati Patrimonio dell’umanità nel 2009, e tra questi l’altipiano di Asiago la Val Visdende, una delle ultime oasi naturalistiche preservate dal turismo di massa, una delle più belle valli del mondo.
      Cento anni dopo la Grande Guerra, i forti venti hanno investito e raso al suolo con tutta la loro potente forza, alcune centinaia di ettari di boschi, patrimonio arboreo ambientale ma anche culturale, in quanto definiti boschi della memoria e palcoscenico degli eventi bellici dell’ultima guerra e c’è chi accosta questi eventi con le crude immagini della grande guerra.
      Migliaia di alberi spazzati via dalla forza degli eventi naturali che hanno lasciato dietro di loro una desolazione indescrivibile, insomma, quello che è accaduto in questi giorni, avrà una ripercussione fisica sul territorio di almeno 100 anni ma rimarrà per sempre nella storia. L’ondata di maltempo mette l’Italia in ginocchio: strage di uomini in Sicilia dove si contano dodici vittime, tra cui due bambini, altre vittime nel Lazio, a Savona, in Veneto, a Bolzano e a Napoli, diversi feriti in varie città, danni ovunque incalcolabili.

       

      Analizzando con attenzione il verificarsi di tali fenomeni, ci rendiamo conto che non tutti sono la diretta conseguenza di eventi naturali riconducibili al caso. Infatti, é l’uomo che spesso agisce in modo indiscriminato sul territorio e crea squilibri, mentre dovrebbe sempre operare in forte sinergia con esso, nella consapevolezza che l’interesse dell’uno è subordinato alla salvaguardia dell’altro, come a sembrare un legame simbiotico. Affinché tali fenomeni diventino governabili, dovrebbe essere posto in opera, il principio fondamentale che sempre ha dato eccellenti risultati: la prevenzione.
      La mitigazione di questi eventi si ottiene attraverso la realizzazione di opere mirate che prevedano, in particolare lungo i pendii dei corsi d’acqua a monte, l’impianto di boschi i quali oltre ad evitare gravi forme di dissesto, svolgono altre funzioni di grande interesse: economico e ricreativo.
      Certamente, più il terreno ripariale è boscato, minore è il rischio di dissesto idrogeologico, che è l’insieme di quei fattori di dilavamento e sgretolamento, di frane, erosioni e trasporto a valle di materiale solido che, sommato al consumo indiscriminato legale o illegale del suolo, all’abbandono di forti concentrazioni di rifiuti e all’abusivismo edilizio lungo i corsi d’acqua che mai vengono manutenzionati, limita il deflusso idrico anzi a volte ne determina l’ostruzione, la deviazione, l’esondazione e l’allagamento di terreni e aree urbane.
      Pertanto, succede che l’acqua prodotta dalle forti piogge, a seconda della pendenza del suolo, non trovando idonea copertura arborea a monte e un’adeguata regimazione che ne possa regolare il normale deflusso, a causa della sua forza di impatto con il suolo, in particolare quando questo è argilloso, si infiltra, raggiunge lo strato impermeabile, impregna il terreno superficiale che, gonfio d’acqua si mette in movimento, scivola a valle causando consistenti fenomeni di dilavamento, erosione e infine ruscellamento fangoso, travolgendo qualsiasi cosa sul suo percorso, compresi aree agresti e urbane, persone e cose.
      Non mi fanno paura i torrenti in piena, sono le norme di comportamento che assume l’uomo nel suo rapporto con l’ambiente che a volte creano squilibri. Il problema della fragilità del nostro territorio e dell’esposizione al rischio di frane e alluvioni, non può certo considerarsi un fenomeno emergenziale, è oramai diventato una costante assoluta almeno per 6.633 comuni italiani, ovvero l’82% di tutto il paese che è definito a rischio idrogeologico.
      Ciò comporta ogni anno un bilancio economico pesantissimo, intollerabile quando, in particolar modo, è pagato con la vita. Bisogna mettere in sicurezza il nostro paese, ed è evidente l’assoluta necessità che i nostri legislatori riservino maggiori politiche e risorse al territorio, in termini di prevenzione, in un contesto in cui sono sempre più evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, che comportano fenomeni meteorologici estremi caratterizzati da piogge intense concentrate in periodi di tempo sempre più brevi e cicloni imprevedibili.
      Come ho scritto in altre occasioni, questa attenzione non sempre viene rivolta al territorio, perché non bisogna certo avere una mente eccelsa per comprendere che l’interesse del legislatore verso l’ambiente in generale, sembra oramai una foto sbiadita, un pensiero iconico che tende a scomparire definitivamente dalle tematiche politico-sociali che si discutono oggi, e allora, come in un gioco onirico, il nostro interesse nei confronti di questo grave problema, molte volte, si infrange sugli irti scogli della noncuranza che i “nostri” politici nutrono verso i beni naturalistici del creato. La configurabilità dell’ambiente come bene giuridico non può essere ignorata dall’uomo attraverso tagli continui alle risorse finanziarie. Eppure, il legislatore con la sua mente piccola, forse non ha ancora la piena coscienza della gravissima crisi ambientale che sta vivendo.
      Sono molteplici le grida di allarme che ci pervengono periodicamente dalla comunità scientifica, la terra è in pericolo, l’uomo è in pericolo, e questa nostra prosperosa civiltà dei consumi, sta gettando le basi per una folle e sconsiderata autodistruzione di un pianeta malato, stanco, oltraggiato da uno sfruttamento sconsiderato in cui ogni cosa, animata e inanimata, ha valore unicamente se e in quanto merce, prodotto da vendere.
      No… non mi fanno paura i torrenti in piena ma temo la deficienza di intelligenza naturalistica dei nostri politici e di chi percepisce l’ambiente solo come una sensazione poeticamente astratta, perché è difficile interagire con chi è privo di cultura dell’ambiente che faccia comprendere la vera importanza del nostro patrimonio naturale.

       

       

       

      IL SOLSTIZIO D’ESTATE DEL 21 GIUGNO: TRA LEGGENDA, STORIA, NATURA, SIMBOLOGIA E MAGIA (di E. Crimi)

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      Enzo Crimi nel sito di Stonehenge in Inghilterra.

      Il solstizio d’estate è l’inizio della stagione calda ed è sempre stato avvolto da una sfumatura di mistero, leggenda e magia, basti pensare ai misteriosi siti preistorici megalitici sull’altipiano dell’Agrimusco, in comune di Montalbano Elicona, in provincia di Messina e al simbolo fallico della fertilita’ in roccia megalitica arenaria, situato nel bassipiano di Orgale, nei pressi di Castiglione di Sicilia a pochi passi dalla sponda sinistra del fiume Alcantara.
      Da sempre sappiamo che i Megaliti all’interno di questi siti sparsi per il mondo, siano essi di origine naturale o artificiale, hanno rappresentato dei veri e propri misteri e la storia antica dell’uomo è ricca di fatti inspiegabili e non comuni.
      Il sito di Stonehenge in Inghilterra, verosimilmente luogo degli imponenti ruderi di un tempio druidico, è uno dei monumenti preistorici più famosi del mondo, che consiste in due cerchi concentrici di monoliti che raggiungono le 50 tonnellate, poste in posizione eretta; sormontate da massicce lastre orizzontali di roccia e ornate dalle più piccole pietre blu originari dal Galles occidentale.
      Le ipotesi riguardo questi straordinari “monumenti rupestri”, conosciuti anche con il nome di “Menhir o Sarsen“, sono diverse, come differenti sono le discordanze anche tra gli studiosi, molti di essi sostengono che si tratta di manufatti riconducibili a consuetudini religiose con riti primordiali collegati alla simbologia fallica propiziatoria della fertilità.
      Alcuni ricercatori li accostano a miti e fantastiche leggende di giganti che si dedicavano alla pastorizia, ma anche storie umane, arcaiche ma reali, dove la vita delle sue creature ha seguito il suo percorso di naturale straordinarietà pari solo a se stessa.
      Altri studiosi sostengono un significato con finalità archeo-astronomiche, in quanto orientati e collegati con i punti cardinali, ai quali riconoscere una funzione antesignana di osservazione degli astri, dei cicli delle stagioni, equinozi e solstizi, da sempre date mistiche e venerate dalle antiche civiltà sparse in tutto il mondo conosciuto.
      Pare che alcune combinazioni tra i macigni e il sole, permettessero, tra l’altro, di prevedere le maree e le eclissi di Luna e di Sole. I giorni solstiziali includono alcune fra le celebrazioni più popolari dell’Occidente e le antiche tradizioni mettevano in relazione questo periodo dell’anno con un gran numero di usanze e di piccoli rituali ancora oggi vivi in tutta Europa.
      Il solstizio estivo del 21 giugno, carico di mistero e spiritualità, è lo scenario ideale in cui poter collocare sogni e realtà, ed è forse per questo che resta uno dei periodi più amati e profondamente intessuti nella cultura popolare, che periodicamente viene messa in atto anche dai popoli moderni. Fuochi e danze intorno ai falò, astronomia, musiche, teatro, canti e poesie.

      Stonehenge


      Sembra che antichissimi popoli festeggiassero il solstizio d’estate tra il sacro e il profano e ancora oggi, esso, seppur offuscato di magia e mistero, viene celebrato in molte parti del mondo, ciò dovuto al fatto che l’uomo, forse deluso dalla realtà quotidiana, si affida alle cose inaspettate dell’arcano.
      Pertanto, sin dalla notte dei tempi un intrigante intreccio tra l’uomo arcaico e queste costruzioni che gli uomini del neolitico, credevano intrise di poteri soprannaturali.
      Oggi questi spazi sacri, impreziosiscono il panorama delle nostre terre, come gioielli abbandonati e incastonati nel paesaggio. Ma qual’è il loro reale segreto e da quali credenze erano animate le persone che li hanno costruiti, quali strani rituali si celebravano in questi siti e cos’è che ha portato l’antico popolo di queste terre a modificare la propria religione, ad abbandonare questi antichi templi e a venerare altre divinità “moderne”? Dunque, questi luoghi, ritenuti sacri per gli uomini arcaici, oggi fanno da sfondo a suggestive epopee della mente e nascondono i segni di un passato impregnato di grandi eventi da sembrare quasi di natura divina.
      Sappiamo ben poco, sia sul senso o funzione dell’esistenza di questi grandiosi blocchi arenari e ancor meno notizie abbiamo riguardo i loro creatori, che potrebbero essere stati ispirati da vocazioni mitologiche.
      Lasciando l’opinabile ai sognatori, nella realtà indiscutibile, queste formazioni rocciose sono particolari monumenti costituiti da grandi blocchi di roccia arenaria, grossolanamente squadrati dagli eventi del tempo o dall’uomo, piantate nel suolo la cui area di diffusione è molto ampia in tutto il mondo, a rappresentare le testimonianze più antiche dell’architettura preistorica.
      Queste maestose sculture, hanno sempre attratto l’interesse di ricercatori e la curiosità di semplici escursionisti, impegnati nella ricerca continua di testimonianze del passato, di natura antropologica e naturalistica, dalle quali potere risalire alle epoche di utilizzo, all’uso che si è fatto da parte dei vari frequentatori ed alle particolari condizioni ambientali di una determinata area.
      Insomma, da sempre questi megaliti hanno rappresentato un intrecciato motivo di studio storico ed anche geologico di maestosi scenari della storia, di suggestive reliquie, di antiche e maestose sculture cesellate nella dura roccia, dell’intrigante prodigio dell’erosione naturale, dell’azione modellante del vento e della natura geologica del terreno, frutto e testimonianza dell’opera di primitive platee di popolazioni preistoriche di cui si è persa ogni traccia, nel lento ed incessante scorrere del tempo.
      Dunque, chi non crede all’incomprensibile non può fare a meno di restare altresì stupito e meravigliato nell’ammirare queste straordinarie costruzione neolitiche, statiche nella loro maestosità, sin da quando memoria umana ricordi.
      Pertanto, nessun mistero ascetico ma solo tracce del passaggio in vita e frutto dell’opera manuale di popolazioni arcaiche, che oggi ci descrivono la spiritualità che solo una suggestiva e seducente opera architettonica può elargire ai suoi visitatori. Oltre ai loro manufatti, di queste genti, rimangono solo pochi resti di figure antropomorfe lavorate sulla pietra e cellette funerarie (gruttitti) che servivano per la sepoltura dei loro defunti.
      L’archeologia moderna potrà nel tempo rispondere ad alcuni dei quesiti fondamentali su questi siti e i loro rapporti con l’uomo

       

      Presentazione del libro: 

                          “Randazzo e il suo Territorio; Storia, Arte, Turismo, Paesaggio e Natura Incontaminata”.

       

            


           Alla presenza di numerose autorità locali e dei paesi limitrofi e con la grande adesione di pubblico, presso il Chiostro del Palazzo Comunale di Randazzo, si é svolta la presentazione del  libro di Vincenzo Crimi
           “Randazzo e il suo territorio: storia, arte, turismo, paesaggio e natura incontaminata”.

       

      Enzo Crimi – Randazzo

           Hanno partecipato alla manifestazione gli artisti Daniela Caggegi e Maurizio Salerno, che hanno rallegrato la serata con melodie musicali e interpretazioni canore.
          La realizzazione del volume, presentato magistralmente dal Dr. Carmelo Di Vincenzo, già comandante del Corpo Forestale di Messina e introdotto dal sindaco di Randazzo Prof. Michele Mangione, riprende un percorso oramai consolidato da 7 precedenti pubblicazioni in materia naturalistica scritti dall’autore, che aspirano ad essere un valido contributo alla piena valorizzazione e promozione del territorio naturalistico isolano.
           Il libro, descrive dettagliatamente il territorio naturale di Randazzo, dove la natura ha voluto manifestare tutta la sua straordinaria magnificenza e dove l’uomo si muove ancora oggi in punta di piedi, consapevole che la propria esistenza dipende in grandissima parte dalla tutela e salvaguardia di tutte le componenti naturalistiche, orografiche, vegetazionali, faunistiche, culturali e antropologiche che questa vasta area detiene e riesce ad esprimere.
           Inoltre, il libro traccia un percorso culturale, che  effettua delle brevi soste all’interno delle antiche mura della cittadina, per rendere omaggio sommariamente, ai preziosi beni artistici e architettonici ben presenti, che nella loro splendente staticità, attendono da secoli un loro riscatto, senza tuttavia,  perdere di vista che la tematica principale in discussione è esclusivamente di natura ambientale.
           Dunque, la conoscenza del territorio, come virtù fondamentale che agisce da stimolo nell’uomo, così da farne accrescere la cultura e quindi l’amore per la propria terra, condizione essenziale per pervenire alla salvaguardia e tutela del territorio stesso.
           Tutti i partecipanti alla manifestazione, hanno ricevuto in omaggio una copia del libro.

