Archivio mensile Giugno 2018

Federico De Roberto

 

     Federico De Roberto

Nacque a Napoli il 16 gennaio 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.[1]

Si trasferì con la famiglia a Catania nel 1870 dopo aver subito giovanissimo la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. Da allora, salvo una lunga parentesi milanese e una più breve a Roma, Federico visse all’ombra, gelosa e possessiva, di donna Marianna.[2]

A Catania si iscrisse all’Istituto tecnico “Carlo Gemmellaro”, quindi frequentò il corso di scienze fisiche, matematiche, naturali all’università: ebbe pertanto una prima formazione scientifica, alla quale affiancò presto l’interesse per gli studi classici e letterari, allargando la sua cultura al latino.

Il suo esordio letterario avvenne con il saggio Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato a Catania dall’editore Giannotta nel 1881. Fu presto conosciuto negli ambienti intellettuali per la sua attività di consulente editoriale, critico e giornalista sulle pagine di due settimanali che uscivano a Catania e a Roma: il “Don Chisciotte” e il “Fanfulla della domenica”. Del primo fu anche direttore dal 1881 al 1882; sul secondo scrisse dal 1882 al 1883 sotto lo pseudonimo di Hamlet.

Per l’editore Giannotta fondò la collana di narrativa dei “Semprevivi” ed ebbe modo di conoscere Luigi  Capuana e Giovanni  Verga con i quali strinse una salda amicizia. Nel 1883 raccolse in un volume dal titolo Arabeschi, tutti i suoi scritti di arte e letteratura e nel 1884 avviò la collaborazione, utilizzando il suo vero nome, con il Fanfulla della domenica, e tale collaborazione durò fino al 1900.

Un momento importante per la formazione dello scrittore fu l’incontro, durante un soggiorno in Sicilia, con Paul Bourget (1852-1935), in quei tempi molto noto per i suoi studi psicologici e per i suoi romanzi, nei quali analizzava minuziosamente le coscienze tentando di giungere ad una “anatomia morale”. Decisivo fu per De Roberto il trasferimento a Milano nel 1888 dove fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati, e conobbe Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana, consolidando sempre più la sua amicizia con lo stesso Verga e Capuana. Nel periodo del suo soggiorno milanese collaborò al “Corriere della Sera” e pubblicò diverse raccolte di novelle e romanzi, fra i quali quello che è considerato il suo capolavoro, I Viceré, nel 1894.

 

Paolo Vagliasindi in Parlamento ed al Governo fu propugnatore di libertà. Immaturamente troncata l’opera sua nobilissima vivrà nella storia della sua diletta terra.

Nel 1897 ritornò a Catania, dove rimase fino alla morte, salvo brevi viaggi. A Catania ebbe un incarico come bibliotecario e visse sostanzialmente appartato e deluso per l’insuccesso della sua opera narrativa. Mentre questa tacque egli indirizzò il suo lavoro intellettuale alla pubblicistica e alla critica, tra i quali si ricordano gli studi su Giacomo Leopardi e soprattutto su Verga che giudicò sempre un suo maestro. 

Dopo la morte – 1905 – dell’onorevole Paolo Vagliasindi del Castello di cui era un grande estimatore ed amico, scrisse l’epitaffio che trovasi all’angolo del corso Umberto I con la via Regina Margherita.

Nel 1909 presso l’ Istituto Italiano D’Arti Grafiche – Editore  pubblicò ” RANDAZZO E LA VALLE DELL’ALCANTARA ” con 147 illustrazioni e I tavola ( vedi galleria delle foto).

Nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale fu interventista.

Alla morte del Verga nel 1922 De Roberto riordinò in modo accurato le opere del grande scrittore ed iniziò uno studio biografico e critico che però rimase interrotto per la sua prematura morte avvenuta a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio 1927. Perfino in punto di morte De Roberto non ebbe adeguata considerazione, poiché la sua scomparsa fu oscurata da quella immediatamente successiva (27 luglio) di Matilde Serao.

Sostenitore convinto della poetica naturalista e verista, De Roberto ne applicò rigorosamente i termini, portando alle estreme conseguenze quegli aspetti di impersonalità del narratore e di osservazione rigorosa dei fatti.

Le tecniche narrative di De Roberto sono funzionali alla narrazione impersonale ma diverse da quelle di Verga. Innanzi tutto non è presente la regressione della voce narrante nella realtà rappresentata, è presente invece, come nel Mastro-don Gesualdo, il discorso indiretto libero ma in larga misura la narrazione si fonda sul dialogo e sulla presenza di didascalie descrittive. La narrazione tende a far propria la tecnica teatrale; nella Prefazione ai Processi verbali De Roberto afferma: «L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive per il teatro».

Libri di Federico De Roberto

 


Un bel articolo di Giuseppe Giglio su Federico De Roberto.

La razza dei Viceré

«La storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono, e saranno sempre gli stessi», mormora il principe Consalvo Uzeda di Francalanza all’arcigna zia Ferdinanda (un’irredimibile usuraia), in chiusura de I Viceré, il capolavoro che Federico De Roberto licenziò nel 1894, anticipando tanta letteratura europea che avrebbe raccontato il Novecento: quel secolo inquieto e feroce che è cominciato nell’Ottocento, e che ancora non è finito.
E con I Viceré il grande scrittore siciliano continuava e rafforzava la linea (aperta dal Verga disincantato de I Malavoglia, nel 1881: laddove la Sicilia di una povera famiglia di pescatori dava corpo e sangue allo scandalo della mancata modernizzazione di uno Stato sempre latitante, salvo che per la leva e le tasse) di quella sorta di contro-storia d’Italia che, dopo De Roberto, avrebbe trovato i suoi cantori in Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, fino a Consolo e Sciascia.
Una contro-storia dalle diverse intonazioni, ma sempre più tangibile, più luminosa, più vera di tanta realtà spesso oscura, se non inconoscibile: nel segno di quelle verità del vivere (pubblico e privato) che, attraverso la letteratura, alla vita stessa ritornano.
De Roberto narra le vicende di un’antica, nobile e potentissima famiglia catanese, gli  Uzeda di Francalanza, di origini spagnole, in un arco temporale che va dal 1855 al 1882, quasi in presa diretta: dalla fine del dominio borbonico alle prime elezioni a suffragio allargato del nuovo Regno unito.
Una storia genealogica (di una genealogia aperta, che sempre trova nuova linfa, nella sua immutabilità) dentro la storia siciliana e italiana, e che si apre con la morte e i funerali della principessa Teresa, la dispotica decana di casa Uzeda.
Una che «sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti», e il cui testamento reca i segni inequivocabili di una volontà di dominio economico, di una sete di potere che si mutano in destino.
Un personaggio centrale, dominante, quello della principessa Teresa; presente proprio perché assente, paradossalmente. E la sua morte, i suoi funerali, già prima del loro apparire sulla scena, offrono un accesso immediato ad un singolare teatro di umanità: dove dal frenetico chiacchiericcio dei vari subalterni (cocchieri, famigli, affittuari…) – prima ancora che da quello dei parenti o delle autorità civili ed ecclesiastiche – prendono forma le fattezze dei vari Uzeda.
Ed eccoli, gli esemplari di quella razza padrona e capricciosa, ignorante e spregiudicata: il principe Giacomo (il primogenito della principessa Teresa), che impugna e modifica il testamento materno, ricatta gli altri eredi, si mette contro il fratello, il contino Raimondo; il quale dal canto suo dissipa il patrimonio, perseguita la moglie (impostagli dalla madre) e sposa l’amante.
E ancora, gli altri figli della principessa Teresa: Lodovico, che (obbligato al convento) si dedica cinicamente alla carriera ecclesiastica; Ferdinando, con le sue fissazioni che finiscono per scivolare nella follia; Chiara, la cui ossessione di maternità si spegne in un parto mostruoso; Lucrezia, che sposa un ricco avvocato, il quale cura le speculazioni degli Uzeda, ricevendone però solo delusioni.
E poi i fratelli della principessa Teresa: don Blasco (costretto a farsi frate, litigioso e donnaiolo), che da ferocemente borbonico fa presto a convertirsi alle idee del nuovo Regno, coniugando gli affari col potere (ridotto allo stato laicale, dopo la soppressione di tante istituzioni religiose, accumula una consistente fortuna speculando sui beni di provenienza conventuale e sui titoli di stato); come suo fratello, il duca di Oragua, che riesce a spacciarsi per liberale e a farsi eleggere deputato del Regno, a dar corso ad un suo emblematico convincimento: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri».
Per arrivare a Consalvo, il figlio del principe Giacomo: che rinnova le tradizioni di famiglia, da abilissimo stratega della finzione e del tradimento, diventando anch’egli deputato. E dando così voce ad una feroce ideologia del potere, della conservazione del potere: cristallizzata, quell’ideologia, nel famoso comizio (un distillato di micidiale retorica) che il rampollo degli Uzeda tiene davanti ad un vasto pubblico, e che gli spalanca le porte del parlamento di un’Italia oramai unita, ma tutt’altro che nuova. 
La principessa Teresa e Consalvo, dunque. Che aprono e chiudono il romanzo, rispettivamente; e che ne portano tutto il senso, l’attualità sempre viva. E sono anche, nonna e nipote, nel loro pensare e agire, spie di una feudalità antica, storica, e di una feudalità familiare. E queste feudalità finiscono per coincidere, così rinnovandosi; ma sempre mimetizzandosi, sempre rimanendo nascoste, come se ogni volta trovassero nuovi canali carsici.
E se De Roberto è lo scrittore della disperazione nella Storia (diceva Sciascia), se I Viceré è un romanzo antistorico, un processo alla storia di delusioni e nequizie (la mistificazione risorgimentale, il trasformismo, il conformismo, la demagogia, il cambiare tutto perché nulla cambi, quella mistificante retorica che avrebbe alimentato le illusioni patriottiche e coloniali, fino al fascismo, e che si sarebbe ritrovata, riscoperta nell’Italia delle mafie, delle stragi, dei misteri irrisolti); se è, la saga degli Uzeda, anche una lucida e spietata inquisizione del presente; se I Viceré è insomma tutto questo, l’abilissima invisibilità di De Roberto tra i suoi personaggi, tra le loro storie (che sono soprattutto il racconto di un modo di essere, di stare al mondo; che danno consistenza, soprattutto, ad uno strisciante utilitarismo), svela invece la felicità della scrittura del grande narratore.
Già in apertura di romanzo, laddove De Roberto illumina il lato oscuro, egolatrico, di quella sorta di religione della famiglia che Verga aveva celebrato nei Malavoglia.
Dissacrandola, alla fine, quella religione: i valori di Padron ‘Ntoni e famiglia diventano disvalori con gli Uzeda, con quella razza avida, che vive nell’ossessione del potere e del sesso.
Una razza i cui membri sono spesso in guerra tra loro, ma sempre si ritrovano uniti nel perseguire e rafforzare il potere della famiglia, a favorirne l’ascesa.
Un familismo eletto a vero e proprio sistema di vita, che De Roberto – da rigoroso anatomopatologo qual è – consegna al lettore. Insieme ad una società che dovrebbe essere nuova, e che invece nuova non è, e che non è neanche una società: dove non di rado è l’inautenticità a regolare i rapporti umani, a dettare le regole dell’esistenza.
«Un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore», aveva chiosato Benedetto Croce a proposito de I Viceré. Per nulla accorgendosi della luce di quel grande romanzo, ovvero della capacità che esso ha di illuminare l’intelletto, e di sollecitare il cuore.
Semplicemente parlando dell’uomo, del mondo. Semplicemente mostrando alcune pagine – tra le più lucidamente fosche, tra le più goyesche – di quella negatività, di quel male che della vita, del mondo, dell’uomo sono parte integrante e ineludibile.
Sempre. «No, la nostra razza non è degenere: è sempre la stessa», dice Consalvo alla zia Ferdinanda, alla fine. Ed è, la luce de I Viceré, potentemente corrosiva e demistificatoria.

 

Giuseppe Giglio

Giuseppe Giglio  vive a Randazzo (CT). È un giovane critico letterario. Si occupa soprattutto di letteratura del Novecento, nel segno di un’idea di critica letteraria come critica della vita.
Ha pubblicato articoli e saggi su periodici letterari e quotidiani come “Stilos”, “Polimnia”, “Pagine dal Sud”, “l’immaginazione”, “Il Riformista”.È tra gli autori del volume miscellaneo Leonardo Sciascia e la giovane critica, uscito nel 2009 presso Salvatore Sciascia Editore.
Con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2010, I piaceri della conversazione.
Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico. Con questo libro ha vinto il premio “Tarquinia-Cardarelli” 2010 per l’opera prima di critica letteraria.
È una delle firme de “Le Fate”, una nuova rivista siciliana di arte, musica e letteratura. Scrive su “Fuori Asse”, una rivista letteraria torinese on-line. Fa parte della redazione di “Narrazioni. Rivista quadrimestrale di autori, libri ed eterotopie”, un periodico nato nel Dipartimento di Filosofia, Letteratura, Scienze Storiche e Sociali dell’università di Bari, ma fatto da giovani critici non strutturati, e con l’ambizione di porsi come un osservatorio sul romanzo contemporaneo. Scrive anche sulle pagine della cultura del quotidiano “La Sicilia”.

 

Guar­da­re e (ri) sco­pri­re la Si­ci­lia at­tra­ver­so gli scat­ti di De Ro­ber­to

        É a Ran­daz­zo, se­con­do Leonardo Scia­scia, che lo scrit­to­re emer­ge come fo­to­gra­fo.
Qui co­glie la pro­spet­ti­va del­le vie «che de­li­nea­no que­sto pae­se nel­l’al­tu­ra», come nel­lo scat­to del­le case di via Fur­na­ri, la Vol­ta di via de­gli Uf­fi­zi o la Por­ta Ara­go­ne­se.
Tra i se­mi­na­ri or­ga­niz­za­ti per la de­ci­ma edi­zio­ne del Med Pho­to Fest 2018, Ro­sal­ba Gal­va­gno, do­cen­te di cri­ti­ca let­te­ra­ria e let­te­ra­tu­re com­pa­ra­te pres­so il Di­par­ti­men­to di Scien­ze Uma­ni­sti­che, ha ri­co­strui­to un iti­ne­ra­rio in Si­ci­lia at­tra­ver­so lo sguar­do di Fe­de­ri­co De Ro­ber­to, nel­le ve­sti non solo di scrit­to­re ma an­che di fo­to­gra­fo, come te­sti­mo­nia­no gli scat­ti pre­sen­ti nel­la gui­da del­la cit­tà di Ran­daz­zo e la Val­le del­l’Al­can­ta­ra pub­bli­ca­ta nel 1909.
Lo scrit­to­re si  av­vi­ci­na alla fo­to­gra­fia  al­l’in­cir­ca al­l’e­tà di ven­t’an­ni  con una «tec­ni­ca che tra­sfor­ma­va in con­ti­nua­zio­ne la­stre ed obiet­ti­vi».

A cau­sa del­la guer­ra e del bom­bar­da­men­to che di­strus­se il pa­laz­zo pre­sen­te tra la via Et­nea e la via San­t’Eu­plio, di­mo­ra ca­ta­ne­se del­lo scrit­to­re, nes­sun ori­gi­na­le è giun­to a noi. Quel che però emer­ge dal­le po­che im­ma­gi­ni è che «po­ne­va at­ten­zio­ne per rea­liz­za­re ser­vi­zi fo­to­gra­fi­ci per­fet­ti»

Leonardo Sciascia a Randazzo – Foto di Ferdinando Scianna 1964

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Nel­l’ar­ti­co­lo “San Sil­ve­stro da Troi­na” pub­bli­ca­to nel­l’a­go­sto del 1908 su “Let­tu­ra”, men­si­le il­lu­stra­to del Cor­rie­re del­la Sera, De Ro­ber­to «ri­vi­ve con le pa­ro­le quel­lo che si tro­va nel­le im­ma­gi­ni»: l’e­ven­to del­la pro­ces­sio­ne, un tema ama­to, pre­sen­te an­che in “Ran­daz­zo” e ne “I Vi­ce­ré”, che rien­tra nei ser­vi­zi di cro­na­ca mon­da­na di cui si era oc­cu­pa­to da fo­to­re­por­ter.
       Dal­le let­te­re in­via­te a Cor­ra­do Ric­ci emer­ge il suo in­te­res­se per la Si­ci­lia e i suoi luo­ghi, dal­le cit­tà ai ca­stel­li et­nei, alle iso­le Eo­lie che de­fi­ni­sce «iso­le di Dio».
Un’at­ti­vi­tà che uni­sce ri­pro­du­zio­ne fo­to­gra­fi­ca e re­to­ri­ca, in cui il let­to­re vie­ne gui­da­to at­tra­ver­so uno sguar­do sto­ri­co, este­ti­co e poe­ti­co. De Ro­ber­to fo­to­gra­fa pa­laz­zi, bal­co­ni, co­glie il sen­so del­la con­no­ta­zio­ne fi­si­ca dei luo­ghi, og­get­ti su cui si do­cu­men­ta ac­cu­ra­ta­men­te pri­ma de­gli scat­ti.
É a Ran­daz­zo, se­con­do Scia­scia, che De Ro­ber­to emer­ge come fo­to­gra­fo.
Qui co­glie la pro­spet­ti­va del­le vie «che de­li­nea­no que­sto pae­se nel­l’al­tu­ra», come nel­lo scat­to del­le case di via Fur­na­ri, la Vol­ta di via de­gli Uf­fi­zi o la Por­ta Ara­go­ne­se. Fo­to­gra­fa la Fe­sta del­l’As­sun­ta, il cam­pa­ni­le di San Mar­ti­no, le Bal­ze di San Do­me­ni­co, le fi­ne­stre, come quel­le di via Gra­na­ta­ra, aper­tu­re da cui si af­fac­cia­va­no i so­vra­ni che pas­sa­va­no da Ran­daz­zo, una cit­tà ric­ca di ele­men­ti sto­ri­ci, di cui De Ro­ber­to pro­va a cat­tu­ra­re l’at­mo­sfe­ra sto­ri­ca e me­die­va­le.
Ne emer­ge un iti­ne­ra­rio si­ci­lia­no che ha su­sci­ta­to nel­la mag­gior par­te dei pre­sen­ti la cu­rio­si­tà di vi­si­ta­re, o ri­vi­si­ta­re, la cit­tà di Ran­daz­zo, ma­ga­ri scat­tan­do qual­che fo­to­gra­fia.

 DA­NIE­LA MAR­SA­LA

 

Le relazioni nascoste di Federico De Roberto

    di Antonino Cangemi

La vita di Federico De Roberto non fu certamente facile; né facile fu il suo rapporto con le donne. Afflitto da frequenti stati depressivi, che lo debilitavano anche fisicamente e ne spegnevano gli entusiasmi, alternati a momenti di vitalità e di euforia, oggi De Roberto sarebbe definito un “bipolare”. Le relazioni col “gentil sesso” furono condizionate, oltre che dagli ondivaghi moti dell’umore, dalla presenza di una madre possessiva e invadente, Marianna Asmundo Ferrara. Tuttavia, nell’esistenza turbolenta e avara di felicità dell’autore de I viceré, non mancarono amori “clandestini”.

Ricerche recenti sull’epistolario di De Roberto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Catania  mettono in luce la relazione segreta tra De Roberto ed Ernesta Valle. Ne apprendiamo i particolari grazie al minuzioso lavoro di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla che hanno curato Si dubita sempre delle cose più belle. Parole d’amore e di letteratura, un libro poderoso (2144 pagine, 764 lettere, tantissime immagini a corredo) edito da Bompiani (2014) che, riscoprendo il carteggio tra i due amanti, getta squarci sulla complessa figura di De Roberto, sul suo problematico rapporto con le donne, sulle sue ambizioni letterarie e giornalistiche soffocate a Catania e proiettate su Milano.

Federico De Roberto conosce Ernesta Valle nel salotto milanese di casa Borromeo. Un salotto meta dei più acclamati scrittori, giornalisti, editori dell’epoca: lo bazzicano personalità dal rilievo di Eugenio Torelli Viollier, Luigi Albertini, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Ugo Ojetti, Arrigo Boito, Emilio e Giuseppe Treves. È il 29 maggio del 1897, De Roberto ha trentasei anni, ha già pubblicato quello che si rivelerà essere il suo capolavoro, I vicerè, e a Milano cerca di affermarsi nel mondo del giornalismo (un contratto di collaborazione lo lega ad Albertini e al suo Corriere) e di frequentare i protagonisti dell’editoria e della cultura, letteraria e artistica. Nella mondanità meneghina quel siciliano talentuoso e ambizioso, qual è Federico De Roberto, non passa inosservato: i suoi eclatanti baffi a manubrio accompagnati dall’immancabile monocolo adagiato sull’occhio destro gli hanno fatto conquistare l’appellativo scherzoso di “Lord Caramella”.
Ernesta Valle è sposata con l’avvocato messinese Guido Ribera, ha ventun anni,  un bambino di cinque anni da accudire, e allo splendore della giovinezza unisce l’eleganza di chi è avvezza alla vita mondana. Ernesta si fregia del titolo di contessa (non si sa bene quanto autentico), è nata nel 1876 a Ventimiglia, da Giuseppe Valle, un impiegato di Valle Lomellina, e da Adelaide Corradi. Avvenenza, femminilità, savoir-faire e un buon matrimonio  le hanno spianato la strada introducendola nella borghesia notabile della Milano del tempo.