      Agosto 2017 

       

      Vincenzo Crimi

      L’Etna D.O.C., il prodotto di punta dei nuovi ed operosi produttori “esterni”  dell’agro randazzese, esprime e può imporre la propria identità qualitativa sui mercati  nazionali e internazionali e può contribuire in modo, certo modestamente, all’integrazione del reddito di parte della popolazione locale. Tutto ciò viene favorito per effetto di un crescente squilibrio tra domanda e offerta: infatti, pare che la domanda sia in forte crescita e comunque, superiore all’offerta, con picchi alquanto alti negli Stati emergenti dove, grazie ad un poderoso sviluppo economico, si sta moltiplicando la domanda di vino e altre materie agricole. Ma non tutto é luce, per essere competitivi sui mercati mondiali, non bisogna fermarsi solo sul vino come bevanda da bere. Bisogna accrescere la qualità e  fare emergere  davvero gli aspetti più belli e intriganti del vino, a partire dalla  componente emozionale, perché la bellezza del vino è in primo luogo estetica. E’  necessario raccontare  il romanticismo magico di questo nostro territorio etneo,  celebrato da poeti e viaggiatori del tempo, un territorio denso di bellezze artistiche, archeologiche  e naturalistiche e poi le vigne e il loro suggestivo paesaggio.

      Il vino è anche il linguaggio,  la cultura e la storia di un territorio,  è l’umile  gente che con appassionata dedizione  lavora le vigne e trasforma l’uva in vino, insomma, è un potentissimo ambasciatore di un territorio e quando viene  assaggiato, in qualsiasi parte del mondo, attraverso il suo sapore e il suo profumo,  esso  ci riporta sempre con la mente al suo luogo di produzione, è questo il fascino e la  potenza del vino. Insomma, fare ciò e recuperare il tempo perso,  in modo da    promuovere e approfondire la conoscenza sul vino e i suoi piaceri, in modo da    intercettare un pubblico molto vasto, al quale far capire che il vino è anche la ritualità e ricerca di  sapori e soprattutto odori che sono la componente più importante del vino, come si generano e si evolvono e come è possibile apprezzarli e goderne.
      Non è un caso che il vino è l’unico prodotto dell’agro-alimentare che prima di   essere portato alla bocca per sentirne il sapore, viene annusato per    percepirne il  respiro.
      Oltre alle abituali strategie di vendita, il mercato ha anche bisogno di essere entusiasmato attraverso  il piacere dello studio,  dell’approfondimento  e della lettura, in modo da superare lo scetticismo che a volte si distacca dalla chimica degli odori che marcano i nostri livelli olfattivi. 

      L’aumento della domanda, paradossalmente, pone delle problematiche di penuria e ricerca di terra coltivabile a D.O.C. appropriata alla produzione del vino, tanto da innescare una competizione tra imprenditori, per la sua acquisizione. Questo fenomeno pone inoltre degli interrogativi riguardo a potenziali mutazioni ambientali e sociali, a cui il territorio verrà sottoposto, in particolare a causa di un’eventuale massiccia meccanizzazione colturale.

      Con i buoni auspici delle Istituzioni, oltre al vino, occorre mettere in rete tutti i prodotti agro-caseari, attraverso la riqualificazione e la modernizzazione dei processi di trasformazione, conservazione e commercializzazione delle produzioni di nicchia come olio, vino e caseari, in modo da reagire all’isolamento produttivo.
      Per fare ciò occorre essere dotati di attitudine imprenditoriale, in grado di gestire le diverse fasi del processo produttivo agroalimentare e compartecipare a tutti i  vari passaggi, partendo dalla produzione e sino alla tavola dei consumatori. La globalizzazione ci fa capire che sarebbe
      opportuno  mettersi in discussione e avere il coraggio e la capacità di percepire i mutamenti, abbandonare   convinzioni e abitudini che non sono più adeguate ai tempi e all’ambiente in cui si  vive, in modo da attivare un mercato locale ed extra locale che sviluppi la filiera in prodotti lavorati finiti.

      Analizzando attentamente la tematica, appare doveroso fare una riflessione relativamente ad una singolare condizione di quasi assoluta assenza, dal panorama delle attività d’impresa randazzese, della figura di imprenditore agricolo puro.  Tutti i soggetti interessati, guardano all’agricoltura solo in forma hobbistica e nessuno dei potenziali agricoltori o piccoli proprietari terrieri è alla ricerca di attività evolutive e più progredite di coltivazione più o meno imprenditoriale. Infatti, una grossa fascia del bracciantato agricolo randazzese contemporaneo, preferisce    impiegarsi nell’attività agro-forestale, più sicura e rimunerata, rappresentata dalle giornate lavorative assicurate dall’Azienda Forestale Regionale, un’aliquota è alla ricerca del posto fisso, pochi altri soggetti costituiscono la manodopera giornaliera nel precariato agricolo locale e il resto è adibito ad altri lavori.

      Chi ha la vigna si limita in proprio ai soli ed essenziali lavori culturali, trattenendo il vino prodotto, oppure l’olio se trattasi di olive, solo per il fabbisogno familiare e la consegna dell’eccedente ad Aziende esterne di settore, nella maggior parte dei casi estranee al territorio e quindi al circuito economico locale, ma molto efficienti nel comprare il prodotto e addirittura anche i vigneti. Infatti, in un arco temporale che si può quantificare in qualche decennio,  una grossa percentuale di proprietari agricoli randazzesi, prima vendeva il vino come prodotto     finito, poi, in modo da ridurre il lavoro, vendeva il mosto e l’uva e infine ha venduto persino i vigneti. Oggi compra il vino dalle stesse aziende alle quali ha venduto i vigneti.

      Questo fenomeno sta riportando questo comprensorio ad un massiccio accorpamento territoriale e al ritorno ai grossi latifondi, una volta di proprietà dei baroni locali e adesso delle grosse aziende vinicole siciliane e del nord Italia, completamente estranee a questo territorio etneo, che certo assicurano un tantino di guadagno e occupazione a qualche maestranza lavorativa,  ma causano la perdita del presidio sul territorio e  delle memorie storiche agricole dei nostri avi che sono passati prima di noi su queste terre.

       

      [2] Le aree protette, sono aree geograficamente definite, individuate, istituite e gestite attraverso strumenti legali o altri mezzi riconosciuti per raggiungere obiettivi specifici di conservazione e mantenimento della biodiversità, delle  risorse naturali e di quelle culturali associate, attraverso norme legislative mirate  alla loro tutela e salvaguardia.
      Con tali provvedimenti legislativi, la Regione Siciliana, nell’ambito delle proprie competenze e nel perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile attraverso la tutela del territorio e delle risorse naturali, detta principi e norme per la formazione e la gestione del sistema regionale delle Aree protette e dei siti della Rete natura 2000 con le seguenti finalità:
           conservare, tutelare, ripristinare e incrementare gli ecosistemi, gli habitat, i paesaggi naturali e seminaturali;
           promuovere la padronanza e la fruizione conservativa dell’ambiente naturale, sia biotico che abiotico, e del paesaggio;
         conservare e valorizzare i luoghi, le identità storico-culturali delle popolazioni locali ed i loro prodotti tipici;
          incentivare e garantire un adeguato sviluppo economico sostenibile delle aree protette.
        
        
      ENZO CRIMI

       

        

       

       

       

       

       

       

       

       

       

       

       

       

       

L’Imperatore Carlo V

 

 «Sul mio impero non tramonta mai il sole»

Carlo V d’Asburgo nacque a Gand, nelle Fiandre, il 24 febbraio 1500, e morì a San Jerónimo de Yuste il 21 settembre 1558.
Carlo V discendeva da alcuni dei casati più illustri della nobiltà europea: infatti, era figlio di Filippo d’Asburgo, detto il Bello (p

L’Imperatore Carlo V d’Asburgo.

erciò nipote dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo) e di Giovanna detta la Pazza (figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia).

Nel 1516, dopo la morte di Ferdinando il Cattolico, Carlo (che, alla morte del padre, nel 1506, aveva già ereditato i Paesi Bassi), divenne re dell’ormai unificato Regno di Spagna, che, da un lato, con il possesso del regno di Napoli, della Sicilia, della Sardegna e delle Isole Baleari, già occupava una posizione centrale nel Mediterraneo; dall’altro, con le recenti conquiste sulle sponde del continente americano, si proiettava verso gli oceani, contendendo ai Portoghesi il dominio delle nuove terre.

Recatosi in Spagna, non riuscì, però, ad ottenere il consenso delle Cortes che, convocate, rivendicarono la loro autonomia, negandogli i crediti richiesti. Nel 1519, allorché morì Massimiliano d’Asburgo, si recò in Germania a porre la propria candidatura alla corona imperiale, lasciando come reggente in Castiglia Adriano di Utrecht. Subito divampò la rivolta, detta dei comuneros; Carlo, ritornato nel 1522, ristabilì l’ordine mostrandosi clemente verso i ribelli e limitandosi a giustiziare i capi principali, ma fu questo il primo segno delle contraddizioni fra interessi regionali e politica europea, che tormentarono tutto il suo regno

Intanto, nel 1519, nonostante l’opposizione del re di Francia Francesco I, Carlo, comprando gli elettori grazie al prestito di una forte somma di denaro concessagli dai banchieri tedeschi di Augusta Fugger e Welser, era riuscito a farsi incoronare imperatore ad Aquisgrana, con il nome di Carlo V: il suo potere si estendeva, ora, su un immenso territorio, che, oltre all’Impero, comprendeva i possedimenti borgognoni, i possedimenti dinastici degli Asburgo e la corona spagnola, con le colonie americane, per cui si poteva effettivamente dire che il suo era “un impero su cui non tramontava mai il sole” (secondo le sue stesse parole).

Francesco I, re di Francia, che aveva posto senza successo la propria candidatura, reagì all’accerchiamento territoriale in cui si era venuto a trovare da parte di Carlo V con la guerra. Nel 1521 scese in Italia, rivendicando il ducato di Milano, già conquistato da Luigi XII, e iniziando una lotta che, attraverso quattro fasi, terminò solo nel 1544, con il trattato di Crépy, con cui fu raggiunta la pace sulla base dello “status quo”.

Di fronte ai problemi sollevati dalla Riforma, la posizione di Carlo fu molto prudente per il timore di urtare i principi tedeschi. Alla dieta di Worms (1521), Lutero, che non aveva ritrattato, fu lasciato libero e di fatto non fu perseguitato nemmeno dopo il bando. Alla dieta di Spira (1526) fu sancita la liceità della confessione luterana sino alle decisioni del successivo concilio; e quando, a una seconda dieta di Spira (1529), Carlo, che si era riconciliato con il pontefice, tentò di risolvere la questione con la forza, le reazioni protestanti (lega di Smalcalda e protesta di Augusta, 1530) lo fecero tornare su una posizione conciliatrice.

Si faceva intanto sempre più grave il problema turco: nel 1534 Khair ad-Din, detto il Barbarossa, tolta Tunisi al re berbero Mulay Hasan, se ne serviva come base per le scorrerie dei suoi pirati. Carlo organizzò una spedizione a cui parteciparono tutti gli Stati europei, esclusa Venezia. Tunisi venne restituita a Mulay Hasan e i pirati subirono una dura sconfitta.

Antony Van Dick-Ritratto equestre dell’imperatore Caro V.

Nel 1545 si era aperto il Concilio di Trento e Carlo si era andato convincendo che era ormai possibile risolvere il problema protestante con la forza. Alleatosi con Maurizio di Sassonia, condusse una campagna sul Danubio, a cui Paolo III partecipò con uomini e mezzi e che si risolse con la vittoria di Muhlberg (1547), in cui fu distrutto l’esercito protestante e molti capi vennero fatti prigionieri.
Ma la situazione si capovolse rapidamente e Carlo fu costretto a firmare il trattato di Passavia (1552), con cui vennero liberati i principi protestanti prigionieri e fu ristabilita in Germania la libertà di culto. Una sua frase famosa era: “La ragione di stato non deve opporsi allo stato della ragione”.
Logorato nel fisico e nel morale, essendo ben consapevole di aver visto fallire il proprio disegno di monarchia universale cattolica, Carlo abdicò (1555-56), ritirandosi nel convento spagnolo di Yuste, dopo aver affidato la corona d’Austria al fratello Ferdinando I e la corona di Spagna con tutti i suoi domini al figlio Filippo II. Nel 1558 Ferdinando I assunse il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero .

Il 16 ottobre del 1535  Carlo V venne a Randazzo e si fermò per tre giorni nel Palazzo Reale prima di ripartire per Messina.
Su questa visita molto si è scritto, qui vediamo di seguito quello che il Cappuccino padre  Luigi Magro scrisse nel suo “Cenni Storici della Città di Randazzo” : 

Per poter aderire all’opinione dei nostri storici Concittadini che affermano che l’Imperatore si sia fermato tre giorni a Randazzo, sarebbe necessario dare una delucida­zione o fare una correzione: Carlo V° partì da Palermo il giorno 14 e giunse a Polizzi, il giorno 15 giunse a Troina, il giorno 16 giunse a Randazzo fermandosi il 17, 18 e 19; il 19 partì per Taormina  ed il 20 per Messina.

            In questa occasione, avendo trovato cadente per la vetustà l’antico Campanile di S. Nicolò, non approvando che fosse demolito un monumento così pregevole dell’arte antica, attesoché vantava l’epoca di sua costruzione probabilmente sin dall’anno 448, stimò piut­tosto farlo fortificare con grosse catene di ferro, a spese del suo Imperiale Erario, come fu eseguito. Sebbene poi, con pena universale bisognò demolirlo nel secolo XVIII° perché il terremoto dell’11 gennaio 1693 che atterò la Città di Catania, lo aveva reso pericolante.

            Dicono pure i nostri storici Concittadini, nei loro manoscritti che, quando l’Imperatore, dal punto della diruta Chiesa di S. Elia scoprì il nostro Paese, volgendosi ai circostanti, ab­bia detto queste parole: “Come si appella questa Città con tre Torri?” indicando i Campanili delle tre Chiese Parrocchiali; alla quale domanda il Magistrato rispose: “Semprecché la Pa­rola Reale di Vostra Cesarea Maestà non deve andare indietro, è questa la Città di Ran­dazzo dalla Vostra Maestà or ora onorata col Titolo di Città”. Al ché l’Imperatore soggiunse: resta accordato. ( A ricevere l’Imperatore è stato il Magistrato Civico (Sindaco di quei tempi) che si chiamava Francesco Lanza così come riportato nel libro rosso della chiesa di San Martino ndr ).