L’incontro con Ernesta Valle per Federico De Roberto è un colpo di fulmine. Tanto da scrivere: ‹‹Da quel giorno, voglio dire da quella sera, cominciò la mia felicità››. Da quella sera di maggio esplode la sua passione. Che genera un profluvio di lettere:  palpitanti, focose, ardenti; ma anche rivelatrici di ambizioni e stati d’animo e con più di un richiamo alla letteratura. Come si conviene in ogni storia d’amore i due amanti si chiamano tra di loro con uno o più vezzeggiativi. Per De Roberto Ernesta Valle è Renata, a simboleggiarne la rinascita all’amore e nell’amore, ma anche Nuccia, diminutivo di “femminuccia”, perché in lei risiede la quintessenza di una femminilità prospera e procace; per Ernesta Valle De Roberto è Rico, la parte finale del suo nome di battesimo.

Nel suo spostarsi tra Milano e Catania Rico tiene sempre vivo il legame con Renata grazie a una corrispondenza fitta, accesa e meticolosa. Che talvolta trabocca di carica erotica: ‹‹Tutta nuda nell’anima come l’ho vista e tenuta e baciata e bevuta e goduta tutta nuda nel corpo adorato e divino›› (i due passeranno al tu dopo cinque mesi), in una prosa da romanzi rosa d’appendice che lo scrittore avrebbe aborrito: ‹‹Mi pare che sia tuo il sangue che mi scorre nelle vene, non ho più personalità››. Altre volte rivela abbandoni sentimentali e richiami a un amore sublimato nella sua purezza con un eccesso di enfasi che sbalordirebbe se non si pensasse che a vergare quelle frasi sia un uomo innamorato: ‹‹O Cuor dei cuori, quando tu mi dici di partire il moto della mia obbedienza è così pronto che io vorrei già essere sotto un altro cielo››. Altre volte ancora le lettere fanno da cronaca alle tappe dei loro incontri, con puntualità ossessiva, illustrando i luoghi dei furtivi appuntamenti: via Romagnosi, dove ha sede il salotto che li ha fatti conoscere, via Jacini, via Pietro Verri, Porta Volta, Crescenzago, i caffè, i teatri, soprattutto la Scala.

Le lettere di Rico e Renata, tuttavia, non danno sfogo solo a desideri carnali (vivissimi nello scrittore), a spinte erotiche e a sentimentalismi vari, ma palesano anche intese su argomenti letterari e De Roberto si prodiga a consigliare all’amante le migliori letture: ‹‹Ti ho mandato altri libri. Non so quali sono quelli che tu non conosci, tra quanti ne posseggo. Desideri leggere altre novelle di Maupassant? Io le ho tutte. Ho tutto Zola: dimmi se qualche cosa di lui ti riesce nuova. E di Daudet? E dei Goncourt? Conosci i famosi romanzi russi: La Guerra e la Pace di Tolstoj; Anna Karenina pure di Tolstoj; il Delitto e il Castigo di Dostoevskij? Vuoi qualche cosa di Giorge Sand, di Balzac? Conosci le novelle fantastiche di Poe? Aspetto, per la prossima spedizione, che tu mi dica delle tue preferenze›› (Catania, 6 gennaio 1898). Rico le fa leggere pure alcune sue opere, tra queste I vicerè la cui protagonista si chiama, guarda caso, Renata e che provoca nell’amante moti di gelosia. Ernesta Renata gli scrive: ‹‹Si può essere anche gelosi del passato››. 

Un amore segreto quello tra Rico e Renata, un uomo incapace di ribellarsi alla tirannia edipica della madre, e una donna legata al marito e agli agi della vita salottiera che le è concessa. E come nelle relazioni nascoste i due amanti conoscono mille sotterfugi per scambiarsi le lettere, a mano o in fermo posta, talvolta custodite dentro libri, altre precedute da avvertimenti in codice.

Ma tra i due amanti si avvertono le presenze delle persone a cui sono legate: la madre per Rico, il marito per Renata. Presenze forti, ingombranti, determinanti. Gli escamotage studiati e provati a garanzia della clandestinità della loro relazione hanno effetto? Nulla sanno o percepiscono di quel rapporto donna Marianna Asmundo Ferrara e Guido Ribera? Pare proprio che, malgrado tutte le strategie di occultamento messe in atto dai due amanti, l’eco della loro passione per un verso o per l’altro gli giunga. Tant’è che la madre padrona, ‹‹un bene che mi soffoca e mi strozza››, riesce a far battere in ritirata il figlio in preda all’ardore amoroso. La madre gli scrive lamentandosi della lontananza e invitandolo (anzi intimandolo) a tornare a Catania, ‹‹perché è già molto tempo che sei fuori casa, perché viene l’inverno e tu sai che d’inverno ho bisogno di compagnia››. E l’avvocato Ribera compare pure nell’epistolario con missive assai prosaiche: raccomandazioni da rivolgere all’editore Treves, richieste di prestiti.

Ubbidiente al richiamo della madre, De Roberto ritorna a Catania. La città dell’Etna, nel raffronto con la febbrile e mondana Milano, gli appare in tutta la sua angustia, pigra e sonnolenta, prigione della sua anima esacerbata e soffocata nel suo male oscuro: ‹‹È una malattia morale e non lieve – scrive all’amante riferendosi al suo spleen – Mi sento troppo vuoto, troppo contrariato, troppo sbalestrato, troppo avvilito››. Adesso la lontananza fisica di Renata accentua in Rico il desiderio di intimità con lei e l’inchiostro della scrittura cerca di suggellare e far rivivere i momenti di passione vissuti insieme.

Lettera di Federico De Roberto a Renata (19 Marzo 1899)

De Roberto (Rico) continuerà a scrivere alla Valle (Renata) confidandole i suoi progetti letterari. Renata pare assurgere in certi momenti a “musa” ispiratrice. A lei nel 1899, due anni dopo averla conosciuta, aveva dedicato la prefazione de Gli amori: in modo velato, indicando solo le sue iniziali ‹‹a R.V.››; accorgimento che però non era servito ad aggirare la gelosia del marito che in una lettera gli volle ironicamente precisare che  R.V. era la signora Ribera-Valle. A Renata si rivolgerà dopo, tra il 1900 e il 1902, per confidarle i suoi progetti di scrittura. Si era già confrontato con l’amante per il romanzo drammatico Spasimo, accogliendo i suoi suggerimenti di rendere quel testo ‹‹troppo pensato›› più ‹‹parlato››, e riconoscendole il merito di averlo spronato nello scriverlo in uno adattamento ‹‹più rapido e movimentato››. A Renata confesserà il suo proposito di chiudere la trilogia degli Uzeda, inaugurata con l’Illusione nel 1891 e proseguita con I vicerè nel 1892, con L’Imperio, che non farà in tempo a pubblicare e che uscirà postumo nel 1925. A proposito de L’Imperio Rico scriverà a Renata, il 3 giugno del 1902, una lettera piena di sconforto: ‹‹Ho preso pure il manoscritto del romanzo che doveva far seguito ai Vicerè… Faccio questo tentativo di ritorno all’arte senza fede e senza neppure altra speranza che quella di ricavare, chi sa quando, un migliaio di lire del lavoro di chi sa quanto tempo. È questa è la mia vita, propriamente degna d’essere strozzata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pensiero e la speranza di Nuccia››. Già, quando De Roberto scrive quella lettera, la relazione con Renata volge al declino, come testimonia il carteggio tra i due amanti che copre un arco di tempo racchiuso tra il 1897 e il 1902, con qualche appendice sino al 1916.

De Roberto è chiuso nella sua malinconica angoscia, mitigata ma non scalfita dal ricordo di un amore lontano, nello spazio e nel tempo, in una città, Catania, che non ama e che anzi definisce ‹‹l’odiato e aborrito paese››. Passeranno altri anni e il cuore dello scrittore catanese s’invaghirà di un’altra donna, anche lei sposata e legata a una grande città, questa volta Roma. L’ennesimo tentativo di evadere da una Catania per lui claustrofobica? La donna si chiama Pia Vigada, e con lei De Roberto intrattiene un carteggio amoroso che va dal 1909 al 1013. Malgrado il peso degli anni, anche in questo epistolario De Roberto, considerato per alcuni suoi scritti “misogino”, si conferma amante focoso e veemente, e non privo di tenerezze. Un gesto di tenerezza è, ad esempio, quello, in lui usuale, di inviare all’amata dolci tipici di Sicilia e agrumi. Ma De Roberto è anche un uomo geloso, sino al parossismo, in preda a una spiccata sensualità. Come dimostra questo singolare passo di una lettera a Pia Vigada: ‹‹Spiegami che il tuo corpo, le tue forme, la tua carne sono chiuse ermeticamente. E che solo un giorno le tue mani febbrili potranno dischiudere cotanto tesoro…››.
Ma torniamo alla storia di Rico e di Renata che, stando al carteggio di cui oggi si dispone, pare sia macchiata da un epilogo tutt’altro che romantico. Nel 1916, quando la corrispondenza tra i due si è da tempo interrotta e il silenzio ha ormai sepolto un amore ricco di illusioni e di speranze svanite, Renata torna a farsi viva con una lettera di inaspettata aridità e ineffabile opportunismo. In essa l’amante di un tempo implora Rico di versarle una congrua somma di denaro per sollevare il figlio da non ben precisati problemi economici. In realtà, pare che dietro quella cinica richiesta si nasconda una squallida vicenda di corruzione legata (siamo negli anni del primo conflitto bellico) al tentativo di tenere il figlio lontano dal fronte.

Si chiude così, con un finale amaro e beffardo, la storia d’amore che più coinvolse Federico De Roberto. La cui immagine ci torna alla mente nel ritratto che di lui scolpisce la penna di Vitaliano Brancati: un uomo sempre solo, a spasso per la via Etnea con la sua inguaribile angoscia, chiuso dentro la sua ‹‹pesante armatura di onestà››.

Dialoghi Mediterranei, n. 15, settembre 2015

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Domenico Scalisi

 

Mi chiamo Domenico Scalisi, classe 1986, randazzese!

Sin da bambino il disegno è stato la mia più grande passione, ho approfondito i miei studi all’Accademia di Belle Arti di Catania e in vari corsi di pittura e scultura, in altre città d’Italia!
Oggi mi occupo di illustrazione e modellazione, scarabocchio con pastelli, acquerelli ed espongo le mie opere in varie gallerie d’arte, maggiormente negli Stati Uniti.
Ciò che apre il sipario della mia immaginazione è una corrente artistica oggi riconosciuta, il pop-surrealismo che, con il mix di varie arti e ispirazioni, è uno specchio della contemporaneità.
Esso ha origine dalla contaminazione di diversi linguaggi visivi mescolati tra loro: il fumetto, i tatuaggi, la science fiction, il cinema, il folklore, il rock & roll e molto altro ancora.
Nel 2009 ho scoperto le paste polimeriche che mi hanno portato in un mondo fantastico fatto di bambole e burattini (o meglio definite “ooak”, acronimo che sta per l’inglese “one of a kind” e significa pezzo unico) nel quale mi ci sono immerso e che non ho mai abbandonato! Si tratta di argilla sintetica termoindurente con la quale dò forma a personaggi bizzarri e surreali.
Ho passato anni ad ideare e scarabocchiare strane creature che non vedevano l’ora di prendere una forma tridimensionale e poter trasmettere sentimenti, emozioni e ossessioni.
I miei personaggi hanno sembianze antropomorfe per cui nelle mie creazioni vedrete vari oggetti di uso comune e non, cibi o vegetali con sembianze umane come se fossero usciti da una favola o da un film di animazione, considerando il mio interesse verso il fantasy e per tutto ciò che è decadente.
L’animazione sarà uno dei miei prossimi obbiettivi avvicinandomi alla tecnica cinematografica dello Stop Motion! Si tratta di lavorare su singoli fotogrammi che insieme racchiudono movimenti ed espressioni, animandoli poi in un corto finale.

Nel 2012 è nato il mio marchio: Nobu Happy Spooky  (<nobuhappyspooky@gmail.com>)

Con esso ho partecipato a varie mostre, accanto ad artisti per me importantissimi e ciò mi rende molto orgoglioso!
Tra le più importanti:

– (2015) ROTOFUGI GALLERY (CHICAGO): The Nightmare in Wonderlnd “Part 0” 

– (2015) DISTINCTION GALLERY (ESCONDIDO – CALIFORNIA): The Nightmare in Wonderlnd “Part 2” 

– (2015) PINK ZEPPELIN GALLERY (BERLINO): The Nightmare in Wonderlnd “Part 3” 

– (2015) THE GOOD GOAT GALLERY (LAKEWOOD – OHIO): Six Degrees of Vincent

– (2015) THE GOOD GOAT GALLERY (LAKEWOOD – OHIO): Lucha Libre Meets the Dead

– (2016) THE GOOD GOAT GALLERY (LAKEWOOD – OHIO): Harold Loves Maude

– (2016) EDGAR ALLAN POE MUSEUM (RICHMOND – USA): a POEtic Tribute 

– (2016) CACTUS GALLERY (LOS ANGELES): Dollmakers V 

– (2016) LUCH ART GALLERY (LATINA-ITALIA): 3D MASTER 

– (2016) CACTUS GALLERY (LOS ANGELES): Tiny Treasures XI 

– (2017) CLUTTER GALLERY (NEW YORK): They Came from Planet Rainbow Sparkles 

– (2017) CACTUS GALLERY (LOS ANGELES): Dollmakers VI 

– (2017) CACTUS GALLERY (LOS ANGELES): Dia De Los Muertos X

– (2017) CACTUS GALLERY (LOS ANGELES): Tiny Treasures XII

    Nel 2018 ho pubblicato il mio primo libro illustrato: “IL DIARIO DI VICTOR FRANKENSTEIN”  grazie alla casa editrice Bakemono Lab 

IL DIARIO DI VICTOR FRANKENSTEIN
di Jessica Ravera
Illustrazioni: Domenico Scalisi

Il diario di Victor Frankenstein
liberamente tratto dal romanzo di Mary Shelley
Scritto da Jessica Ravera
Illustrato da Domenico Scalisi

Morte, vita, morte. Non c’è vita senza morte e non c’è morte senza vita.
Due facce della stessa medaglia, due parti uniche e inscindibili.
La stessa materia. La stessa sostanza. Lo stesso stato.
Ciò che cambia è solo il passaggio da una all’altra, il senso unilaterale.
Si passa dalla vita alla morte, mai, mai, mai il contrario.
Non può avvenire il contrario! Non deve avvenire!
Va contro la legge degli uomini.

Se l’essere umano per evolversi ha infranto molte leggi, allora perché?
Perché non è contemplabile anche il contrario?

 

 

 

Il catanese Domenico Scalisi racconta l’arte Creepy Cute: “Un misto tra macabro e dolce”

14 marzo 2018

Rosario Gullotto

Domenico Scalisi, 31 anni, originario della provincia catanese, è un artista del surreale. La Creepy cute art gli ha permesso di raggiungere i primi significativi traguardi nel panorama artistico internazionale.

Quando immaginiamo l’arte, nei suoi mille scenari possibili, guardiamo spesso al passato, vivendo il presente come povero di idee e di bellezza. È uno stereotipo che si è declinato variamente nel corso della storia dell’arte.

Ma anche i moderni, nella loro piccola o grande dimensione, ci riescono spesso a regalare idee originali e a creare correnti artistiche di successo… come la Creepy cute (traducibile in italiano come Raccapricciante bellezza), una forma d’arte che abbiamo tutti conosciuto grazie ai film in stop-motion Nightmare before Christmas e La Sposa cadavere, entrambi prodotti da Tim Burton. Caratteristica principale è modellare il macabro esaltando la bellezza della forma. Ecco che soggetti atipici come uno scheletro o un cadavere possono prendere sembianze dolci e lineamenti armonici, creando un contrasto orrido-bello affascinante quanto misterioso.

L’artista catanese Domenico Scalisi può essere considerato a tutti gli effetti un esponente nostrano di questa nuova arte. Classe 1986, illustratore e scultore del surreale, Domenico si è formato all’Accademia delle belle arti di Catania, anche se lasciata per inseguire il suo sogno in Italia e nel mondo.

Ci racconta di sé: “Ho scelto questo stile chiamato Creepy cute, un misto tra macabro e dolce, perché rispecchia la mia visione poetica del mondo circostante, una visione insieme grottesca e gotica dell’esistenza. Il tutto centrato sull’antropomorfismo, per cui nelle mie creazioni vedrete vari oggetti di uso comune e non, con sembianze umane… Ogni forma può prendere vita!”.

Un’operazione di per sé complessa, perché si tratta di dare corpo (e anima) ad oggetti che ne sono privi. “È un po’ come vivere una favola. – continua– Immagini questi oggetti prendere vita e muoversi come fossero un essere umano. E poi è uno stile già presente da secoli nell’arte umana, sotto diverse forma, anche letterarie, basti pensare ai miti o le leggende che vedono mescolati insieme uomini e animali o uomini e oggetti naturali/fisici”.

Una propensione verso questo stile che nasce quasi istintiva nell’arte di Domenico, che ci spiega: “Ho sempre disegnato, fin da piccolo, fino a quando non ho pensato di dare una forma 3D alle mie immagini e quindi ho iniziato a modellare i miei personaggi. L’ultimo passo sarà quello di dare vita ai miei disegni, tramite computer e la tecnica dei cortometraggi in stop-motion”. Si tratta di lavorare su singoli fotogrammi che insieme racchiudono movimenti ed espressioni, animandoli poi in un corto finale.

Essenziale poi, per la vita di un artista, è il riconoscimento da parte del pubblico. “Ho iniziato con le fiere del fumetto, – ci racconta – ma lì non riuscivo a sentirmi artisticamente soddisfatto, perché finivo con il riprodurre personaggi non miei, diventava come un limite. Allora mi sono deciso ad esporre nelle gallerie d’arte commerciali, come la Rotofugi Gallery di Chicago (ormai 3 anni fa), e in varie gallerie di Los Angeles e Ohio; mentre in Europa ho esposto a Berlino. Qui è imposto solo il tema mentre le creazioni sono totalmente lasciate all’ispirazione personale. Inoltre, il contatto con altri artisti e l’acquisto delle opere da parte dei collezionisti mi permette di ricevere i meriti e le soddisfazioni indispensabili per comprendere la direzione da seguire”.

Tre anni fa la prima mostra in galleria e la prima opera chiamata The creator of nightmares, ovvero Il creatore di incubi in italiano, a cui Domenico si sente particolarmente legato: “In quest’opera ci sono io che manovro due burattini, uno dei quali conficca dei chiodi negli occhi dell’altro: appunto crea un incubo.
E questa immagine, così crudele ma esemplificativa, è tratta da una poesia di Tim Burton intitolata ‘Il bambino con i chiodi negli occhi’. Il tema della mostra era proprio un tributo al regista e l’ho voluto realizzare immergendomi io stesso in una sua poesia. Anche il dettaglio della pittura è un chiaro riferimento a lui: la base è una scacchiera in bianco e nero, che insieme con le spirali è un topos dell’arte grafica di Burton”.

“Inoltre, – continua Domenico – voglio far notare l’espressione né crudele né impaurita, bensì malinconica del protagonista, in contrasto con l’incubo da lui creato”. È questa capacità espressiva di contrasto una caratteristica essenziale e tipica delle sue opere, che si richiamano oltre a Tim Burton anche ad autori vari come il pittore Mark Ryden e il regista messicano Guglielmo Del Toro.

Un inizio di successo che non ha fatto perdere all’artista il legame con la sua terra, come ci dice lui stesso: La Sicilia la porto dentro di me e mi piacerebbe un domani poter portare la mia arte proprio nella mia terra natia, dove il genere che uso non è ancora conosciuto”.

Lo studio – conclude Domenico – è fondamentale! Insieme con la tenacia, la volontà di mettersi in discussione e sperimentare sempre nuove espressioni, per differenziarsi da ciò che già si vede in giro. Fare di tutto per farsi conoscere è il consiglio più importante che sento di dare a chi come me è partito da zero nel mondo dell’arte”.

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Make Up post cottura, sperimentare e sperimentarsi: parla Nobu Happy Spooky!

Nuova interessante intervista per chi vuole dare un tocco in più alle proprie opere…il make up, ossia la decorazione della propria creazione dopo la fase cottura.

Abbiamo già visto nell’intervista con Martinarte che uno dei modi per dipingere la propria creazione in Fimo è la stesura a strati di acrilico e colla vinilica in maniera totalmente coprente per poi dipingere con acquerelli e tempera ( link: https://lafigliadelbrigante.wordpress.com/2013/02/10/larte-di-inventarsi-la-propria-arte-lesperienza-di-martina-de-pellegrin-in-arte-martinarte/ ), tuttavia questa nuova intervista avrà lo scopo di trattare una tecnica per mantenere il più possibile lo sfondo del colore originale del fimo per poi attuare un vero e proprio ” make-up”, una seduta di trucco che darà personalità all’opera.

Maestro di questa tecnica è Domenico Scalisi, in arte Nobu Happy Spooky, il quale afferma che una volta cotte le sue creazioni sono appena a metà dell’opera! Nobu ha inoltre avuto l’abilità di creare un mondo completamente suo, che prende ispirazione dalle sue muse, registi, pittori e scultori, ma con uno stile innovativo che lo rende immediatamente riconoscibile  e che riesce anche a impregnare i suoi soggetti di un’ anima vibrante e quasi viva…raggiungendo così uno dei traguardi più ambiti di qualunque creativo!