            Di questo Titolo si servì l’Imperatore nel primo Privilegio che poi emanò a Messina per confermare a Randazzo tutti i Privilegi antecedenti i quali erano stati confermati nel Parlamento Generale che dallo stesso Imperatore era stato tenuto in Palermo nel prece­dente mese di settembre (Reg. Lib. Magno foglio 48).

            Perciò Antonio Filoteo, nella celebre sua Topografia del Monte Etna, encomia la no­stra Città con queste parole: “Randatium nobile Oppidum et Caesaris beneficio Civitatem”.
Oltre a dare al nostro Paese il Titolo di Città sembra che l’Imperatore lusingato dell’accoglienza molto calorosa, affacciandosi da una finestra del Palazzo Reale rivolgendosi alla folla acclamante , abbia detto:” Estoes  todos  Caballeros ” ( Siate tutti Cavalieri ) dal che il sottotitolo di questo sito: ” tutticavalieritutti “.
(Analogamente recatosi a Genova disse ai nobili genovesi: “Vi nomino tutti Marchesi”).
 Da quel giorno da quella finestra non si è affacciato più nessuno .
A ricordo di questa memorabile visita qualche Randazzese malizioso gli dedicò una poesia: 

E Carlu Quintu ti ‘ncurunau regina
Quannu passava ‘nta lu to Rannazzu
Ti vossi ‘nta lu sonnu chiu vicina
Cu’ illu ti purtau ‘nta lu palazzu…… 

 

Del suo passaggio in città rimane traccia in un documento del  Libro rosso della chiesa di San Martino[1]:

«Die 18 octobris 1535: octave ind(ictioni)s
Sia noctu (et) manifesto ali posteri como nelo / supradicto tempo passao d(i) q(ui)sta chitati d(i) / Randatio la cesaria maiestà del imperaturi / n(ost)ro Carolo V° venendo cu(m) sum(m)a leticia (et) / triumpho havendo cu(m) la sua virtuti victori / d(i) Carthagini fedifraga (et) i(n) la ecclesia d(i) / Sancto Martino li fonti erano plini d(i) / aqua rossa (et) inanti li porti d(i)la predicta / ecclesia li foru facti certi arch(i) triu(m)phali / (et) tuti quisti cosi foru facti e(s)endo / aucturi et p(ro)curaturi lo venerabili / pres(bi)t(er)i Franchisco Purchello Valete»[2].

Il reverendo Giuseppe Plumari, parlando di tale evento, nel suo manoscritto Storia di Randazzo, riferisce che:

«Dai Manoscritti dè nostri Concittadini, si è venuto a capo di sapere, ch’Egli arrivò in questa nostra Patria nel Dì 18 ottobre di esso Anno 1535: Che la Porta della Città, pella quale entrò questo Augusto, nomata di S. Martino, fù apparata con più Archi trionfali; E che il Civico Magistrato, ch’era andato ad incontrarlo con tutta la Nobilità sino al Piano nomato Gurrita, arrivato, che fù al punto di dover entrare nella Città, gli presentò, dentro una Tazza di Argento, le Chiavi di tutte le Porte della Città.
Accompagnato indi dalla così detta Nobile Cavalcata, e dal Popolo giulivo, entrò in // Città, cavalcando sù di un bianco destriero, ed andò ad albergare nell’ampio Real Palazzo, in cui erano soliti abitare gli altri Sovrani antecessori.
Fin’oggi si osserva una Fenestra di esso Palazzo, che guarda la Tramontana, quale trovasi chiusa, e murata in venerazione di essersi dalla medesima affacciato il detto Imperatore. […]
Dimorò in Randazzo questo Augusto Monarca per lo spazio di altri tre Giorni, avendo ascoltata la S. Messa ogni mattina in ciascuna delle tre Chiese Parrocchiali, celebrata dall’Arciprete di quella Staggione; Ed in questa occasione, avendo trovato indebolito dalla Vetustà l’antico Campanile della Parrocchia di S: Nicolò, quale sembrogli, che minacciava rovina, non approvando Ei, che si demolisse un monumento così pregevole dell’antichità, atteso che vantava l’Epoca di sua costruzione sin dall’Anno 448 […], stimò piuttosto di farlo fortificare con grosse Catene di ferro a spese dell’Eratio suo Imperiale; come fù eseguito».

 

Ed aggiunge:

«Dicono pure i nostri Storici né loro Manoscritti, che allo scoprir, che fece esso Imperatore dal punto della // diruta Chiesa di Sto Elia, questa nostra Patria, disse à circostanti le seguenti parole: Come si appella questa Città con tre Torri? Indicando i Campanili delle tre Chiese Parrocchiali; a cui risposero così: Semprecchè la Parola Reale di V. Cesarea Maestà non deve andare indietro, è questa la Città di Randazzo, dalla Maestà Vostra, or ora onorata del Titolo di Città, al chè l’Imperatore soggiunse: Resta accordato»[3].

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Figura 4: La città di Randazzo vista da dove un tempo sorgeva la chiesa di Sant’Elia

Di questa breve ma memorabile visita rimangono anche alcune leggende, ancora vive nella memoria popolare locale.
Una leggenda racconta che l’imperatore Carlo V, compiaciuto per l’accoglienza e le ovazioni del popolo randazzese, mentre era affacciato ad una finestra del Palazzo Reale, pronunciò la leggendaria frase: “Todos caballeros” (Siate tutti cavalieri), che fu intrepretata dal popolo come elevazione dei randazzesi al rango di cavalieri. La stessa finestra, sembra sia stata protagonista muta di un altro evento leggendario. La tradizione narra, infatti, che l’Imperatore mentre era affacciato a quella finestra, scorse una giovane e bella fanciulla bionda, appartenente ad una famiglia nobile randazzese di origini normanne, della quale si infatuò perdutamente e, pare, che dalla loro unione nacque un figlio/a illeggittimo/a.

FrancescoRubbino

 


 

 

 


 

Olga Foti

Olga Foti

Nasce a Randazzo nel 1936 e fa in tempo a vedere un “prima” e un ”dopo” della guerra anche per i costumi, la mentalità.
E “il vecchio”, e quel che di “nuovo” malgrado tutto le guerre portano, si trova nella prima parte della raccolta Racconti sparsi nel tempo ed. Robin. 

Appena maggiorenne lascia il paese e va da sola a Parigi per imparare il francese e lì lavora au pair presso la famiglia dello scrittore François Billetdoux.
Una cosa da pionieri, per qualcuno, invece  quasi uno scandalo per la maggior parte dei randazzesi  perché per le donne valeva ancora il detto:

Facci chi non cumpari cent’unzi vari

facci chi cumpari sira e mattina non vari

mancu na busa ri gallina

In seguito ripete l’esperienza in Germania e poi lascia definitivamente Randazzo per Milano dove vive tutt’ora ma ogni anno ritorna in vacanza nel paese che le stava stretto.
Il paese natio bisogna abbandonarlo per ritornarci con amore anche solo col pensiero.
A Milano ha insegnato per molti anni, ha viaggiato soprattutto attraverso l’Asia e l’Africa occidentale.
Come viaggiatrice, non come turista. Adesso si occupa di letteratura.

 

Uno dei tanti incontri per la presentazione della Sua ultima fatica.

 


 

 
Un bellissimo racconto di  Olga Foti

L’AMANTE                                    

 L’Amante aveva le unghie laccate di rosso.

Anche un brillante, grosso come una nocciola, e avrebbe voluto darlo a mia madre se le avesse assicurato il pane – solo il pane – aveva precisato, per il tempo che restavamo sfollati. Eravamo sull’Etna, la Montagna, c’era la guerra.
L’Amante era arrivata dalla città con un uomo che si chiamava anche lui l’Amante, gli adulti dicevano che le aveva dato un mucchio di soldi ed era tornato in tutta fretta dalla moglie.
Strano che un uomo avesse il nome da femmina o forse era L’Amante con le unghie laccate che aveva un nome da maschio. Certo è che con il brillante e tutti quei soldi faceva la fame. Le piccole mele selvatiche che cercava di raccogliere sugli alberi stenti erano davvero troppo acerbe, troppo dure, immangiabili, e mia madre non poteva assicurarle il pane, né per carità cristiana né per amore del brillante. Ho due bambine, le aveva detto, e non sappiamo quanto tempo si deve restare qua.
C’era la guerra. Quella di Elio Vittorini era stata una bella guerra, la mia, bellissima, una straordinaria meravigliosa vacanza.
Non avevamo acqua, quella del pozzo doveva servire per bere e cucinare, non ce n’era per lavarsi e  quindi non ci lavavamo. Si dormiva nella paglia, vestiti, e appena svegli, di corsa nei prati senza la solita perdita di tempo, compresa quella della colazione al tavolo di cucina. Qui non c’era né tavolo né cucina, solo un enorme fienile, un’aia, un pozzo e una distesa senza fine di terreni brulli e boscaglia. Tornavamo stanchi e affamati e per noi c’era pane e latte di capra e poi, nella giornata senza orari, formaggio, minestra di lenticchie o di fagioli, anche cosce di pollo.
Con i bambini, avevano detto gli adulti, non ci possiamo permettere di perdere la testa, e prima di andar via, sotto la pioggia colorata dei volantini americani che invitavano a lasciare il paese,  avevano caricato le mule con sacchi di farina, legumi secchi, polli e conigli nelle gabbie. Quindi il cibo non ci mancava.
L’Amante, invece, prima aveva cercato di comprarlo, il cibo, con quel mucchio di carta che poteva servire solo ad accendere il fuoco e con il brillante grosso come una nocciola, poi si era rassegnata e se non fosse stato per il buon cuore delle donne che di nascosto dei mariti le davano qualcosa, sarebbe davvero morta di fame.
Noi bambini sempre in giro a far la guerra. Io ero il generale, tutti gli altri ufficiali, e non fu mai possibile trovare un soldato. Esploravamo il territorio in cerca di nidi vuoti, piante sconosciute, fiumi o  ruscelli. Non per l’acqua ma per i ranocchi. Per questo avevo bocciato la proposta di un ufficiale di raggiungere il mare: lì i ranocchi non si trovavano.
Spesso incontravamo l’Amante che raccoglieva qualche pannocchia inselvatichita di granturco, mezza marcia, apprezzata solo dagli uccelli, e in uno di quegli incontri, educatamente, (ce lo ripetevano sempre: prima si saluta, e se si chiede qualcosa si dice “per piacere”) quindi io, dopo averla salutata, le chiesi:
Per piacere, perché hai un nome da maschio?
Da maschio…? Io mi chiamo Marinella, non è un nome da maschio.
Non ti chiami l’Amante?
Mi guardò, prima stupita, poi rise fino alle lacrime e mi fece una carezza con quella mano bianca con le unghie rosse.
Quindi il suo nome non era l’Amante. Mi sembrò giusto informare gli adulti.
Cosa c’era da ridere?  E invece anche loro risero fino alle lacrime.
Hai sentito?, si ripetevano, Marinella si chiama, non l’Amante, e continuavano a ridere. Ma una donna arrivata per ultima col padre e le zie e che dormiva in un angolo del fienile, mi regalò un uovo piccolino, il primo della sua pollastrella, disse. Proprio me lo meritavo.
Solitamente con gli adulti ci stavamo poco, solo un mattino siamo rimasti con loro perché quello che chiamavamo zio Peppino, anche se non era lo zio di nessuno, aveva cercato di rubare un secchio d’acqua.
Non era nemmeno mezzo secchio, protestava lui debolmente, smarrito, maldestro, volevo lavarmi. Puzzo!
E quelle parole caddero pesanti come sassi davanti il grande pozzo. Ci fu un momento di silenzio,  lungo più dell’eternità, poi un uomo disse: mi dispiace, zio Peppino, con l’acqua dobbiamo bere e dar da bere agli animali e gli voltò le spalle per entrare nel fienile. Ritornò con un grosso catenaccio mezzo arrugginito e da quel giorno il pozzo rimase chiuso. Si apriva solo al mattino per il rito della distribuzione dell’acqua, e allora si vedeva l’Amante, in fila assieme agli altri, con in mano il pentolino che le aveva regalato mia madre.
A volte veniva a trovarci il baronello, sfollato con la famiglia in una sua proprietà non lontana, e portava anche notizie del paese. Parlava e poi chiedeva un bicchiere d’acqua che a volte diventavano due e anche tre.
Nella loro grande tenuta con casa e palmento il pozzo era quasi vuoto. Ma la cosa che suscitò l’indignazione di molti fu il fatto che il baronello un giorno si versò un po’ d’acqua sul palmo della mano per lasciarla leccare al cane. Cose da pazzi, anche al suo cane dovevamo dar da bere!
Io segretamente parteggiavo per il baronello e quel povero cane morto di sete ma allora i bambini non avevano il diritto di esprimere la propria opinione.
Non potevamo permetterci di scialacquare l’acqua, decretarono molti adulti, e appena vedevano arrivare il baronello gli uomini se la squagliavano. Lui era troppo educato e non si sarebbe permesso di restare con le donne se gli uomini di famiglia non erano presenti. Ma una volta, il signore del lucchetto al pozzo, non fece in tempo ad andar via e si trovò il baronello proprio di fronte. Un momento di silenzio, di imbarazzo, e poi: Abbia pazienza barone, noi qui non abbiamo acqua da sprecare.
Il baronello non si vide più.
Tutti erano certi che gli Americani avrebbero distrutto il paese perché: non avevamo il mare, né un porto, e nemmeno fabbriche d’armi, ma c’era il ponte che collegava la provincia di Catania a quella di Messina, e per quel ponte quante bombe avrebbero buttato?
E in quelle parole anche noi bambini potevamo intravedere della guerra un volto fino a quel momento sconosciuto, quello di Guernica che non conoscevo ancora, ma che apparve, inconfondibile, quando il paese bruciò. Illuminato a giorno nel buio della notte, fiamme che si levavano verso il cielo, altissime, e noi in quell’aia davanti il fienile, adulti e bambini, un mucchio di teste con lo sguardo verso il paese lontano.
Il nostro paese. Sapevamo dov’era, oltre il bosco di castagni, ma in basso, molto più in basso, sotto la Valle del Bove, e si capiva come le bombe incendiarie si stavano accanendo su quel che restava ancora delle case. Tacevamo e il silenzio era peggio di tutti i pianti, di tutte le grida.
Ma non avrei potuto immaginare che al ritorno, quella distruzione sarebbe stata ai miei occhi la cosa più  affascinante vista in vita mia. Mucchi di macerie come colline, montagne di calcinacci che si dovevano scalare per poter entrare – dai balconi e dalle finestre – in quel che era rimasto delle case. Persino sul terrazzo della signora Carmeni dove c’era ancora il bellissimo glicine ormai sfiorito potevo arrivarci direttamente dalla strada senza chiedere permessi a nessuno. E potevamo entrare nelle case di persone che conoscevamo ma che non erano parenti né amici, nelle loro cucine senza tetto dove nelle crepe dei muri crescevano violacciocche o qualche uccello aveva fatto il nido.
Ma la scoperta straordinaria, l’esplorazione che dava i brividi, soprattutto all’imbrunire, era quella delle chiese. In piedi ne erano rimaste ben poche (il nostro era il paese delle chiese) e quelle crollate avevano fatto venir fuori crani e scheletri. Scheletri di preti, pensavamo, forse di vescovi. Anche di Papi, era possibile?
Restavamo nel dubbio, agli adulti non si poteva chiedere, lo capivamo da soli, va bene la guerra e quella straordinaria libertà, va bene tutto, ma andare a scovare gli scheletri nelle chiese era troppo davvero.
Un giorno, però, mentre esploravamo il convento mezzo distrutto delle monache, davanti a un teschio che doveva essere per forza di donna visto che là c’erano state sempre monache, quello che era stato un mio ufficiale disse all’improvviso: E l’Amante, forse è morta ed è diventata così?
Nessuno di noi l’aveva più nominata, forse l’avevamo dimenticata, ma lui, che s’incantava quando l’incontravamo nella boscaglia, che non osava salutarla ma non le levava gli occhi di dosso fino a quando lei non si vedeva più, davanti a quei teschi aveva detto: E l’Amante, forse è morta ed è diventata cosi?
Nessuna risposta ma qualcosa che assomigliava alla paura circolò fra di noi anche se non era l’imbrunire, anche se il sole splendeva come gli altri giorni.
Gli adulti parlavano soprattutto dei furti subiti, anche le radio erano state rubate eppure erano grandi come mobili, rubate da gente del paese, certo, che le teneva ben nascoste. A nessuno piaceva passare per ladro. C’era già stato il caso di donna Anna, la lavandaia, con i carabinieri che le avevano fatto “il sopraluogo”.
La figlia di donna Anna, una ragazzina di tredici anni, si vantava con le amiche :
“Quando mi sposo mia mamma mi dà il corredo a dodici.”
“Come sarebbe a dire?”
“Vuol dire: dodici lenzuoli, dodici tovaglie da tavola, dodici coperte.”
Donna Anna, povera che più povera non si può? O erano vanterie senza capo né coda oppure…
Quando la vecchietta andò dalla baronessa madre a riferire quel che aveva sentito con le sue orecchie: così, così, e così, la baronessa non voleva crederci, scemenze di ragazzina, e poi donna Anna era la sua lavandaia da sempre, quasi una di famiglia, la baronessa in inverno diceva alle serve di riscaldarle l’acqua. Certo, anche perché con l’acqua calda la biancheria viene meglio.
I carabinieri comunque glieli mandò ma era sicura che non avrebbero trovato niente.
Invece trovarono, altro che se trovarono! Dodici paia di lenzuoli, dodici tovaglie… Il corredo della baronessina ricamato dalle suore del convento di clausura.
Comunque da noi la guerra era finita, gli Americani erano sbarcati in santa pace, si erano messi d’accordo con i “Don”, quelli potenti, i capi dei capi, dicevano gli adulti, e la contraerea non aveva sparato un colpo, i soldati si erano subito arresi, le armi consegnate col sorriso sulle labbra.
In Continente però non era così e c’erano i Partigiani, non era chiaro chi fossero, non se ne sapeva molto, i giornali non arrivavano e le radio erano state rubate.
Noi bambini correvamo ancora da una parte all’altra del paese con pentole e padelle che gli adulti chiedevano o davano in prestito perché quelle in rame erano sparite, altre erano sfondate, e la maggior parte dei tegami in coccio erano ridotti in mille pezzi.
Il sapone si faceva sempre in casa con la cenere e il grasso di pecora, bambine giocavano ancora sulle macerie con vestitini di broccato ricavati da pezzi di tende rimaste miracolosamente intatte o con vestiti ricavati da pezzi di lenzuoli non ancora completamente lisi, ma la nostra bellissima guerra era finita.
Infatti, anche se dai soffitti delle aule cadevano sulle nostre teste i calcinacci, si erano riaperte le scuole.
E l’Amante?
Uno di noi aveva chiesto una volta a un gruppo di adulti che si raccontavano di quando eravamo sfollati, ma la risposta infastidita era stata: Che amante?
Non gradivano interventi nei loro discorsi, sciò, sciò, ci dicevano come si faceva con le galline per allontanarle e noi non ci pensammo più.
Poi cominciarono a tornare gli uomini che avevano fatto la guerra. Per primi due avanzi di galera partiti volontari, poi uno che aveva ucciso la moglie buttandola giù per le scale  “E’ caduta…” ma lui andava a combattere e non si poteva indagare.
Del resto molte donne cadevano dalle scale e restavano sciancate o segnate per tutta la vita, erano deboli di gambe o di testa, soggette a capogiri.
Poi stranamente il fenomeno cessò per riprendere quando gli uomini tornarono dalla guerra.

 

L’impegno contro il femminicidio :

LA  BARONESSA  DI  CARINI

 

     In Italia l’abrogazione del delitto d’onore è solo del 1981: 5 agosto 1981.
La mala accoppiata delitto-onore ha resistito per secoli, e mariti-fratelli-padri padroni hanno potuto ammazzare sicuri della quasi completa impunità.
Un passato che non passa, e i maschi di famiglia si arrogano ancora il diritto di decidere come devono vivere le “loro” donne e di punirle. Una globale sottocultura che si perpetua e aggiunge ai delitti di ieri quelli di oggi: la ragazza pachistana uccisa dal padre, la donna di Messina accoltellata dal fratello, mogli ed ex-mogli, fidanzate ed ex fidanzate ammazzate quasi giornalmente.
Certo, tanti parrucconi della Corte di Cassazione, questa sottocultura l’hanno ben alimentata affermando, in barba alla Costituzione che sancisce la parità fra i sessi, che l’adulterio della moglie è ben più grave di quello del marito (1961), che “le botte maritali” non raffigurano maltrattamenti” (1996), per non parlare della jus corrigendi che regna fino all’approvazione del Nuovo diritto di famiglia (1975).

Questi assurdi parrucconi ancora oggi assolvono stupratori in nome della verginità o dei jeans. Ma, per fortuna, tutto il mondo ride di loro.

Era affacciata ‘inta lu so balcuni
E vidi arrivari a cavalleria:
“Chistu è me patri chi vieni pi mia.”

 

La vecchia strada a zig-zag tutta in ombra e i pipistrelli che piombavano dall’alto, oscillando, sembravano una premonizione.

Davanti al castello l’uomo scese da cavallo con un salto, toccò terra davanti alla grande porta di quercia rinforzata con lamine di ferro, cominciò a camminare lentamente, a passi pesanti. Serrava e disserrava i pugni percotendoli l’uno contro l’altro, e a tratti guardava verso il balcone ora vuoto. La luce del tramonto metteva in risalto la sfera del suo viso e i neri mustacchi che accentuavano la piega della bocca contratta dalla collera. Restò qualche istante fermo, immobile come un giustiziere, poi fece un segno d’intesa ai suoi soldati e entrò da solo nel castello.

La baronessa gli venne incontro:

“Signuri patri chi vinisti a fari?”
“Signura figghia, vi vinni ammazzari”
 

Con un’aria quasi cortese il padre le annunciava la decisione di ucciderla.
Cinque anni prima le aveva annunciato allo stesso modo la sua volontà di maritarla.
“Balia, hai saputo, mi vogliono maritare.” 
“Tutti si maritano, figlia, e tu hai già quattordici anni. Non puoi più venire a raccogliere babalucci con me nei campi.
Gli uccelli di Gesù becchettavano nel prato non più impregnato d’acqua e non ancora duro e secco come in agosto, la balia prese il bracciale che la ragazza le porgeva, lo tenne nel palmo della mano, lo soppesò, lo rigirò  come fosse un pesce prelibato che non aveva ancora deciso come cucinare.
“E’ di gran valore questo bracciale, almeno due onze, un gioiello degno della futura baronessa di Carini.”
“Sì balia, ma lui, il mio futuro marito, a te come sembra?”
“Gli uomini sono tutti uguali, figlia, quasi tutti, puzzano di stalla e di cavalli e nelle vene hanno per metà sangue, per metà vino.”
Tutti uguali. E pensò al padre e al fratello del padre, il signor zio, e al marchese cugino che abitava a Palermo. Avevano uno sguardo così deciso che quando parlavano nessuno si permetteva di verificare se dicevano cose sensate o no.
La moglie del signor zio era morta in circostanze sospette, schiacciata sotto una trave. Lei l’aveva sempre vista  paziente, esangue, e anche da morta sembrava chiedere scusa per il disturbo.
Con il bracciale in mano la balia guardava l’albero di carrubo pieno di carrube e di uccelli che cantavano, un canto bellicoso a minaccia degli invasori della privata proprietà.
Anche lei, la balia, sapeva di carrube ed era grande e serena, dava sicurezza…
Balia, avrebbe voluto dirle, non voglio sposarmi, andiamo via, io e te, andiamo a Licunisi.
Invece disse: “Balia, ricordi quando siamo stati a Licunisi? Io giravo con un vecchio cappello da mietitore sulla testa, e tu ti toglievi le scarpe per non sciuparle sui sassi, le legavi e te le appendevi alla cintura.
Cercavamo babalucci.  Niesci niesci babalucci, chi l’acquata listiu e lu suli riluci.
L’aveva davanti agli occhi quei campi con alberi in piena fioritura malgrado dai rami pendessero ancora baccelli dell’anno prima, e la casa della balia. La stalla era crollata e  nello spazio vuoto crescevano papaveri rossi e ortiche gigantesche.

“Abbiamo anche ballato una sera…”
Si festeggiava non sapeva più cosa, ma ricordava le sottane della balia che roteavano sull’aia liscia e dura come fosse di marmo.
“Com’era bello quel posto, balia!”
C’era nata e si era maritata in quel posto maledetto, casupole e carrubi, vespe e capre, gli uomini nei campi con la zappa, le donne al fiume a lavare, tutti con il loro diavolo.
E le estati senza un filo d’acqua nei torrenti, non un’ombra per miglia e miglia, la terra spaccata dal sole, le vespe, le mosche, il pane che non bastava mai e il bastone.

Ma l’aveva preso lei quel giorno il bastone e al primo colpo gli aveva spezzato il naso, al bastardo, doveva sopportarsi le corna, la fame e le botte, secondo lui.
Il marito era rimasto imbesuito, col naso che penzolava, senza muoversi, senza nemmeno gridare, e lei si era messa a cantare mentre faceva un fagotto dei suoi pochi stracci.
 “Balia, oh balia, cosa fai, canti?” 
Aveva alzato gli occhi mostrando di non sapere che stava cantando e si era diretta verso la grande cucina con le Madonne e i Sacri cuori di Gesù alle pareti.
Doveva raccomandare loro la bambina che andava sposa.

“Signuri patri chi vinisti a fari?”
“Signura figghia, vi vinni ammazzari.”

Sentì come un pugno alla bocca dello stomaco e cominciò a correre sulle assi di legno del corridoio quasi buio, malgrado il vestito lungo l’impacciasse, le cordelle del busto la stringessero. Il corridoio sembrava interminabile, la porta della foresteria così lontana, mentre l’uomo era sempre più vicino, più vicino, con il suo puzzo di stalla e di sudore.
Stridi di uccelli notturni trafissero l’aria all’improvviso, affondarono nel crepuscolo, lo lacerarono, e il fiato dell’inseguitore le fu sul collo, le  mani quasi l’afferrarono.
Terrorizzata urlò.
 l’uomo inciampò, perse l’equilibrio, gridò a sua volta, di collera e di scorno.
La baronessa continuò a correre, raggiunse la foresteria, spinse la porta, la richiuse facendola sbattere con forza alle sue spalle.
“Carinisi, gente di Carini…!”
Affacciata alla finestra chiedeva aiuto, e altre finestre si aprirono, porte di casupole, la gente venne fuori armata di bastoni ma davanti al castello trovò i soldati con le spade.
“Gente di Carini, aiutatemi…”
Il rumore della porta che cedeva, lo schianto, un grido acuto subito strozzato.

Lu primu colpu la donna cariu
l’appressu colpu la donna muriu

E poi più niente. L’uomo uscì dalla stanza, ripercorse il corridoio buio, attraversò un piccolo cortile dove i resti di un’armatura sanguinavano ruggine in una pozzanghera.

Ciumi, muntagni, arburi, cianciti
Pi la bella barunissa chi pirditi
Chianci Palermu, chianci Siracusa
A Carini c’è lu luttu in
ogni casa

Seduti davanti il porticciolo i pescatori cantavano per i villeggianti come avevano sentito fare ai cantastorie.
“Una notte” disse il più vecchio “c’era  la luna, luna piena, e  ho visto la baronessa passeggiare sulla spiaggia. Era uscita dall’acqua e aveva i vestiti asciutti, e anche un ombrellino, il parasole.”
Il Vecchio amava raccontare ma amava anche la bottiglia, si sapeva, e a quell’ora doveva averne scolate più di una. Tutti sapevano però che la storia della baronessa era una storia vera, esistevano ancora i documenti, e il castello, a pochi chilometri, nel borgo di Carini.
Là era stata uccisa Laura Lanza, il 5 dicembre del 1563.
E in dicembre, nel bosco di Carini, mentre il vento soffia si sente ancora il lamento della baronessa perché il suo assassinio non era mai stato punito.
Delitto d’onore, aveva spiegato il padre in tribunale, la figlia tradiva il marito.
 I pescatori ora tacevano. C’era la luna, luna piena, e non sembrava impossibile che la baronessa potesse uscire dal mare e passeggiare sulla spiaggia.
Anche i villeggianti tacevano, qualcuno pensava alla madre della baronessa costretta a vivere accanto all’assassino di sua figlia.
Di lei nessuno aveva mai parlato, nemmeno i cantastorie.