Raccontaci del cammino che ti ha reso l’artista che sei ora, le decisioni cruciali, le strade intraprese, insomma, tutto ciò che ti ha portato ad essere te stesso oggi.

Ognuno di noi nasce per diventare qualcuno, per trovare la strada per inseguire un sogno. Non esiste un momento preciso in cui ho deciso di dedicarmi all’arte. Sin dalla prima infanzia mi rifugiavo nel mio mondo fatto di pastelli colorati e plastilina. Ho studiato all’Accademia di belle arti ma mi definisco comunque autodidatta dato che mi occupo di tutt’altro rispetto ciò che studiavo!

Il mio primo amore è sempre stato il disegno, e ho partecipato a molte mostre di pittura e illustrazione. Solo da qualche anno ho sentito la necessità di rendere reali le mie creature dando loro una vita tridimensionale. Ciò che creo mi fa sentire realizzato al 100% poichè ho scoperto che questo è il miglior mezzo con il quale esprimermi attraverso le mie opere.

Nonostante questo sono sempre alla ricerca di materiali nuovi da sperimentare. Passo molto tempo libero tra gli scaffali dei negozi di belle arti perchè credo che oltre alle idee servano i giusti mezzi per metterle in pratica… e così un giorno di molti anni fa sono stato attratto da quei panetti colorati e mi si è aperto un mondo… dal quale non sono più riuscito a staccarmi!

I tuoi soggetti e il tuo stile ti hanno caratterizzato fino dall’inizio della tua pagina…sono nati dopo aver cominciato a lavorare in 3D o erano già ben vivi nella tua testa?

Inizialmente, come credo tutti, creavo soggetti molto semplici, personaggi molto stilizzati, spesso ispirati alla moda kawaii del Giappone… Subito dopo aver afferrato le prime basilari tecniche di lavorazione  ho però dato vita ai miei primi mostriciattoli dato che all’epoca ero molto in tinte gotiche! Creavo insieme alla mia attuale compagna ed insieme abbiamo intrapreso la stada dell’handmade, aiutandoci e consigliandoci a vicenda, partecipando a varie esposizioni artigianali, sagre e mercatini natalizi.

 

La mia pagina è nata dopo qualche anno di esperienza col fimo, quindi prima ho sviluppato uno stile (tutt’ora e sempre in fase di evoluzione e miglioramento) e successivamente ho debuttato sul web!

I miei personaggi sono sempre nati dai miei disegni, anche perchè credo che ciò diviene un valido supporto per mostrare con estrema precisione quello che voglio realizzare modellando… ed è proprio così che come per magia posson prendere forma staccandosi dal foglio di carta! Inutile dire che tutte le forme d’arte sono connesse tra di loro… io ne ho sempre la prova dato che spesso anche la musica e la poesia sono mia fonte di ispirazione.

Ho impiegato qualche anno prima di raggiungere il livello desiderato facendo e rifacendo prove di stile soprattutto per cercare di evitare il più possibile tutte le influenze da parte dei miei artisti preferiti (scultori, pittori, registi) perchè in questo campo distinguersi credo sia una delle cose fondamentali! Dietro tutto quindi c’è un lungo percorso di studio e di documentazione.

Ho un attrazione fatale verso il mondo dello stop motion, bambole e burattini mi circondano quotidianamente e prendono forma nella mia mente e attorno a me! Vivo in un mondo parallelo popolato da centinaia di personaggi che non vedono l’ora di prendere forma per poter esprimere emozioni e sentimenti.

Cominciamo ora con le domande più tecniche: so che esistono molti modi per trattare la creazione una volta cotta, ma nella mia esperienza personale la maggior parte dei colori scivola via dal fimo, fissandosi per lo più nelle fessure e nelle parti ruvide. Le tue creazioni sembrano invece fogli di carta bianchi su cui riesci a rendere tutte le sfumature che desideri.

 

Molto presto mi sono accorto che il colore del fimo non mi basta, sui miei soggetti trovo siano troppo “finti”. Ho bisogno di sentirli vivi, ho bisogno di vederli arrossire, sporcarsi, talvolta sanguinare o piangere (non prendetemi per pazzo XD), ho bisogno di aggiungere quei dettagli in più in maniera diversa da ciò che permette il fimo stesso!
E’ ben chiaro che dopo aver sfornato una creazione mi trovo spesso ancora a metà strada prima del lavoro compiuto! Solitamente mi affido all’utilizzo di acrilici o acquerelli, ma su particolari pezzi preferisco utilizzare i pregiatissimi colori Genesis che richiedono un fissaggio in forno per circa 8-10 minuti a 130 gradi!

” Sirena Abissale” WIP

” Sirena Abissale” dopo il make Up. La base è stata realizzata con i Genesis, mentre il make up successivo con acrilici ultradiluiti

Molti di voi si chiederenno… ma cosa sono questi Genesis? Beh la domanda sorge spontanea e posso dirvi che sono dei colori speciali, non sono acrilici e non sono ad olio, sono simili a delle creme che si diluiscono tramite un Medium ed il tutto con una punta sottilissima di pennello, quindi piccolissime quantità di colore per evitare sprechi! Permettono sfumature molto realistiche e trasparenti, la pasta sembra quasi assorbirli al suo interno e quindi assistiamo ud un effetto piacevolissimo…tantochè svengono principalmente utilizziati nel mondo delle OOAK, nelle bambole Reborn, ovvero soggetti iper realistici.

Golum” è stato realizzato dapprima stendendo uno strato di acrilico marrone ultradiluito, e infine rifinito con i colori Genesis per dare un tocco naturale al carnato

Riguardo l’uso di acrilici o acquerelli, posso dire che spesso scivolano sul fimo ma nel mio caso si tratta di superfici non lisce, anzi, direi ruvidissime, grottesche! Un esempio sono i miei piccoli ortaggi, mi son divertito un sacco ad acquerellarli di marrone, verde, rosso come fossero sporchi di terreno, essiccati ed intimiditi! Se si tratta di superfici lisce come il viso di una doll mi affido all’acrilico molto diluito che ha una presa maggiore rispetto all’acquerello. Con un pennello sottilissimo dipingo le labbra e dopo asciutte le proteggo con la vernice gloss per evitare salti facilmente via.

” si vedono gli acquerelli?XD”

Posso aggiungere che si può ricorrere anche all’uso di pigmenti in polvere o classica polvere di gesso o addirittura ombretti! Personalmente mi trovo più comodo con materiali di pittura perchè quelli in polvere richiedono una cura maggiore per evitare l’effetto “chiazze” se non vengono ben stese, inoltre vanno fissati con il gloss, che trovo non sia adatta soprattutto quando si tratta di realizzare parti del corpo e visi.

Ho sentito che per realizzare ad esempio le miniature di giochi quali Warhammer, esistono delle vernici anche spray che creano una base su cui poter poi colorare con qualunque tipo di colore, soprattutto acrilico. Secondo te potrebbe essere una soluzione?
Personalmente non trovo sia una buona idea coprire totalmente il colore di base del fimo, perchè trovo che l’effetto finale sia un pò pasticciato e inoltre ridipingere la creazione risulterebbe scomodo… Io se ho voglia di creare una scultuta da dipingere mi affido al fimo light (o efaplast). E’ un materiale leggerissimo, comodo da modellare, indicato per sculture anche di grandi dimensioni che asciuga all’aria. Consiglio il colore bianco (esiste di vari colori in grandi panetti) che si può tranquillamente dipingere con qualsiasi tecnica!

 

Cosa consigli infine alle persone che vogliono intraprendere un percorso creativo basato sul make up delle loro creazioni?
Se si ama pastrocchiare sulle paste polimeriche con varie tecniche di colorazione consiglio sempre di azzardare, di non aver paura di sbagliare… di provarle tutte perchè l’esperienza aiuta a capire quali sono i metodi più adatti alle proprie esigenze, a quel che si vuole ottenere. Partire con le idee chiare o schirirsele divertendosi a dare sfogo alla propria creatività perchè in fondo l’arte è pura libertà espressiva!

Mi sento di ringraziare particolarmente Domenico poichè ci ha resi partecipi di tecniche di cui non si viene a sapere tutti i giorni, e aggiungo senza nessuna reticenza,  e questo nonostante sia uno degli artisti più copiati attualmente su facebook.

Il suo, come quello di tutti coloro che hanno partecipato o vogliono partecipare attivamente in questo blog, è un gesto anche simbolico verso chi vuole vivere l’arte in pace sotterrando l’ascia di guerra e lasciando una impronta in questo mondo in maniera adulta e consapevole, crescendo insieme, nel pieno spirito di queste pagine.
Perchè, come dico sempre, le tecniche si possono insegnare, i soggetti no. Quelli dovete trovarveli da soli, se volete davvero che qualcuno si ricordi di voi come persone creative…artisti, persino. Rifletteteci su!
Se volete seguire le mirabolanti avventure di Nobu Happy Spooky ecco la sua pagina di riferimento:

https://www.flickr.com/people/nobuhappyspooky/

 

 

 

 

Girolamo Alibrandi

 

Girolamo Alibrandi noto anche come Raffaello da Messina(Messina, 1470 – 1524) è stato pittore.
Allievo di Antonello da Messina e di Leonardo da Vinci.
Il suo Capolavoro riconosciuto è la “Purificazione della Santa Vergine” nella Cattedrale di Messina.
Fu un pittore messinese di cui restano poche opere e scarse notizie. I suoi dipinti sono interessanti testimonianze della diffusione della cultura leonardesca e raffaellesca in Sicilia (Madonna col Bambino, 1516, chiesa di S. Stefano Medio, Messina; Presentazione al Tempio, 1519, Museo nazionale di Messina).
Una sala del Museo Regionale di Messina è a lui dedicata. Tra i dipinti spiccano la grande Presentazione al tempio del 1519 (si notino i tratti nobili e dolci della donna in primo piano) e San Paolo.
Nel Duomo di S.Giorgio di Modica il grandioso polittico dell’altare maggiore, composto da ben 10 tavole, si pensa fosse stato dipinto dal messinese Gerolamo Alibrandi nel 1513. Le tavole raffigurano le scene della Sacra Famiglia e della vita di Gesù, dalla nascita fino alla Resurrezione e all’Ascensione, oltre a 2 riquadri con le classiche iconografie dei due santi cavalieri, san Giorgio che sconfigge il Drago, e san Martino che divide il proprio mantello con Gesù, che gli si presenta sotto le vesti di un povero accattone.
La datazione e l’autore del polittico, che da molti sono contestati per la difficile lettura della terza cifra sulla gamba del cavallo di san Martino, sembrano avvalorati dal fatto che Gerolamo Alibrandi, oltre ad essere contemporaneo e concittadino, era anche il cognato di Giovanni Resalibra da Messina, l’abile intarsiatore ed indoratore delle cornici e dell’intera Tribuna che contiene le 10 pale che compongono il polittico.

G..Alibrandi – Madonna del Pileri che salva Randazzo dalla colata lavica, sec.XVI, tempera su tela

Particolare

Tra le opere pittoriche meritevole di menzione è la Vergine che intercede per la città  nella Chiesa S. Maria, a Randazzo. Nella stessa chiesa un prezioso documento iconografico, una pittura su tavola, “la salvezza di Randazzo”, con veduta della città cinquecentesca, posta sulla porta laterale destra.
Sullo sfondo del dipinto va notato un paesaggio con tre campanili, che rappresenta l’antica cittadella medievale

Clara Virgilio

Clara Virgilio nasce il 2 gennaio 1956 .

 Attualmente è: DIRETTORE DI STRUTTURA COMPLESSA DI GASTROENTEROLOGIA PRESSO L’AZIENDA ARNAS GARIBALDI DI CATANIA

La Sua vita professionale è costellata di molti successi 

Il 3 luglio 1980  a soli 24 anni si laurea  in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli studi di Catania con il massimo dei voti e la lode.

Il 23 luglio 1984 si specializza in Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva presso l’Università di Catania con il massimo dei voti e la  lode.

 Il 26 luglio 1993 si specializza in Chirurgia Generale con il massimo dei voti e la lode presso l’Università di Catania .

 Dal 21 maggio 1992 al Febbraio 1996 Assistente medico presso il Servizio Clinicizzato di Endoscopia Chirurgica della USL 35

Dal febbraio 1996 al 30 aprile 2000 Aiuto responsabile del Servizio di Endoscopia Digestiva dell’Azienda Ospedali Vittorio Emanuele- Ferrarotto- Santo Bambino di Catania.

Dal 1° maggio 2000 al 29 dicembre 2002  Medico Dirigente con incarico di direzione di struttura complessa di Gastroenterologia presso il P.O. San Vincenzo di Taormina dell’Azienda 5 di Messina.

Dal 30 dicembre 2002 a tutt’oggi Medico Dirigente con incarico di direzione di struttura complessa di Gastroenterologia presso l’Azienda  ARNAS Garibaldi, di Catania  

In tali periodi la dott. Clara Virgilio si è occupata della gestione completa delle varie attività della Unità Operativa sia sotto il profilo organizzativo che quello budgettario.

In tali anni ha svolto funzioni di tutor nei confronti di specialisti di altre Aziende Sanitarie Locali; sperimentatore di numerosi trials terapeutici con Aziende Farmaceutiche Nazionali; è stata componente del Comitato etico dell’ Azienda 5 di Messina.

Ha partecipato ed ha sostenuto con esito favorevole il previsto colloquio del Corso di Formazione Manageriale per l’accesso agli incarichi relativi alle funzioni di Direttore di struttura Complessa realizzato dal CEFPAS a Catania dal 15/02/05 al 21/10/05 per una durata complessiva di 161 ore.

Nel biennio 2008-2009 è stata  Presidente Regionale della Società Italiana di Endoscopia Digestiva.

Nel quadriennio 2012 – 2016 Consigliere Nazionale della Società Italiana di Endoscopia Digestiva.

 Per  gli specializzandi della scuola di specializzazione in Gastroenterologia dell’Università di Catania, è  Tutor per l’apprendimento della metodica dell’Endoscopia Digestiva.

Insomma Concittadina per cui si può andare veramente fieri ed orgogliosi. 

La dottoressa Clara Virgilio infatti è figlia del prof. Pietro Virgilio (autore del libro ” Randazzo e il Museo Vagliasindi “) e della signora Maugeri sorella di Padre Antonino Maugeri.

             A dimostrazione delle Sue competenze e della Sue capacità la dottoressa Clara Virgilio è autore di numerosi lavori scentifici  (si elencano quelli indicizzati su www.Pubmed.com) : 

  1. Di Mitri R, Mocciaro F, Traina M, Montalbano LM, Familiari L, D’Amore F, Raimondo D, Virgilio C, Tarantino I,Barresi L, Giunta M, Borina E, Borruto A, Marino A. Self-expandable metal stents for malignant colonic obstruction:Data from a retrospective regional SIED-AIGO study. Dig Liver Dis. 2013 Dec 7. pii: S1590-8658(13)00654-3. doi:10.1016/j.dld.2013.11.001.
  1. Maimone A, Luigiano C, Baccarini P, Fornelli A, Cennamo V, Polifemo A, Fiscaletti M, de Biase D, Jaboli F, Virgilio C, Stelitano L, Zanini N, Masetti M, Jovine E, Fabbri C. Preoperative diagnosis of a solid pseudopapillary tumour of the pancreas by Endoscopic Ultrasound Fine Needle Biopsy: A retrospective case series. Dig Liver Dis. 2013 Nov;45(11):957-60. doi: 10.1016/j.dld.2013.06.005.
  1. Abenavoli L, Luigiano C, Larussa T, Milic N, De Lorenzo A, Stelitano L, Morace C, Consolo P, Miraglia S, Fagoonee S, Virgilio C, Luzza F, Pellicano R. Liver steatosis in celiac disease: the open door. Minerva Gastroenterol Dietol. 2013 Mar;59(1):89-95. Review. PubMed PMID: 23478246.
  1. Luigiano C, Ferrara F, Miraglia S, Favara C, Fabbri C, La Ferrera G, Virgilio C. Conservative management of a late rectal perforation following cold biopsy polypectomy. Endoscopy. 2012;44 Suppl 2 UCTN:E430. doi: 10.1055/s-0032- 1325859.
  1. Luigiano C, Ferrara F, Morace C, Mangiavillano B, Fabbri C, Cennamo V, Bassi M, Virgilio C, Consolo P. Endoscopic tattooing of gastrointestinal and pancreatic lesions. Adv Ther. 2012 Oct;29(10):864-73. doi: 10.1007/s12325-012-0056-2.
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Baronessa Giovannella De Quatris

 

La Baronessa Giovannella De Quadro

Giovannella De Quadro, conosciuta oggi come De Quatris (1444 – 15 luglio 1529, ma nonostante le documentazioni, non tutti gli studiosi concordano spostando la morte al 16 luglio o all’anno 1519) fu una nobile Baronessa che visse nell’arco della sua vita prima a Catania e poi a Randazzo, dove acquisì un ruolo di primo piano. 
Le origini della famiglia De Quadro furono scoperte solo di recente, il padre della Baronessa si chiamava Giovanni De Quadro e invece suo nonno si chiamava Gomes De Guadro (detto anche Gometro, Gomezio, Gomecio, Gomecii e Gomecium come riportano alcuni documenti storici), catalano giunto in Sicilia, ebbe un ruolo di primo piano nella città di Catania dove sposò la figlia del nobile Raimondo Capitano di Giustizia della città, alla presenza anche dell’infante Pietro fratello del re e del fratellastro Federico d’Aragona conte di Luna e successivamente divenne anche Patrizio di Catania. 
Il nonno della Baronessa conobbe sicuramente il Governatore di Malta Gonsalvo Monroi (detto anche Gondisalvo Monroy o Murroi) che gli cedette i feudi detti “Flascino, Flaxio o Frascino e Briemi o Brieni” oggi Flascio e Brieni. 
Il cognome della famiglia fu modificato da Giovanni suo padre, che nel suo giuramento di fedeltà al re riportava: “Giovanni De Quadro figlio di Gomes De Guadro”, si trattava quasi sicuramente di una traduzione voluta forse per nascondere le origini catalane o per favorirne la pronuncia nell’idioma volgare dell’epoca.  Da questo momento in poi De Quadro diventa il cognome della famiglia, ma con la Baronessa fu poi nuovamente mutato da Quadro a Quattro, Quattris, Quadris fino all’attuale De Quatris che poi fu adottato da tutti, anche dai diversi studiosi. 
Tuttavia De Quatris è più un soprannome come riporta l’iscrizione nel suo monumento funebre in cui si specifica “detta De Quatris” a sottolinearne quasi la non originalità di questo cognome. 
Giovannella De Quadro ebbe nel corso della sua lunga vita due mariti; si sposa  la prima volta con Pietro Rizzari (??-1512), discendente probabilmente dallo stesso Pietro Rizzari che anni prima fondò l’Università di Catania e che aveva conoscenza presso il re Alfonso. (Infatti secondo diverse fonti, una Tarsia Rizzari fu la concubina del re Martino I e gli diede anche un figlio il futuro Federico Conte Di Luna, di cui re Alfonso era per l’appunto il fratellastro.I siciliani volevano incoronare re proprio Federico, ma gli spagnoli nonostante Federico fosse stato educato in Aragona si opposero giustificandosi contro i suoi natali illegittimi e scegliendo quindi Alfonso). 
La Baronessa, non ebbe figli da questo matrimonio e prima della morte del marito fece testamento (nel 1506 ma per quanto riguarda questo testamento pare che forse ci siano altre copie redatte in date differenti, poiché alcune fonti riportano le seguenti date: il 5 marzo 1506, il 23 marzo 1506 e il 28 aprile 1506) affinché con il ricavato delle sue proprietà fosse conclusa la costruzione della chiesa di Santa Maria (oggi Basilica di Santa Maria Assunta) mantenendo l’usufrutto per lei e il marito.
Morto il marito quando ella aveva 68 anni, si sposò la seconda volta con Andrea Santangelo discendente probabilmente dai baroni del Cattaino e secondo le fonti esso prese investitura dei feudi solo nel gennaio del 1517. Non fu ovviamente un matrimonio per avere dei figli, vista l’età avanzata, ma sicuramente di comodo o come azzarda qualche studioso per ragioni patrimoniali, oppure perché si suppone che Andrea Santangelo rivendicasse i feudi appartenuti ancora prima di Monroi dai suoi avi.
Andrea Santangelo entrò quindi come usufruttuario e secondo le fonti, ostacolò non poco gli ecclesiastici di Santa Maria nella costruzione della chiesa, ma finché la Baronessa era in vita tutto fu fatto secondo quanto da lei disposto.
Alla morte della Baronessa (morì all’età di 85 anni) nacquero infatti diverse questioni e furono promulgate persino scomuniche papali affinché nessuno potesse ostacolare quanto da lei disposto. Le due parti coinvolte erano la chiesa e il comune che a nome della comunità dovevano preservare gli interessi della nuova “Opera Pia” e di cui numerosi studiosi si sono documentati, anche schierandosi delle volte apertamente per l’una o per l’altra parte, fino a quando le ultime sentenze che ne definirono l’assetto oggi vincolante dell’Opera Pia della Baronessa Giovannella De Quatris la divisero fra le parti coinvolte.
Il testamento diventò presto una questione complessa, che divise il paese per molti anni circa 3 secoli; infatti esso dichiarava che la Baronessa non aveva parenti oltre ad un nipote figlio illegittimo di un Francesco De Quadro chiamato Cosma o Comisso, ma alcuni studiosi riportano anche di una sorella della Baronessa (una certa Tuccia) che dopo la sua morte reclamava una parte dell’eredità e si suppone che tale Francesco De Quadro potesse essere un fratello della Baronessa deceduto all’epoca del testamento, così da giustificarne sia il grado di parentela con Cosma e sia la dichiarazione di non aver più parenti in vita, ma a tal proposito non sono state trovate fonti sufficienti per dissipare ogni dubbio e confermare quanto supposto.