  Olga Foti

                              

 

 Un articolo a favore delle persone anziane

Gentili lettori, qualche tempo fa una milanese di spirito ci informò di essere stanca di essere definita «nonnina » quando veniva derubata o «anziana pensionata» se veniva investita. Sono una signora, mandò a dire, o più semplicemente una cittadina.  Punto. 
Ci iscriviamo al club dei signori e delle signore che non accettano a cuor leggero di aggiungere alla loro persona il titolo di anziano o vecchio, con associato risolino di compatimento: è un’offesa gratuita e un po’ volgare.
Una caduta di stile che, se viene da una carica istituzionale, non passa inosservata.
Così è stato per il sindaco Albertini, quando ha detto di Ombretta Colli che è solo «un’anziana signora», riprendendo il giudizio su di lei dato da un ex presidente della Milano Serravalle: poteva evitarlo, e magari essere anche più cattivo, senza scivolare nella gaffe.
Perché in quell’ «anziana signora», come i lettori hanno segnalato, c’è una sentenza inappellabile che si legge in sottinteso: vuol dire «finita », «passata», «bollita», cosa che può essere anche giusta se attribuita a una campionessa dello sport, a una maratoneta, una tennista, una nuotatrice che misura i suoi riflessi in base all’età, ma che mal si addice a un ex assessore, europarlamentare e presidente di Provincia che torna in pista con una lista per Milano. 

L’ironia fa bene alla politica ma quando diventa greve o volgare infastidisce.
Se il sindaco vede così Ombretta Colli (64 anni), sarebbe curioso sapere che cosa pensa di Diana Bracco (60) e Inge Feltrinelli (76): nessuna di loro ci appare un’anziana signora, tutte hanno voglia di fare, di appassionarsi, di credere in un’impresa. E sono anziani signori Umberto Veronesi, 80 anni, Giorgio Armani, 69, Fedele Confalonieri, 68? 

In un Paese governato da un premier di 69 anni, sfidato da un leader politico di 66, l’età è una variabile indipendente. Contano l’entusiasmo, il carisma, la capacità di trasmettere esperienza, saper guidare i giovani con l’esempio e la parola. 
Mandi un mazzo di rose a Ombretta Colli per ritrovare la gentilezza smarrita, sindaco Albertini. E consideri le donne, in politica e altrove, signore a prescindere. I cittadini, anziani e no, apprezzeranno. 
Il resto, lasciamolo a «Scherzi a parte»

Olga Foti

 LA BADESSA

                                                                    

Nel mese di maggio suor Veronica fu trovata morta dentro il pozzo del convento.

Si era buttata? Era stata buttata?

Che fosse caduta accidentalmente nemmeno un bambino all’ultimo anno d’asilo l’avrebbe creduto.

Un pozzo di pietra come quello dei conventi di una volta, alto più di un metro e mezzo, il coperchio di ferro leggero, la carrucola con la lunga catena, e, appeso, il secchio zincato. Si calava lentamente o con un colpo deciso, e poi, pieno e gocciolante, veniva tirato su con la carrucola.

Impossibile cadere dentro il pozzo se non spinta a forza.

Su questo, in paese, tutti d’accordo, in pochi invece credevano che suor Veronica avesse deciso di uccidersi. L’avevano uccisa, si diceva, perché era incinta, e si facevano nomi di monaci e preti, di due monsignori anche, che frequentavano il convento con assiduità.

“Comunque, vedrete, faranno passare tutto per suicidio così lo scandalo si potrà soffocare più facilmente.”

E infatti le indagini furono svolte in fretta e con grande discrezione, l’autopsia, se autopsia era stata fatta, passata sotto silenzio.

Era incinta suor Veronica?

Non si è mai saputo.

La badessa era nata in una di quelle famiglie che possedevano quasi tutte le terre del paese, ma erano tempi, inizio Novecento, in cui le ragazze avevano una sola opportunità: il matrimonio. I feudi, i palazzi, i soldi, si sapeva, toccavano ai figli maschi, al primogenito soprattutto. Le femmine sposandosi avrebbero avuto la dote, certo, poca cosa comunque, in abbondanza solo casse di biancheria di lino ricamata, un inutile corredo se non riuscivano a pescare un marito, corredo che passava alla figlia primogenita del fratello dove la zitella sarebbe andata a vivere dopo la morte dei genitori.

Non era una bella prospettiva.

Le sorelle maggiori della futura badessa avevano impalmato i ricchi scapoli a disposizione, lei aveva già venti anni, quando ci si sposava a quindici, e all’orizzonte non appariva nessuno. Eppure era bellina, carnagione bianchissima, lineamenti regolari, sorriso e sguardo da santarella che nascondevano tenacia, caparbietà, e la ferma decisione di non finire in casa di qualche cognata o, come la maggior parte delle terze o quartogenite delle famiglie bene, di accontentarsi di un mezzo proprietario – mezzo bifolco forestiero scovato da uno dei tanti sensali di matrimoni.

E poi, in paese c’era l’uomo giusto, il più nobile, ricco, istruito, aveva persino diverse lauree quando i proprietari, allora, completavano al massimo le elementari: i maschi, le femmine solo le prime tre classi. Quello era l’uomo per lei. Possedeva vigneti a perdita d’occhio, terreni da semina, veri e propri feudi, ville e case di villeggiatura, oltre il palazzo che portava il nome di famiglia. Insomma, un gran partito.

Il problema?

Il nobiluomo non solo non si era mai interessato a lei, ma aveva – e in paese – una donna e una figlia. Una donna bella e simpatica che non apparteneva però alla cerchia dorata dei proprietari terrieri, e per questo, quando la cosa era iniziata, aveva suscitato scandalo, e lo scandalo era esploso quando era nata una bambina.

Una bambina fuori dal matrimonio.

Non c’era adulto, ragazzo, contadino, servo o proprietario che non ne fosse al corrente, che non ne parlasse, che non chiedesse a chi assomigliava. Al padre? Ah, c’era il segno della nobiltà in quella piccolina!

Le notizie e i commenti entravano e uscivano da ogni casa: con le serve, le verdure, le derrate che arrivavano dalle campagne, notizie e commenti che sostavano nei salotti, nelle cucine dei signori e  dei villani, andavano per strada, si fermavano al lavatoio, dal droghiere, dal macellaio, nel negozio di tessuti della via principale e nelle osterie, oltre che sul sagrato delle chiese dove qualsiasi fatto veniva raccontato e commentato dopo la messa o le altre funzioni.

Ormai anche le pietre del fiume parlavano dello scandalo ma la madre badessa, in seguito, avrebbe raccontato alle sue monache che lei non aveva mai saputo della “scappatella” prematrimoniale del marito.

Una scappatella. Era nata anche una bambina che, se non riconosciuta dal padre, sarebbe stata una bastarda, una figlia di N.N., il marchio che veniva stampigliato su tutti i documenti rovinando la vita di tante persone, e si è dovuto aspettare il 1975 perché fosse abolito.

Il nobiluomo però era anche un gentiluomo, il pericolo per quella bambina non esisteva. Così dicevano tutti ma la futura badessa fece in modo che le cose andassero diversamente.

Quindi, in tutto quel bailamme, con discrezione, accortezza, lei comincia a lanciare la rete per  pescare il suo pesce.

Nei primi bigliettini gli assicura di ricordarlo nelle sue preghiere, certamente tutti quei commenti e pettegolezzi lo disturbano, lo rattristano, e lei chiede per lui il conforto cristiano.

I biglietti, com’era consuetudine, viaggiavano col sistema sicuro e rapido della serva di casa e lei ne aveva una più fedele di un cane fedele, sempre pronta a portare messaggi, avanti e indietro dal quartiere di S. Nicola a quello dei Cappuccini.

Per quanto tempo? E cosa venne aggiunto in seguito alle parole di conforto cristiano?

Nemmeno l’arcangelo Gabriele può saperlo. Si sa invece che la futura badessa sigillava le missive con la ceralacca e, dopo averle chiuse in una piccola borsa di tessuto, ordinava alla serva di metterle, non nel petto, come allora facevano molte donne, ma nella parte interna dei mutandoni.

La serva poteva cadere, svenire, morire, ma nessuno avrebbe trovato niente. 

Non si sa quando la madre della bambina capì che qualcosa stava cambiando, era cambiato, né quando il nobiluomo cominciò a pensare a un matrimonio più adatto al suo rango. Sono segreti finiti nelle tombe e da lì non usciranno più. Di sicuro c’è l’intervento di un padre guardiano cappuccino che fa cadere le parole giuste al momento giusto in tempi in cui i padri guardiani, gli arcipreti, i vescovi, i segretari dei vescovi e anche i semplici sacerdoti avevano un peso notevole nella vita delle persone. E le parole giuste, in quel caso, suonarono più o meno così: Circolano voci, eccellenza (molti gli davano dell’eccellenza) voci accorte, sommesse, quasi sotterranee come certi corsi d’acqua che d’improvviso vengono fuori impetuosi e trascinano via tutto quel che trovano. Anche l’onorabilità di una ragazza perbene, di famiglia perbene.

Qualcuno aveva notato, disse il cappuccino, il via e vai della serva da un quartiere all’altro, da un palazzo all’altro, e poi…

Il padre guardiano accennò all’invito che la famiglia di lei aveva fatto alla famiglia di lui per la festa di Maria assunta in cielo, invito accettato.

“Mi sbaglio eccellenza? Al paese, da sempre – il sempre umano, s’intende – l’invito a vedere la processione di ferragosto dai balconi della propria casa ha un significato preciso, e accettare quell’invito è quasi un impegno. Mi corregga se sbaglio.”

Non si sbagliava.

Il clero, eccezione fatta per qualche santo o qualche pazzo, era sempre stato dalla parte dei signori,  non certo dalla parte di una donna che non voleva il bollo di bastarda per la figlia, Si doveva rassegnare, il mondo, del resto, era pieno di figli di N. N.

Ma la madre non si rassegnava, anche se aveva tutti contro, e lo disse alla futura badessa, l’affrontò senza esitazione, lo sposasse pure il padre di sua figlia, lei voleva solo il nome per la bambina.

Il matrimonio ci fu e subito dopo iniziarono da parte della sposa le manovre per evitare che i suoi probabili futuri figli dovessero spartire i possedimenti con l’estranea. Prima cercò di allontanare il padre dalla bambina: “Con la scusa di vedere la figlia ti incontri con la madre”, e quando la questione fu risolta mandando a palazzo la piccola in braccio a una anziana donna, la fresca sposina alle prime avvisaglie di “riconoscimento legale” iniziò quel che oggi si direbbe lo sciopero della fame ma che allora suonava: lasciarsi morire di consunzione.

Non è difficile immaginare che la serva fedele la nutrisse segretamente, doveva sembrare decisa a morire, non certo morire, e così il marito continuò a rimandare quel riconoscimento. Poteva causare la morte della moglie?

Malgrado la sua intelligenza, le lauree, il patrimonio e il nobile casato, si comportò, come avrebbe detto Sciascia, da quaquaraquà. In quella specie di partita a scacchi la futura badessa aveva messo in campo tutte le sue armi per indirizzare le mosse dell’avversario a suo vantaggio, per costringerlo a spostare le pedine che voleva lei, come voleva lei. E aveva vinto.

Poi il grande avvenimento: la sposa aspettava un bambino. L’erede, il figlio, l’unto del Signore.  E chi pensava più alla bastarda?

Ci sarebbe voluto il Rettore dei Salesiani che c’era una volta, una specie di Padre Cristoforo fra i tanti don Rodrighi e don Abbondi, che molti anni prima aveva costretto il barone Rametta a riconoscere i figli avuti dalla servetta. Ma i padri Cristoforo sono più rari delle mosche bianche e comunque in quel frangente al paese di quelle mosche non ne volavano.

Dopo qualche anno però il bambino fu colpito dalla difterite, una malattia spesso mortale, allora, non c’era il vaccino, non c’erano gli antibiotici, e come si temeva morì.

La futura badessa all’inizio vide quella morte come un castigo divino, sapeva fra l’altro che non poteva più avere figli, ma presto ne pensò una delle sue: il marito avrebbe riconosciuto la bambina che però doveva andare ad abitare con loro, sarebbe stata la loro figlia, la madre doveva rinunciare a lei, non doveva più nemmeno vederla.

La madre ovviamente rifiutò sdegnata e la nobile signora ne fu stupita: ma che ingratitudine!

  Poi anche il marito si ammalò, una malattia che i migliori medici non riuscirono a curare, morì anche lui, e poiché non c’erano figli tutto il patrimonio andò alla moglie.

Cosa poteva fare una vedova ambiziosa, con pochissima istruzione e zero interessi?

La madre badessa.

Bisogna riconoscere che per molto tempo le autorità ecclesiastiche ostacolarono le pretese della vedova ma lei sapeva come muoversi, convincere, e tempo costanza e mezzi non le mancavano.

Proprio per questo, secondo alcuni, non era necessario buttare Veronica nel pozzo, troppo pericoloso, prima o poi qualche suora avrebbe parlato. Ci sono armi più sicure che sanno creare il vuoto attorno ad una ragazza semplice, di famiglia povera, abituata alle ingiustizie. Ad albero caduto accetta accetta, si ripeteva Veronica, ma che colpa aveva l’albero se il vento l’aveva buttato giù? E le tornava in mente l’asino visto nella strada ripida della Crocitta, era scivolato, sotto il pesante carico non riusciva più a sollevarsi e il padrone imbestialito gli faceva calare con tutta la sua forza un grosso bastone sulla testa. Picchiava e gridava, gli diceva delinquente, mangia paglia a ufo, finché la bestia era morta, la testa sul selciato, un occhio aperto., e l’uomo l’aveva guardato quasi stupito e indignato per quell’ultimo tiro mancino che l’asino gli aveva giocato.

Veronica non poteva dimenticare quell’asino, e quando la badessa si rivolgeva alle suore riunite, stava ad ascoltare con la disperazione di una bambina che si è persa nel bosco. In quei discorsi c’era forse il segreto per ritrovare la strada ma le parole le sembravano pronunciate in una lingua sconosciuta. Aveva anche cercato di parlare alla badessa, si era fatta coraggio, l’aveva fermata nel corridoio: Madre…” Ma lei l’aveva gelata con lo sguardo ed era andata via.

Due consorelle lavoravano in cortile, pulivano e rassettavano come gli altri giorni, chiacchieravano, e nessuna di loro si accostò a una delle finestre aperte per dire, Buongiorno suor Veronica, avevano sentito dal rumore del secchio che lei era là, nel corridoio, e avevano smesso di parlare.

Veronica non le vedeva, vedeva il rampicante sul muro con i fiori bianchi a forma di campanule e le foglie lucide come quelle del limone. Sentì sbattere con forza lo zerbino, era sempre pieno di terra perché ci si pulivano i piedi venendo dal giardino, e poi di nuovo le consorelle che avevano ripreso a parlare ma a voce bassa.

Devo parlare con la Superiora, si disse, provare ancora, sì, forse mi ascolterà, dirà, Vieni nel mio studio. Proverò di nuovo domani. E mentre si abbassava per strizzare lo straccio nel secchio, la decisione che sapeva inutile le diede una certa serenità..

Quasi mezzanotte. Veronica percorre il corridoio attenta ad evitare qualsiasi rumore, anche se non ci sono assi che scricchiolano ma mattonelle di ceramica pulitissime che lei lava ogni giorno. Il cuore le batte forte, le sembra di sentirne l’eco che rimbalza sulle pareti, ma continua a camminare, è quasi a metà corridoio, non lontana dalla stanza della Madre superiora. Non alzerò gli occhi, si disse, ma quando si trovò davanti a quella porta gli occhi si sollevarono involontariamente e Veronica è sicura che la porta si aprirà all’improvviso e apparirà la badessa.

Ma non accade.

Prosegue in quel silenzio notturno così nuovo per lei, arriva in fondo al corridoio. Sa che la porta è chiusa ma sa anche come usare il ferretto per i capelli che era caduto a donna Rosaria quando aveva portato la biancheria e gli abiti talari dei frati perché venissero lavati e stirati come di consueto. La forcina si era staccata dalla crocchia di capelli bianchi ed era caduta sulle mattonelle lucide del pavimento, donna Rosaria non se n’era accorta e Veronica, senza sapere perché, si era chinata e l’aveva fatta scomparire nella tasca.

Il trucco di aprire una porta chiusa a chiave con un ferretto gliela aveva insegnato il cugino Saro, erano ancora bambini e si divertivano ad aprire la stalla o la casa della nonna.

La porta che dà in giardino adesso è davanti a lei, mette una mano sulla maniglia, con l’altra palpa il fondo della tasca, hanno tasche profonde i vestiti delle monache, chissà perché, ci tengono solo il rosario e il fazzoletto.

Veronica trova subito la forcina, la piega, la fa girare a mo’ di chiave e la porta si apre.

Fuori un cielo con tante stelle e uno spicchio di luna, niente nuvole, si dirige verso l’aiola delle erbe aromatiche e accanto, sull’albero della robinia, avverte un sommesso eccitato frullo d’ali. Il suo passo nel viottolo ha messo in allarme gli uccelli che dormivano. Lei invece è tranquilla, le decisioni una volta prese portano serenità, si chiede solo se la Superiora sapeva chi era stato.

Quasi certamente no, e non le interessava saperlo, era importante solo soffocare lo scandalo, e lo  scandalo era lei, lei il problema, lui avrebbe continuato con i buoni pranzi preparati dalle consorelle, avrebbe bevuto il vino rosso gradazione diciotto, biancheria e abiti lavati e stirati. Non erano loro le ancelle dei sacerdoti? E ancelle vuol dire serve, le aveva spiegato suor Rosina.

Si volta a guardare il convento, l’impassibile struttura completamente buia, nemmeno una luce dietro quelle finestre, e forse per questo le sembra ancora più freddo e inutile, un uccellaccio morto, rinsecchito. Continua a camminare, il cuore non le batte, solo un leggero pulsare delle vene vicino alle tempie, come se tutto ciò che ha nella testa, pensieri, ricordi, volessero fuggire verso le nuvole finché erano in tempo. Infatti è già arrivata al pozzo, con un saltello siede sull’orlo di pietra lavica, si sta bene di notte in giardino, siamo in maggio ormai. Solleva il coperchio, guarda verso l’acqua,  ma è buio, sente solo un soffio di aria fresca, pulita, salire verso di lei, accarezzarle il viso.

 “Veronica…!?”

Vuole ascoltare il suo nome e si china di più verso l’acqua, chiama ancora:

“Veronica…!?”

 “Onica…!?”

Un suono bellissimo quasi come quello dell’organo della Chiesa madre.

“Veronica…?”

L’eco rispose senza farsi attendere:

“Onica…?”

E lei si lasciò andar giù.

 

                                                                                               Olga Foti

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Finocchiaro

 Il dottor Francesco Finocchiaro (nato a Randazzo il 23 luglio 1864, morto il 19 ottobre 1938), “chimico e farmacista”, conduceva la sua farmacia nella prima metà del secolo scorso sulla via Umberto, nei pressi di San Martino: era la tipica farmacia d’una volta, con vasi e alambicchi allineati sugli scaffali, dove lo speziale preparava con le sue mani rimedi e antidoti per ogni infermità, una farmacia come quelle descritte da Giovanni Verga o da Vitaliano  Brancati, una sorta di Circolo Cittadino, frequentata alla sera da amici e conoscenti, dove confluivano tutte le notizie e le chiacchiere del paese, si progettavano scherzi memorabili, si leggevano le composizioni più salaci destinate a pochi intimi.
Pare che il dottor Francesco Finocchiaro fosse piuttosto bravo nella preparazione di sciroppi e per qualche suo preparato aveva anche ottenuto il brevetto.
Nella attività lo affiancava il fratello Gabriele (nato l’11 settembre 1870), che coltivava un animo d’artista: dipingeva,

Dr. Francesco Finocchiaro, chimico e farmacista – Randazzo

realizzava caricature e vignette umoristiche, intrecciava canestri e all’occasione praticava anche la tassidermia (imbalsamazione di animali).
Sarebbe scomparso il 7 agosto 1943, durante i bombardamenti cui aveva sperato di sottrarsi rifugiandosi, come tanti altri, nella chiesa di S. Martino, ritenendola un luogo sicuro. 
In tempi, come quelli, di scarsa alfabetizzazione, i pochi “uomini di penna” godevano di una certa fiducia e considerazione, al momento di dovere scrivere una lettera, un contratto, richieste  queste che il farmacista soddisfaceva sempre, e spesso in versi. 
I due fratelli, spiriti arguti, dalla penna sciolta e la rima facile, poetavano su tutto e tutti. 
Non esiste purtroppo una raccolta organica dei loro scritti, se n’è potuta avere memoria frammentariamente, e solo attraverso fonti orali, ormai estinte, di “discepoli” e frequentatori, pagine di vecchi giornali e trascrizioni.
La loro poesia era spesso estemporanea, ma mai illetterata, tanto in lingua che in dialetto, nel pieno rispetto della metrica, una poesia dal fraseggio sciolto, disseminata di doppi sensi, finissime allusioni, citazioni dagli autori classici.
I farmacisti seguivano attentamente la vita politica locale e nazionale, le loro composizioni trovavano spazio su fogli satirici dell’epoca, quali “ U trabanti” di Bronte,” L ei è la rio ” di Catania, e altri ancora, firmate spesso con lo pseudonimo di Turi Raspa, dove trattavano tutti i problemi della Randazzo del tempo: acqua, illuminazione, ferrovia, ospedale, igiene pubblica… Purtroppo a chi legge adesso, potranno sfuggire tanti riferimenti a fatti e personaggi distanti parecchi decenni non conoscendone il contesto, ma nonostante ciò la loro poesia ed i temi trattati si rivelano attuali e piacevoli ancora oggi.

Maristella Dilettoso  dal libro  “POETI RANDAZZESI DEL PASSATO” IX Rassegna di Poesie Dialettali e in italiano :“Versi e parole nelle parlate galloitaliche di Sicilia” –  2013  edito dalla Pro Loco di Randazzo.

 

  1. SALVATORE RASPANTE DETTO “TURI RASPA”. 

Da un vecchio cassetto è sbucato fuori un antico opuscoletto di poesie dialettali dal titolo Poesie Siciliane” di Turi Raspa che ci rappresenta una situazione politico-sociale dei primi del Novecento, ci è sembrato opportuno presentarvene una nella versione originale.

 

A Franciscu Vitu Gasparazzu: (Notizi supra a situazioni politica a Rannazzu: “Arriva l’acqua ri Pietri Janchi?”

 

Sta’ vota a Gasparazzu mi presentu /ccu la facci cascata e ccu la cuda

a ‘mmienzu li gammi e triemu ri spaventu /si non cci scrissi nun fu curpa mia,

ma tutta di la nostra Ferrovia-/ 

La nostra Ferrovia , lu sannu tutti/ogni dui e tri cummina sti frittati,

di li giusti pretisi si nni frega…./ma pagatili .ppi favuri ,l’impiegati!

E viditi cca cessanu ‘ntra nenti/vuci, minazzi,scioperi e lamenti.

Ma st’argumentu a nui nn’importa pocu,/e parrari di “ l’acqua” nni cunvieni,

giusta comu vi dissi: a tempu e locu/diremu di la nivi cosi ameni,

rimannannu a la prossima simana/li fattarelli ri la gna’ Bastiana.

“L’acqua” ,vi dissi vieni, ri Muntuni/evi chiara frisca e trasparenti,

si arrivati a tastarini un buccuni,/viditi chi vi stronanu li denti.

Ma l’acqua non verrà ‘nta lu paisi/s’evi guvirnatu ri li Rannazzisi.

Già un cunsigghieri ,ri li cchiù arraggiati,/di chilli chi v’aggiustanu lu munnu,

ccu quattru scarabocchi e du’ parrati,/a la questioni cci tuccau lu funnu,
cu stu’ discursu fattu tempu arreri/avanti nauntri setti cunsigghieri.

Si ‘i Vaiasinni avissuru a chianari,/st’acqua a Rannazzu nun cci vieni mai;

si turnassi Pulizzi a guvirnari/dici chi st’acqua costa troppu assai.

I pupulari vincinu ? E allura/Muntuni evi chiusu ‘nda ‘na sipultura!

Pinsari ad autra acqua evi ‘na fissaria/chilla ri Vaiasinni evi ‘nsufficienti…

-Cunsidirati chilla De Maria…/Gugliermu non cunchiuri; finalmenti

resta Muntuni, e alluri evi necessariu/cca ristassi tru nui lu Commissariu.

 

L’acqua detta di “Pietre Bianche” proviene dalle sorgenti di Portale o Pietre Bianche, Tortorici (ME) a circa 1350mt. sul livello del mare, portata acqua circa 7 litri al secondo. Sorgente di Montone-territorio di Randazzo circa 1275 mt.sul livello del mare, (portata:  1 litro/sec). La condotta che raccoglie l’acqua  delle due sorgenti arriva al Serbatoio dei  Cappuccini, dopo avere attraversato alcune  zone, tra cui  Roccabellia e Murazorotto.
E’  il 1° acquedotto costruito a Randazzo (1906/1907). sindaco pro- tempore  Gualtiero Fisauli. Acque eccellenti e saluberrime sono definite dalla ” Relazione a cura del Prof.Eugenio Di Mattei-Università di Catania”.

A cura di Silvia Vagliasindi  dal libro  “POETI RANDAZZESI DEL PASSATO”  IX Rassegna di Poesie Dialettali e in italiano :
“Versi e parole nelle parlate galloitaliche di Sicilia” –  2013  edito dalla Pro Loco di Randazzo.

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Un originalissimo contratto di affitto di una abitazione scritto in versi dal dr. Francesco Finocchiaro  gentilmente concesso da Pippo Dilettoso.

 

CONTRATTO DI LOCAZIONE 

 

L’anno di grazia novecentoquindici/Fatta in Randazzo il 29 Giugno

Avanti i testi che si rendon vindici/E sottoscrivon con il proprio pugno,

Si convien quanto appresso sarà detto/E quanto infine poi sarà riletto.
 

Zingali Santo cede in locazione/A Ciccio Garagozzo fu Bastiano

Una bottega per abitazione/La qual sarà pagata mano a mano,

Come suol dirsi a terzo anticipato/E come meglio qui sarà spiegato,

 

Il primo terzo all’ultima di Agosto/Ed il secondo il primo di gennaio

L’ultimo terzo sarà corrisposto/Il primo Maggio, ed è evidente, chiaro

Che lo Zingali lascerà quietanza/Di nulla più a pretender della stanza.

 

Il Garagozzo s’obbliga osservare/Alla sua volta i patti tali e quali

La bottega non può subaffittare/Se non dietro permesso del Zingali

S’obbliga infine di non far rumore/Giusta le leggi urbane oggi in vigore.

 

Ciò non vuoi dire che durante il giorno/Non possa fare chiavi, serrature,

Maniglie, saliscendi o qualche adorno,/Purché la notte non dia seccature.

Né si potrà lagnare il vicinato/Se esercita il mestiere a cui è portato

 

Il prezzo convenuto è lire trenta/Da ripartirsi come sopra è detto

Zingali dal suo lato si accontenta,/mentre l’accordo al Garagozzo è accetto

Dietro tai patti espliciti ed asciutti/Contenti loro due contenti tutti

L’affitto ha sol di un anno la durata/E col trentuno Agosto avrà scadenza

Può venir questa scritta rinnovata/Se le parti ci trovan convenienza

In questo caso basta solamente/Scrivere un cenno in calce alla presente.

 

S’obbliga Garagozzo custodire/La casa da buon padre di famiglia,

Usarla con decoro e pria di uscire/Riconsegnarla tale e qual la piglia

non occorre concedo perché è patto/Che il termine suddetto val di sfratto.

 

Vien la presente in doppio originale/firmata per comune garanzia

Ed è inutile dire che essa vale/Come se da Notar redatta sia,

Cautela non pregiudica, io dico,/Come diceva pure il motto antico,

 

Qualora si dovesse registrare/La scrittura privata qui presente,

Tutte le spese si dovrà addossare/Chi trasgredisce i patti o se ne pente.

Stabilite cosi le condizioni/Alla firma si vien dei testimoni.

   

 

 

 

Portaro Antonino

 

 

Antonino Portaro

  Antonino Portaro, nato a Malvagna (Messina ), risiede a Roma.
Funzionario Dirigente del Ministero Economia e Finanze, per il quale ha svolto anche incarichi di Revisore dei conti presso Enti Pubblici; attualmente, svolge  funzioni di Giudice tributario.
Laureato in Economia  e  Commercio presso l’Università di Catania, ha conseguito la seconda laurea in lettere, con indirizzo (Storia dell’arte e Archeologia) presso l’Università “ La Sapienza” di Roma.
Ha le seguenti specializzazioni:
a) Abilitazione all’esercizio della professione di Dottore Commercialista;
b) Abilitazione all’insegnamento di discipline tecniche commerciali e aziendali;
c) Abilitazione all’insegnamento di discipline giuridiche ed economiche;
d)Abilitazione all’insegnamento di geografia economica;
e) Abilitazione di Guida turistica e Accompagnatore turistico per  Roma e Provincia.
Onorificenze:
Commendatore al Merito della Repubblica Italiana, iscritto nell’Elenco di Commendatori Naz.n 175512 Serie I; Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana;
Cavaliere di Malta dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme;
Presidente dell’Associazione cultura A.R.C.A. di Roma e dell’Ass.Cult.” Cuba bizantina”di Malvagna.
Fa, inoltre, parte della Galleria d’Arte “ Il Leone” di Roma in cui svolge attività di critico d’arte per le mostre di pittura e scultura e conferenze culturali.
E’ componente, anche, di altre Associazioni culturali come l’Accademia “ Dante Alighieri” di Roma ; Accademia dei Lincei di Roma, nonché dell’Accademia internazionale “ Il Convivio” di Castiglione di Sicilia.