In sintesi il testamento prevedeva che le onze ricavate dai feudi Flascio e Brieni servivano per:

1-La “Maramma” o “Fabbriceria” della chiesa di Santa Maria
2-Al completamento della chiesa, doveva costruirsi un Ospedale per i pellegrini 
3-8 onze a vita venivano disposte per Cosma De Quadro
4-10 onze da destinare il 14 Agosto di ogni anno per matrimonio o ordine sacro alle giovani di famiglia nobile decaduta.
5-Per vigilare su quanto chiesto istituisce dei “Procuratori” laici eletti dai componenti della parrocchia e dal clero a condizione che siano persone oneste e di provata fede.
6-I feudi non potevano essere venduti o trasformati, ma dovevano servire solo per la causa testamentaria espressa.
7- I Procuratori trasgressori della sua volontà dovevano rendere conto ai “Giurati”.

Con gli anni le rendite aumentarono e le disposizioni iniziali divennero poi ricordo al completamento di quanto stabilito e così secondo alcune fonti, furono poi distorte per altri fini come: ai canonici per servire messa, all’organista o per altro scopo che fecero seguito a continue dispute tra il comune che intendeva amministrare per sé l’Opera e la Chiesa che ne richiamava diritto.
Con il ricavato dei suoi feudi inoltre è stato realizzato anche l’altare della Chiesa di Santa Maria e lo ricorda anche il suo stemma nobiliare posto in cima e poi altre diverse e numerose opere, anche su disposizione del Vescovo di Messina che ottenne parte delle rendite per il completamento del Seminario diocesano, tuttavia queste opere che studiosi si sono chiesti se legittime, hanno forse dato ancor più valore alla grandezza della Baronessa, anche dopo la sua morte, perché portano tutte il suo nome e la sua generosità testamentaria.
Nel corso degli anni alla Baronessa le fu attribuita anche la proprietà di un libretto in avorio, ma indagini hanno constato la presenza di questo già nell’Archivio dei Beni della Chiesa nel 1477, cioè già da quando la Baronessa aveva 33 anni e che forse invece rappresenterebbe una donazione fatta alla chiesa di Santa Maria da qualsiasi devoto, ma attribuitele forse per dare un maggiore riconoscimento al valore del manufatto.
Intorno al 1790 inoltre la tomba della Baronessa fu aperta per via di un trasloco e il “Decano Canonico” di allora  Antonino Vagliasindi, dichiarò in una lettera, che la Baronessa fu trovata intatta e che con lei vi era solo una corona di rosario in ambra che però gli prese per mandarla con altri suoi abiti e il libretto (nonostante non fosse con lei sepolto, a suo dire era appartenuto alla Baronessa), ad un ritrattista e ad uno scultore di Palermo, che quindi inventarono secondo la descrizione scritta del Decano il viso della Baronessa, avendo come indicazioni perfino i nei del viso.
Il ritratto e il busto custoditi oggi nella Chiesa di Santa Maria, non corrispondono quindi al vero, ma più che altro alle fantasie dei loro creatori, secondo le disposizioni del Decano che voleva omaggiare la Baronessa per via della sua preziosa donazione, che con gli anni aumentava di profitti.
La Baronessa Giovannella De Quadro è stata ed è ancora oggi una figura importante per la storia e la cultura di Randazzo, lo testimonia il suo atto di generosità a disposizione dei randazzesi.
I diversi misteri che riguardano la sua vita, hanno sicuramente contribuito a darle una maggiore riconoscenza e un maggiore interesse, ancor oggi avvertiti con curiosità da parte di tutta la città di Randazzo.

Emanuele Mollica

Per ulteriori informazioni si rimanda al libro  “De Quadro – Una storia prende vita”  di Emanuele Mollica

 

 

Giovannella De Quatris, una grande baronessa

La  storia del nostro paese non è grande solo grazie a uomini, ma anche a donne: un ruolo importante sicuramente l’ha avuto la baronessa Giovannella De Quatris.
Non è certa la data della sua nascita, ma si può stabilire intorno al 1444 a Catania, perché nel sarcofago è presente la seguente frase:
“Vixit annos LXXXV”  cioè “visse 85 anni” e  la data della sua morte, 1529.
Il cognome ne rivela le origini  aragonesi. Trasferitasi a Randazzo, in seguito al matrimonio con Pietro Rizzari, non riuscì mai a realizzare il sogno di avere figli.
Vivendo e pregando nella chiesa di S. Maria, con gli abitanti di Randazzo, aveva potuto constatare la povertà e la miseria in cui molti vivevano e proprio per questo motivo decise di donare, con atto del 23 marzo 1506,  alla chiesa che tanto amava,  due feudi, Flascio e Brieni nel territorio di Randazzo, affinchè ne venisse realizzato il completamento.
Tale chiesa era stata  luogo molto importante per la baronessa perché vi aveva potuto esercitare la fede in Dio con grande devozione.
Alla chiesa donò anche suppellettili vari, per l’abbellimento della stessa, come  il famoso libretto scolpito in avorio, all’interno del quale si trovano foglietti in pergamena con delle miniature che rappresentano i misteri della passione  di Cristo e le preghiere da lei recitate, descritte attraverso immagini, in quanto la Baronessa non sapeva leggere, essendo negato alle donne dell’epoca l’apprendimento attraverso la lettura.
La generosità di Giovannella è evidenziata dal fatto che la sua eredità si estende non solo alla Chiesa, ma anche alla vita di giovani donne; infatti con il testamento dispose che le giovani nobili decadute usufruissero di lasciti (10 onze il 14 Agosto di ogni anno) per la dote del matrimonio o di monacazione.
Un vitalizio di 8 onze all’anno fu lasciato anche al figlio illegittimo del padre.
Morto il marito Pietro Rizzari, Giovannella a distanza di un anno si risposò con Andrea Santangelo.
Grazie al suo lascito, nella Chiesa di S.Maria, nonostante le controversie con l’ultimo marito, che usufruì del feudo  di Brieni fino alla morte (1560), furono molti i lavori e gli abbellimenti fatti.
La chiesa man mano assunse una forma decorosa e monumentale, per le snelle colonne gotiche, i capitelli floreali stilizzati, gli archi acuti, solenni e agili, e infine per l’immagine della bella Madonna di fattura bizantina posta sull’altare. La chiesa fu dotata di altri ornamenti, come nel 1567 l’imponete Ostensorio processionale, in argento dorato, che tuttora fa parte del suo tesoro.
Grazie all’eredità della baronessa De Quatris, quindi, si è potuta realizzare la bella Basilica di S.Maria, simbolo del nostro paese.

Anna Bagiante   (Liceo Classico “Don Cavina” Randazzo ).

 

” a Vara”  dedicata all’Assunta, è una suggestiva tradizione che dal 1500 è giunta fino ad oggi.
La storia non lo afferma con sicurezza ma, da scritti dell’epoca, da leggende e dalla memoria popolare, si fa risalire l’istituzione della festa alla baronessa Giovannella De Quatris. Sotto il suo patrocinio bravissimi artisti, artefici realizzarono il “Carro Trionfale” detto nel gergo popolare ” ‘A Vara ” la stessa nobile Giovannella, si dice abbia lasciato l’incarico alla Chiesa di S. Maria, oggi Basilica Pontificia, di tramandare ai posteri la manifestazione, dotandola all’uopo anche di mezzi finanziari, oggi sostenuta dalle amministrazioni comunali e dai cittadini.
“‘A Vara “ viene allestita non perdendo nulla della originaria magnificenza e dei simbolismo primitivo.
Il sostegno centrale, un grosso tronco dei diametro di 40 cm., non è fisso, ma compie un movimento rotatorio continuo, che ha per immediata conseguenza la rotazione di tutto l’apparato, comprese le persone e le due grandi ruote già per se stessa mobili in altro senso. Dalla base al vertice dell’enorme ” simbolo ” si inseguono centinaia di figurine ornamentali in rilievo, nuvole d’argento, specchi a profusione delle dimensioni più svariate, una miriade di scaglie d’oro, argento, smeraldo, arancio, zaffiro.
 Il brillìo gioioso di tanta ricca veste, i barbagli vivissimi che gli specchi lanciano colpiti dai raggi solari bastano da soli a sottolineare l’apoteosi della Vergine che accede al Trono dell’Eterno.
Il carro base ha un’ area di 1 8 mq. e ospita oltre al tronco centrale, un altarino con la reliquia della Madonna. Attorno all’ara trovano posto sacerdoti e chierici. Il complesso misura da terra al sommo vertice quasi venti metri.

     Padre Luigi Magro  da Randazzo, al secolo Santo Magro (1881-1951), dei Frati Minori Cappuccini nel suo libro ” Cenni Storici della Città di Randazzo”  tratta molto dettagliatamente la questione della donazione della baronessa Giovannella De Quatris e di tutte le conseguenze che da essa derivarono.
Per un maggiore approfondimento vi rimando al suddetto libro ( cap.9  pag.258 )  che puoi trovare nel profilo di Padre Luigi Magro.

 

IL LIBRO DI PREGHIERE
   DI GIOVANELLA DE QUATRIS

Prof. Enzo Maganuco

   Gelosamente custodito nel tesoro della cattedrale, il libro di preghiere di Giovannella De Quatris, (1444 – 15 luglio 1529) , nobile randazzese della fine del quattrocento, chiude fra due valve eburnee, intagliate duramente a basso rilievo, tre lamine pure esse eburnee, sulle quali poggiano attaccate e leggermente erose per lungo, ascetico uso, sei paginette in pergamena.
   Il piccolo codice, sul quale la baronessa De Quatris, illetterata, posava lo sguardo a contemplare i misteri della vita e passione di Cristo, misura, aperto, cm. 10×13.
   Le valve del dittico che formano come due coperture di guardia al codice miniato, sono divise in due zone. La prima contiene la Crocefissione in alto, e la Resurezzione in basso, l’altra rispettivamente l’Incoronazione  e il Transito di N. D.
   Una cornice ricorre sopra ogni riquadro e consta di una serie di archetti pensili, ciechi di coronamento.
   Sono archetti acuti cuspidati, col giglio apicale di gusto francese e aragonese come se ne rivedono in tutte le tarde forme  gotiche sotto la dinastia aragonese in Sicilia: in S. Giorgio a Ragusa Ibla, nell’arco di S. Maria di Gesù a Modica.