Volumi editi:
– Malvagna Storia, arte e tradizioni di un paese siciliano” Vincenzo Ursini Editore- Catanzaro  -1986.
– Mandorli in fiore “ poesie in vernacolo siciliano Vincenzo Ursini Editore– Catanzaro – 1988 .
-Manuale pratico controllo conti giudiziali nelle Ragionerie Regionale e Provinciali dello Stato, Vicenzo Ursini Editore, Catanzaro, 1995 ( Recensito dal Ragioniere Generale Dott. Andrea Monorchio.
– La Moschea di Roma, Vincenzo Ursini Editore – Catanzaro-1996.
-Malvagna e i paesi della valle dell’Alcantara ( Storia, Arte e Tradizioni) Vincenzo Ursini Editore – Catanzaro -1999.
– La Cuba ( Trichora bizantina) di  Malvagna, Vincenzo Ursini  Editore – Catanzaro 2006.
-Malvagna ieri e oggi- Immagini a confronto. Un suggestivo viaggio a ritroso nel tempo attraverso le foto d’epoca. Vincenzo Ursini  Editore – Catanzaro 2010.
-Randazzo ieri e oggi– Immagini a confronto. Un suggestivo viaggio a ritroso nel tempo attraverso le foto d’epoca.   Euroselect – Roma  2014.
-Taormina  ieri e oggi- Immagini a confronto. Un suggestivo viaggio a ritroso nel tempo attraverso le foto d’epoca.  Edizioni Convivio – Castiglione di Sicilia ( Catania) 2016.
 – Gli Antichi vicoli medievali di Randazzo. 
 –
Composizioni in vernacolo siciliano : ” A li Fimmini ” e “Lu veru amicu “.

Altre pubblicazioni interne al Ministero dell’economia e finanze hanno riguardato:
– 
Il controllo di gestione; 
– L’Equo indennizzo del personale civile e militare dello Stato;
– Il Controllo successivo degli Uffici centrali del Bilancio della Ragioneria Generale dello Stato. – Il controllo interno nella Pubblica Amministrazione.

Come poeta in lingua e dialetto, ha partecipato a numerosi concorsi letterari ottenendo importanti riconoscimenti, tra i quali:
 – Premio Città di Valletta a Malta ;Premio Città a Catanzaro; – 
 – Premio Nino Martoglio a Catania ;
 – Gran Premio Città di Roma;
 –  Premio Internazionale San Valentino a Terni;
 –  Premio Donna” a Roma;
 –  Premio “Otima” di Milano” a Milano . 
 –  Premio Jacopone da Todi a Todi ( Perugia).

E’ presente in molte Antologie ed è stato citato e recensito da importanti quotidiani e riviste:
La Gazzetta del Sud di Messina;  l Corriere di Roma;  Il Tempo di Roma;  Il Giornale di Sicilia di Palermo ;  L’Avvenire; Times di La Valletta ( Malta);
Il Convivio. Gazzettino on line.;  Voce romana.

 

Antonino Portaro  “apre”  la Cuba di Malvagna.

 

Grazie all’interessamento ed all’impegno del funzionario ministeriale, nonché poliedrico intellettuale, la piccola cappella bizantina comincia a divenire meta di flussi turistici da tutt’Italia

     Grazie alla presenza in una sua contrada rurale della cappella bizantina denominata “Cuba”, il Comune di Malvagna è da diversi mesi meta di flussi turistici provenienti da tutt’Italia.
A fare da “cicerone” è Antonino Portaro, un benemerito cittadino malvagnese residente a Roma per lavoro (è funzionario presso i Ministeri dell’Economia e della Difesa), ma che non ha mai rescisso il cordone ombelicale col paese natio, cui rivolge i suoi molteplici interessi culturali (negli ultimi anni, pur senza trascurare la sua principale attività burocratica.
Portaro ha conseguito la laurea in Archeologia Cristiana, l’abilitazione all’insegnamento della Geografia e la qualifica di guida turistica; è, inoltre, autore di pregevoli pubblicazioni sulla storia, le tradizioni ed i beni monumentali della sua Malvagna)
.

     Della Cuba di Malvagna e del terreno su cui essa insiste Antonino Portaro è il proprietario; da qui il suo impegno nel tentare di valorizzare il monumento sopperendo al disinteresse delle pubbliche istituzioni.
     «In questi mesi – sottolinea – diversi pullman provenienti sia dalla Capitale che da altre città si sono recati alla volta del mio paese; i passeggeri erano turisti di un certo livello intellettuale incuriositi dalla Cuba malvagnese, un monumento unico nel suo genere perché, a differenza degli altri analoghi esistenti in Sicilia, è ben conservata e non è ubicata in edifici sotterranei».
     Da un’apposita monografia data alle stampe tre anni fa da Antonino Portaro per i tipi della “Ursini” di Catanzaro, si apprende che la Cuba di Malvagna risale al VII secolo dopo Cristo, quando i bizantini occupavano la Sicilia. Tale particolare periodo storico si caratterizzò per la disgregazione dei grossi centri urbani che portò alla formazione di comunità periferiche, tra cui quella che si stanziò nelle contrade su cui insiste l’odierna Malvagna.
Ecco, allora, il sorgere in loco di edifici sacri, come le Cube, ulteriormente necessitate dal “furore iconoclasta” che pervadeva le città: nell’VIII secolo d.C. venne vietato il culto delle immagini sacre e, di conseguenza, a monaci ed artisti non rimaneva che esprimere la propria spiritualità ed il proprio estro proprio in quelle piccole e semplici cappelle dislocate nelle campagne.
La denominazione “Cuba”, tuttavia, non appartiene al periodo bizantino bensì a quello successivo della dominazione araba, e trae origine dal termine “kupa”, ossia la cupola (piuttosto appiattita) che connota questi edifici a pianta quadrata.
     In Sicilia (soprattutto nel Siracusano) e nelle campagne della Valle dell’Alcantara (in particolare tra Castiglione e Randazzo) di Cube ve ne sono parecchie, ma quella di Malvagna è, sicuramente, la meglio conservata; merito, soprattutto, di un intervento di consolidamento effettuato nel 1997 dalla Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina.
     «Adesso – fa osservare Antonino Portaro – ne servirebbe uno di restauro conservativo, ma le pubbliche istituzioni sono sempre lente ad intervenire.
Per quanto mi riguarda, sono un privato cittadino ben felice di offrire alla pubblica fruizione un bene culturale quale la Cuba di Malvagna, anche se ritengo che quel che faccio io dovrebbero farlo gli enti pubblici. Ebbene: da un’Amministrazione Comunale malvagnese precedente all’attuale ricevetti, alcuni anni fa, una proposta d’acquisto di tale immobile che però, per problemi presumibilmente politici, non venne mai formalizzata; ed anche una richiesta di convenzione da parte dell’Ente Parco Fluviale dell’Alcantara è rimasta lettera morta.
Ed allora, visto l’andazzo, meglio che questi ruderi continuino ad appartenere a privati cittadini: uno come me ha la consapevolezza della loro rilevanza storico-culturale e, nelle epoche passate, i vecchi contadini ne hanno garantito la conservazione utilizzandoli come casolari.
Basta, del resto, considerare quanto accaduto proprio qui a Malvagna con il pregevole Convento dei Frati Minori: venne acquistato dal Comune a suon di quattrini, ma continua a versare nel degrado più totale…
».
     Tornando alla Cuba, al danno si sarebbe aggiunta – come suol dirsi – la beffa: in occasione del suo recente soggiorno estivo siciliano, Antonino Portaro non ha potuto fare a meno di manifestare il proprio disappunto per quanto riportato proprio dal sito internet del Comune di Malvagna (www.tuttomalvagna.it).

     «In quelle pagine web – dichiara indignato il professor Portaro – si legge che “… in un terreno di proprietà privata recintato, la Cuba continua a rimanere abbandonata a se stessa e chiusa alla pubblica fruizione”: non è affatto vero! A mie spese, senza alcun contributo da parte del Comune di Malvagna né di altri enti, ho realizzato una stradella di accesso alla zona della Cuba, ho fatto produrre ed installare la segnaletica che conduce al monumento (inserendoci anche il mio numero di cellulare onde poter prenotare le visite da concordare, in mia assenza, con una famiglia del posto) ed ho scritto e pubblicato un opuscolo turistico-divulgativo al riguardo; ed oggi mi prodigo, con eccellenti risultati e senza far pagare alcunché, a portare lì visitatori da tutt’Italia che, assentandomi da Roma, accompagno direttamente sul luogo.
Ma mi risulta che pure gente di Malvagna e del comprensorio dell’Alcantara, nonché scolaresche, hanno libero accesso alla Cuba. E se quel terreno è stato recintato, lo si è fatto per salvaguardare il monumento.
Se il Comune o chi per esso –
conclude Antonino Portaro con una punta di polemica – ritiene di poter far di meglio (ma ho i miei dubbi…), si cominci a vagliare seriamente la possibilità di acquistare la Cuba o di prenderla in gestione perché, sino a prova contraria, attualmente sono io il legittimo proprietario di questo edificio».
     www.malvagnacubabiza.altervista.org

     RODOLFO AMODEO

 

Il Comune etneo è il protagonista dell’ultima fatica editoriale del poliedrico intellettuale di Malvagna il quale, così come fece quattro anni fa con riferimento al suo paese d’origine, propone un significativo e gradevole viaggio per immagini sulle mutazioni avvenute nel pregevolissimo centro urbano della cittadina medievale

In occasione delle ferie estive, il poliedrico intellettuale Antonino Portaro non fa quasi mai ritorno nella sua Sicilia “a mani vuote”, ossia senza un “regalo” per la terra che gli ha dato i natali, esattamente sessantanove anni fa nel paesino di Malvagna.
Così, in quest’estate 2014, il benemerito cittadino malvagnese prima di lasciare la Capitale, dove risiede, ha messo in valigia la sua nuova pubblicazione “Randazzo ieri e oggi”, edita dall’associazione culturale “Cuba Bizantina” ed incentrata su un dovizioso confronto fotografico tra il passato ed il presente della cittadina medievale dell’alta Valle dell’Alcantara. 

In pratica, nelle circa duecento pagine che compongono l’accattivante volume, l’autore descrive la storia e le caratteristiche dei numerosi e pregevoli beni monumentali ed architettonici presenti nel centro storico randazzese, affiancando al testo una foto d’epoca ed una attuale del soggetto (chiesa, palazzo nobiliare, vicolo o stradina caratteristica, ecc.) di cui trattasi.
La stesso tipo di originale ed apprezzata operazione editoriale era stato posto in essere da Portaro quattro anni fa con una pubblicazione analoga dedicata al suo paese natio (“Malvagna ieri e oggi”); adesso, dunque, è toccato a Randazzo il “privilegio” di questo confronto iconografico tra passato e presente, preziosa testimonianza dell’evoluzione (o a volte, purtroppo, “involuzione”…) dei tempi e dei costumi.
Randazzo, comunque, è di per sé una città d’arte e, ad onor del vero, i suoi abitanti e coloro che si sono trovati ad amministrarla nel corso delle varie epoche hanno avuto la capacità ed il merito di preservare i suoi tanti beni monumentali, consentendo a questo Comune etneo di mostrare a tutt’oggi la sua aura d’antichità ed il suo glorioso passato.
Lo stesso, invece, non è avvenuto in tanti altri paesi siciliani (e della Valle dell’Alcantara in particolare), dove l’“antico” è stato troppo frettolosamente liquidato per “vecchio” e sostituito con manufatti amorfi, se non anche antiestetici, facendo perdere ai luoghi la propria storia e la propria identità.
Anche con riferimento a Randazzo, comunque, vi è sempre una qualche differenza tra una foto scattata in un determinato luogo un secolo fa ed una scattata oggi nel medesimo luogo: la chiesa, il monumento o l’edificio storico sono magari rimasti di per sé “incontaminati”, mentre qualcosa è cambiato sullo “sfondo”, a causa, ad esempio, dei nuovi insediamenti urbani che hanno occultato i retrostanti angoli di natura.
E’ quindi pur sempre interessante e suggestivo questo “viaggio nel tempo” proposto da Nino Portaro, particolarmente coinvolgente per la popolazione randazzese, ma anche, più in generale, per tutti i cultori della storia e delle tradizioni della Valle dell’Alcantara.
Nel volume in questione, inoltre, l’autore ha dedicato due capitoli d’appendice anche ai contigui Comuni di Santa Domenica Vittoria e Malvagna (quello sul paese natio, in particolare, è una sintesi del sopra accennato volume dato alle stampe da Portaro nel 2010, integrata con qualche immagine più recente).
La nuova fatica editoriale di Antonino Portaro non poteva che essere ufficialmente tenuta a battesimo nel Comune di cui tratta, ossia Randazzo, dove alcune sere addietro la locale sezione dell’associazione “Unitre” le ha dedicato un’apposita conferenza che, oltre a quello dell’autore, ha registrato gli interventi di Concetta Sgroi e Maria Trimi, rispettivamente presidente e segretaria dell’associazione ospitante.
Ma anche il Comune di Malvagna ha ritenuto doveroso riservare una serata al recente scritto di questo suo figlio illustre, dirigente del Ministero dell’Economia e laureato sia in Economia e Commercio che in Storia dell’Arte ed Archeologia, il quale, nonostante risieda stabilmente a Roma, si è sempre prodigato per valorizzare l’amato paesino d’origine, non solo con i suoi scritti (parecchi dei quali gli hanno meritato prestigiosi riconoscimenti nazionali), ma anche tramite lodevoli iniziative di richiamo turistico, come l’apertura al pubblico della caratteristica Cuba bizantina, ricadente in un terreno di sua proprietà, e l’allestimento di un ricco “Museo Etnografico della Civiltà Contadina e delle Tradizioni Popolari” al piano terra della sua abitazione di famiglia. Così, qualche sera fa, “Randazzo ieri e oggi” è stato presentato pure a Malvagna, alla presenza, tra gli altri, del parroco Daniele Torrisi, del sindaco Rita Mungiovino e del docente di Lettere Angelo Manitta, presidente dell’Accademia Internazionale “Il Convivio”. 

Rodolfo Amodeo   

FOTO:Portaro con il suo nuovo libro ed alcuni momenti delle presentazioni del volume tenutesi a Randazzo e Malvagna (oltre all’autore, nelle immagini appaiono anche il primo cittadino malvagnese Rita Mungiovino, il sacerdote Daniele Torrisi ed il prof. Angelo Manitta.

 

 

“Malvagna ieri e oggi”: il confronto fotografico di Antonino Portaro

Un’interessante e gradevole pubblicazione con cui il poliedrico studioso e scrittore mette a raffronto il passato ed il presente del piccolo centro attraverso centinaia di immagini di luoghi, personaggi ed eventi “da non dimenticare”

     Ennesimo “atto d’amore” del poliedrico intellettuale Antonino Portaro verso la “sua” Malvagna, il paesino della Valle dell’Alcantara che gli ha dato i natali sessantacinque anni fa, ma del quale continua a conservare e divulgare la memoria storica malgrado risieda a Roma per lavoro (Portaro è funzionario dirigente del Ministero dell’Economia e Finanze, ndr).
     E’ delle scorse settimane l’uscita della gradevole pubblicazione “Malvagna ieri e oggi – Immagini a confronto”, un corposo volume fotografico, edito per i tipi della “Ursini” di Catanzaro, nelle cui oltre duecento pagine Nino Portaro ha fatto confluire ben centonovantacinque scatti ritraenti angoli, panorami, monumenti e tradizioni popolari del Comune malvagnese realizzati dai primi anni del secolo scorso sino ad oggi e che l’autore ha tratto sia dal suo archivio personale e sia dal materiale messogli a disposizione dai concittadini più anziani e dagli eredi di questi ultimi.
Ne è scaturito un vero e proprio “album fotografico dei ricordi”, all’insegna di un sapiente “mix” di bianco e nero e colore, che non può non appassionare tutti gli abitanti del piccolo centro i quali, sfogliando quelle pagine, vengono “magicamente” catapultati in un suggestivo “viaggio” a ritroso nel tempo da cui riaffiorano luoghi e volti che è giusto, se non doveroso, non dimenticare.

     «I processi di cambiamento – spiega Nino Portaro a commento di quest’ultima sua fatica editoriale – sono, purtroppo, ineluttabili: tutto ciò che vive cambia, ed il cambiamento può avvenire in maniera graduale e quasi impercettibile, oppure in modo traumatico.
Sta di fatto che la trasformazione di una comunità comporta inevitabilmente la sottrazione alla memoria di immagini legate alle proprie dirette esperienze di vita. Orbene: questa mia pubblicazione, all’insegna di “confronti fotografici”, non vuol promuovere “requisitorie” né inutili condanne, ma andando oltre la fisiologica tendenza alla curiosità popolare ed alla nostalgia del passato, intende dare un contributo al riconoscimento degli errori che dovevano essere evitati allo scopo di non reiterarli e, ove possibile, “salvare il salvabile”
».
     Ed, in effetti, scorrendo le foto e le relative sintetiche didascalie di “Malvagna ieri e oggi” trapela l’amarezza per la perdita di beni monumentali di un certo pregio e dal notevole significato storico-religioso nonché sociale, quali il Castello dei Lanza (distrutto per far posto all’attuale municipio), il campanile annesso a quest’ultimo ed alla contigua Chiesa di Sant’Anna (demolito nel 1990) e le caratteristiche antiche abitazioni rurali, sostituite da amorfe case in cemento, sicuramente più funzionali ed al passo coi tempi, ma spesso anche antiestetiche essendosi innestate in un contesto paesistico che avrebbe meritato interventi costruttivi meno invasivi, con un impiego più sapiente dei colori delle facciate e limiti alle sopraelevazioni indiscriminate.
     Ma, fortunatamente, proprio questa pubblicazione di Portaro consente ai malvagnesi e, più in generale, a tutti gli studiosi e semplici cultori di storia della Valle dell’Alcantara di conservare l’immagine di quella “Malvagna che non c’è più” e che oggi, se adeguatamente preservata (facendo, ad esempio, rimanere “incontaminati” alcuni suoi quartieri, così come si è saggiamente fatto in tantissime località del Nord e del Centro Italia), avrebbe potuto costituire una meta turistica, dando concreta realizzazione ai “sogni” dei tanti amministratori ed imprenditori dell’entroterra alcantariano che (come si evince dai continui “proclami” di questi ultimi nei convegni e sui giornali…) aspirano a “rubare” ospiti e visitatori alle “blasonate” Taormina e Giardini Naxos.
     Non tutti i mutamenti, comunque, vengono per… nuocere: Portaro si compiace, ad esempio, di quelli che hanno riguardato la Chiesa di Sant’Anna, il cui arredo interno nonché i simulacri del Crocifisso, della titolare dell’edificio sacro e della Madonna del Carmine sono assurti a nuovo splendore, grazie alle innovazioni ed ai restauri voluti, in particolare, dall’attuale giovane parroco Don Daniele Torrisi.
     Ma, al di là degli spunti di riflessione che l’autore vuole stimolare, “Malvagna ieri e oggi” assolve anche ad una più “effimera” funzione “ricreativa”, ossia la possibilità per il fruitore (nella fattispecie il malvagnese “doc”) di abbandonarsi ai nostalgici “amarcord” del passato, ritrovando in quelle pagine luoghi e personaggi della propria infanzia: un’intera sezione del volume è, addirittura, dedicata alle classiche foto ricordo delle scolaresche locali in posa con i loro “mitici” insegnanti; e poi i momenti più “esaltanti” della vita paesana, come la posa della prima pietra della Casa Comunale (1927), le originarie edizioni della “colossale” Sacra Rappresentazione vivente della Passione di Cristo, le varie processioni della Patrona Sant’Anna e le visite che eminenti politici nazionali del Dopoguerra (Stagno D’Alcontres, Eros Cuzari, Carmelo Santalco, Corrado Terranova, Modesto Sardo, ecc.) effettuarono nel piccolo centro in occasione di cerimonie inaugurali ed eventi vari.
     Nell’ultima sezione del volume Nino Portaro ha raccolto anche immagini e notizie relative al limitrofo Comune di Mojo Alcantara, «in quanto – tiene a precisare l’autore – i due paesi sono strettamente legati da fattori affettivi ed economici derivanti dalla loro storia comune, visto che durante il periodo fascista costituivano un’unica municipalità denominata “Lanza”».
     E’ auspicabile che ogni cultore di storia patria segua l’esempio di Antonino Portaro producendo per il proprio Comune un’opera simile a “Malvagna ieri e oggi” onde non smarrire l’identità dei luoghi e delle rispettive comunità.
     Lo storico e scrittore malvagnese ha, altresì, avuto il grande merito di elaborare un prodotto editoriale che, grazie al poco scritto ed all’abbondanza di immagini, riesce a divulgare la storia di un territorio anche presso chi (vuoi per mancanza di tempo, vuoi per formazione ed indole personale) è poco avvezzo alla lettura.
     Il prezioso documento è stato ufficialmente presentato alcune sere addietro a Malvagna nella Chiesa di S. Anna in un’apposita conferenza, moderata da Cettina Portaro, cui, oltre all’Autore, sono intervenuti il sindaco Rita Mungiovino, il parroco Daniele Torrisi, la giornalista Enza Conti ed il prof. ngelo Manitta, fondatore e presidente dell’Accademia Internazionale “Il Convivio”.

     RODOLFO AMODEO 

 

Randazzo: a passeggio nel Medioevo guidati da Antonino Portaro

 

Lo studioso originario di Malvagna ha presentato al Museo dell’Opera dei Pupi il suo volume dedicato al tessuto urbano della cittadina etnea, virtuoso esempio di conservazione della memoria storica, che altrove, invece, è stata “cancellata” da deprecabili nuove scelte costruttive.

In occasione delle ferie estive, il poliedrico intellettuale Antonino Portaro non fa quasi mai ritorno nella sua Sicilia “a mani vuote”, ossia senza un “regalo” per la terra che gli ha dato i natali, esattamente nel paesino di Malvagna, in provincia di Messina.
Così, in quest’estate 2018, il benemerito cittadino malvagnese prima di lasciare la Capitale, dove risiede, ha messo in valigia la sua nuova pubblicazione:
“Gli antichi vicoli medievali di Randazzo”, edita dalla “Tipolitografica Roma” ed incentrata su di un suggestivo viaggio a ritroso nel tempo nei quartieri della cittadina etnea, che ha avuto il merito di conservare il proprio tessuto urbano originario senza, come è avvenuto altrove, snaturarlo o addirittura “cancellarlo” del tutto con discutibili e spesso antiestetiche nuove costruzioni.

 

Il volume, ufficialmente presentato dall’autore alcune sere addietro nel salone del Museo dell’Opera dei Pupi di Randazzo, è corredato di numerose foto a colori e d’epoca che lo rendono di gradevole fruizione.
Alcuni anni addietro Antonino Portaro si era già occupato del centro urbano randazzese con il volume “Randazzo ieri ed oggi” che, così come quelli da lui dedicati a Malvagna e Taormina, costituiva un confronto fotografico tra il passato ed il presente della cittadina. E già da quella pubblicazione si evinceva l’eccellente stato di conservazione che la comunità randazzese aveva garantito, nel corso dei secoli, al proprio tessuto medievale.
Antonino Portaro durante la presentazione del suo nuovo volume su Randazzo al Museo dell’Opera dei Pupi, come spiega lo stesso autore, «ho ritenuto doveroso produrre una ancor più specifica pubblicazione sull’argomento in quanto Randazzo deve il suo fascino alla sensibilità dei suoi abitanti e degli amministratori locali verso la propria storia ed il proprio passato. E’ sicuramente da elogiare la cura che ha sempre avuto questa città per la conservazione dell’antico, che oggi le nuove generazioni possono osservare. Qui sono dunque state evitate rovinose trasformazioni urbane, pensando bene di indirizzare l’espansione territoriale fuori dalle mura civiche. Randazzo, pertanto, conserva ancora il proprio aspetto medievale quasi intatto, che possiamo ammirare nel reticolo stradale, nella tessitura fitta dei quartieri di San Martino e San Nicola ed in parecchie unità abitative. Questo mio lavoro comunque – conclude con modestia Antonino Portaro – non ha alcuna pretesa scientifica, ma vuole solo essere di ausilio al turista, che può avvalersene come guida in grado di suscitare in lui emozioni che possano gratificare la sua esperienza di viaggio».
Nell’introduzione a “Gli antichi vicoli medievali di Randazzo”, a Portaro piace citare il grande architetto tedesco Walter Leopold che in un suo studio condotto nel 1913 in occasione di un suo viaggio in Sicilia scriveva che
            «la roccia nera di basalto lavico su cui Randazzo è stata costruita scende a strapiombo verso il fiume Alcantara, che scorre proprio sotto le sue mura. Sono da apprezzare le caratteristiche paesaggistiche particolari di un centro storico incastonato sui declivi dell’imponente vulcano Etna. Estremamente interessanti sono la Chiesa di Santa Maria e la torre di San Martino».

Oltre all’introduzione di Antonino Portaro, la parte iniziale del volume contiene anche le recensioni di autorevoli personalità della cultura e del giornalismo di rango nazionale.

Per il prof. Fabio Bogi, in particolare, «saccheggi, pestilenze, rivolte ed eventi bellici hanno messo a dura prova nel tempo la bellezza ed il patrimonio di Randazzo, che ha pur tuttavia saputo conservare l’impronta delle sue origini medievali».

Per il giornalista Carlo Franciosa «gli elementi urbanistici approfonditamente analizzati da Portaro costituiscono la “voce narrante” di Randazzo, che ci parla di muri, porte, archi, intagli di pietra lavica, architetture civili e religiose, venuti da secoli di arte gloriosa».

Per l’artista Ginco Portacci «questo libro mette in risalto una medievalità che esaspera nelle correnti catalane gli accenti gotici, con l’arricciatura degli ornati fiammeggianti, con losanghe e fioroni al cumine di archi appuntiti ed inflessi, dalle ghiere moltiplicate e complicate di cordoni a treccia e di dentature sottili».

Per l’insegnante Ida Doina Busuioc «il suggestivo scenario descritto da Portaro ci indica lo splendore di una città siciliana del Trecento, sede di Re e Regine, testimoni di un’arte medievale che risente degli influssi di vari stili, correlati alle diverse dominazioni succedutesi nel tempo».

Per il critico d’arte Giuseppina Scotti «ci troviamo in presenza di un testo ben costruito nella sua compositività, particolareggiato e vario al tempo stesso e, soprattutto, attraversato dalla consueta competenza di Antonino Portaro».

Per la giornalista Iwona Grzesiukiewicz, infine, «in queste pagine Antonino Portaro ci regala un viaggio a ritroso nel tempo attraverso i sotterranei della tradizione, conscio che la conoscenza del passato ci aiuta a capire il presente».

Rodolfo Amodeo  –  pubblicato 20 agosto 2018 

 

Spello (Perugia) domenica 30 dicembre 2018

 Premio speciale al libro: GLI ANTICHI VICOLI MEDIEVALI DI RANDAZZO  di Antonino Portaro.

Il premio è stato assegnato nella sede della Pro-loco di Spello, presente il Sindaco dottor Moreno Landrini, nell’ambito della XLII edizione del Concorso Letterario Internazionale premio di Poesia e Narrativa  ” Sesto Properzio “, organizzato dall’Associazione ” Amici dell’Umbria – Agodtino Pensa “.
Patrocinato dalla Regione Umbra, dalla Provincia di Perugia e dal Comune di Spello.
Questo nuovo libro di Antonino Portaro è una storica passeggiata attraverso i vicoli di Randazzo (CT) in cui si incontrano tante costruzioni minori, con datazione a secoli diversi, in un suggestivo scenario in cui vengono descritti i numerosi resti architettonici che ci indicano lo splendore di una città del Trecento, sede di Re e di Regine, testimone di un’arte medievale.
” Gli Antichi Vicoli Medievali di Randazzo ” vuole essere una guida per meglio coinvolgere il visitatore e poter suscitare in lui quelle emozioni che possano gratificare il suo animo.
Questo studio, questa passeggiata tra i vicoli di Randazzo, vuole, inoltre, essere un piccolo contributo, un tassello, nella composizione del disarticolato mosaico storico.
Un viaggio a ritroso nel tempo; un tracciato dentro i sotterranei della tradizione, conscio che la conoscenza del passato ci aiuta a capire il presente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Le Antilopi

Storia fotografica de ” Le Antilopi”  complesso musicale nato negli anni 60 del novecento. Ebbero molto successo e si esibirono in molte sale:
l’Arlecchino ( di Arturo Facondo), la Trottola ( della famiglia Ragaglia) , la Sala del Municipio ecc… 

Salvatore Mascali, Santo Caggegi, Pippo Proietto, Saro Rapisarda, Biagio Belfiore, Salvatore Alfonso.

 

…………. Rosario Foti, Biagio Belfiore, Santo Caggegi, Pippo Proietto, Salvatore Alfonso, Salvatore Mascali.

 

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