Randazzo – La Baronessa Giovannella dè Quatris

 
L’artefice del dittico ha voluto  –  con evidente squilibrio di tutto il valore ornamentale  –  decorare con fogline rampollanti anche la convessità degli archi i quali, nell’intradosso non portano l’arco tribolo come nel tardivo gotico francese dal quale derivano molti, intagli eburnei del tempo, ma hanno l’intradosso liscio e a larga bi concavità come nel gotico siculo.
   Egli nell’ingenuo sforzo per riempire tutti gli spazi vuoti con figure che dovrebbero concorrere alla risoluzione dell’episodio mostra subito, co l’accavallamento delle figure stesse senza alcun tentativo di gioco prospettico  –  non ancora risoluto nell’epoca del dittico  –  un arcaismo dal quale non si salvano in Sicilia neanche i pittori più egregi.
   Anche nella  coimesis  l’artista segue ancora lo schema bizantino dei mosaici e delle pitture su tavola di Sicilia; e non è da far le meraviglie se  –  data la persistenza iconografica bizantina in Sicilia  –  nella Chiesa di S. Maria in Randazzo e nella Chiesa dell’Annunziata in Comiso, Giovanni Caniglia (1548), pittore del cinquecento, arcaico ma non privo di piacevolezza e di originalità in certe gamme cromatiche e in certi impasti, nel transito di N. D. segua pure lo stesso schema iconografico.
   Ma nel riquadro del dittico, la sproporzione delle mani e delle teste che vorrebbero dare grandiosità e solennità, quel fare convenzionale dei capelli a masse parallele sfuggenti, trovano compenso nell’illeggiadrirsi delle pieghe naturali soavi attorno alle gambe della Madonna e attorno al corpo della figura accasciata e implorante a lato della bara, La madonna è tutta chiusa nella linea soave creata dalla curva del capo poggiante sul cuscino approntato da mano pia, mentre il volto ristà soffuso da uno spento sorriso smarrito.
   E le mani stilizzate, si incrociano con purezza, se pur convenzionalmente, al di sopra del drappo scendente in dure e orbacee pieghe del  cataletto.
   Non è dubbia, in tutto il riquadro, l’influenza del goticismo francese che per questa opera arriva in Sicilia con un’ondata quasi spenta: basti pensare ai due avori  francesi del XIV conservati al Louvre e pubblicati dal Malet. Ma negli avori del Louvre, nonostante  l’insistenza dell’attitudine ieratica e convenzionale, la lunghezza delle mani eccessivamente affusolate, c’è nell’artista gotico una consapevolezza e una padronanza del senso decorativo che ci stupisce, un equilibrio nelle masse, in così dolce trapasso di piani nell’avvicendarsi delle pieghe !  E tanto armonica la linea decorativa sottintesa nelle figure secondarie e in special modo negli angeli tubicini e osannanti, che l’occhio ne rimane fermo e sorpreso.
   Invece del dittico di Randazzo  eco lontana di quelle forme originali nobilissime che in tono minore ci riportano alla scultura monumentale dei portali e dei protiri  delle cattedrali francesi, specie nel riguardo della  coimesis  , si sente un artista nostrano e primitivo nella distribuzione delle parti, che sostituisce alla fluida bellezza dei nordici modelli una robustezza anatomica delineata con rozzezza tagliente e con angolose sporgenze e rientranze: è musica insomma, concepita quasi, in tutte quattro i riquadri, in toni naturali, senza semitoni di trapasso.
   Maggior senso di proporzione, di dominio degli spazi, si ritrova nelle altre tre figurazioni. L’espressione dei volti riesce talora caricaturale poiché l’artista, nel definire coll’intaglio la mimica facciale, procede per approssimazione. Riso infatti, più che celestiale e ispirato sorriso, è quello dell’angelo che incorona Maria: allungatissime, forse a indicare il culminare del momento mistico e solenne, le dita benedicenti dell’Eterno, dell’Apostolo del Cristo nei due episodi della prima valva e nell’episodio basilare della Resurrezione nella seconda.
 In alto, a destra, nell’episodio della Crocefissione, lo spazio, diviso longitudinalmente in due dal corpo del Cristo contorto entro la tradizionale curva romanica, contiene due gruppi: a destra Longino e Nicodemo oranti e i soldati, affollati, delineati con aspri incavi che duramente sbalzano il drappeggio; a sinistra il gruppo delle donne, tra le quali Maria, esausta, irrigidita in una smorfia di dolore mal resa e convenzionalmente ottenuta dall’artefice, sorretta da mani pietose che stringono l’affannato torace.
   Qui l’ondeggiare e l’accavallarsi delle pieghe, resi con grande sensibilità di massa e per piani progressivi, mostrano come l’artista – meridionale probabilmente per l’atticciatezza delle figure e per la robustezza talora eccessive delle masse – si sia giovato, per l’intaglio, di qualche gruppo di modelli francesi del tardo gotico, mentre ha lavorato con proprio slancio di fantasia e con diverso ritmo creatore attorno a certi altri gruppi.
   Nel riquadro della Crocefissione vi sono, tra il gruppo circostante di sinistra e quello di destra, tali profonde differenze di concezione dell’anatomia e del drappeggio che se ne può facilmente dedurre la diversità di modello e d’ispirazione.
   Dalla Francia numerosi vennero in Italia ,i dittici eburnei e non è escluso che da noi abbiano avuto larga eco in varie riproduzioni simile, forse della stessa officina d’arte riprodusse il modello dittico, è quello di Sassoferrato (8) in cui però l’equilibrio degli spazi, la battuta larga ed armonica, la proposizione degli scorci anatomici ci portano lontano dal nostro e se mostrano la similarità fanno pur sentire la statura di un artista superiore.
   Ma la fonte della Crocifissione è ben riconoscibile : è il dittico della passione della Collezione Hainauer di Berlino. Il taglio quadrato, ancorché rettangolare, del piccolo lacunare contenente la scena, non ha permesso all’artista del dittico di Randazzo di addensare tutti i personaggi entro il riquadro e ha tolto Longino e Nicodemo d’attorno al Crocifisso. E ben probabile poi che il dittico di Berlino sia servito di modello mediato attraverso qualche copia o qualche replica: ché nel nostro dittico, benché le figure siano quelle del modello, più pigiate e addossate , v’è tale sciatteria che non sapremmo immaginare il diretto influsso dell’avorio francese eletto nella forma, squisitamente patetico negli atteggiamenti : del resto, evidente distanza di tempo separa le due opere.  La prima, della metà del secolo XIV, la seconda della fine del secolo quando, spento ogni flusso di idealismo  –  sia pure trascendente e convenzionale  –  per l’introduzione del realismo straniero, l’arte fu portata  a tendenze spiccate verso forme drammatiche e patetiche; certamente, non tutti gli artisti riuscirono compiutamente e rapidamente a togliersi dal solco della tradizione.
   Certo, esistono dei modelli perfetti : ma le derivazioni, pur conservando l’iconografia che potremmo dir nuova, mostrano eccesso, banalità, manierismi.
  La Vergine negli intagli eburnei tardivi, non sta più diritta fra i due angeli, una si curva verso di loro, sdraiata; nella tragedia del Calvario ognuno, come dice il Malet (9) , si torce sui suoi piedi col più melodrammatico dolore e il Cristo, curvo in due sulla Croce ondulante fra il gruppo delle donne e dei soldati come in balia di un vento violento.
   Le forme che la tradizione aveva imposto, imbevute di grazia impeccabile e concludenti gli episodi in disposizioni  ingegnosissime donde balzava lo spirito altamente decorativo dell’artista, declinavano ormai; le forme sfociavano in un realismo gretto e greve.
   A questo periodo di realismo svisato, mal compreso e mal reso, crediamo che appartenga il dittico di Randazzo; il quale pur avendo con altri  –  come si è dianzi detto  –  termini di similarità persino nella cornice archiacuta di gotico fiorito, mostra nell’artista un valente imitatore che pur sentendo qua  e là l’eleganza e lo slancio gotici, rimane, a nostro modo di vedere, specie nella durezza delle masse anatomiche e nell’arcaismo della distribuzione, un siciliano della fine del secolo XIV o del primo scorcio del XV.

LE MINIATURE

   Di stile più prettamente francese sembrerebbero, in una prima visione sommaria, le sei miniature contenute nel dittico creato per certo a contenerle dopoché esse furono ritagliate da qualche “officium” per servire da guida spirituale alla De Quatris.
   Il largo margine vergine che corre attorno alle riquadrature delineate violentemente in sepia e a doppia squadratura, escluderebbero nell’artista la volontà a fare l’opera di decorazione comune ai miniatori palermitani e arabo-siculi che nelle cassette e sulle pergamene, in preda a uno slancio decorativo, ornano di racemi, di ori, di fuseruole, di bacche, di volute, tavole e pergamene.
   L’artista qui ha voluto soprattutto rappresentare; l’elemento decorativo è spostato: da esterno diventa intimo e concorre a rendere soprannaturale la scena che nella rappresentazione delle figure cerca di essere realistica o, per lo meno, naturalistica. Le figure, manchevole nel nudo, ma sode e ben postate quando sono vestite perché l’artista conosce il ritmo delle pieghe cascanti secondo la legge della gravità, profilate con precisione si ché coll’avvicendarsi delle e delle ombre ne risulti modellato tutt’altro che debole, sono immerse in un’atmosfera di sogno, talora, come nell’Annunciazione, sotto un cielo convenzionale in cui lo razzare della luce è inquadrato in una rete di righe aurate a quadri.  Vano è parlare di veridicità cromatica, di corrispondenza al vero di pittura e tanto più quando si parla di miniatura; ad ogni modo l’artista non vuole solamente liricizzare il colore locale delle cose ma vuole addirittura portarci in un ambiente irreale nel quale si svolga però l’episodio con palpito e con naturalezza umana : l’artista vuol giungere al mistico attraverso l’equilibrio tra il reale plastico delle masse anatomiche e l’irreale convenzionale del colore ambientale e paesistico.




   Il sacro lungo uso del delizioso libretto attenuato qua e là le tinte senza però troppo scialbarle né logorarle; l’effetto cromatico è ancora completo. Il cielo, nella scena dell’Annunciazione, che nello schema iconografico segue quello della corrosa Annunciazione della finestra basilare del trecentesco torrione di S. Martirio, è purpereo, e di un cremisi cupo è nella scena del Cristo alla Colonna.
   Quest’ultimo episodio, ingenuo nella rappresentazione degli alabardieri resi male per l’inversione della statura che porta a una errata valutazione della distanza prospettica , e ingenuo ancora per la goffa apparizione dell’Eterno, pur essendo dello stesso maestro che ha miniato gli altri fogli, mostra più a nudo le qualità negative dell’artista che nelle altre miniature se scopre delle manchevolezze attribuibili all’epoca in cui egli operò, mostra d’altra parte qualità di disposizione delle figure e soprattutto una spiccata tendenza alla musicalità del colore che ritroviamo poi sviluppate solo nel tardo quattrocento, nelle miniature palermitane.
   Nella scena dell’Annunciazione Maria, serenamente atteggiata, con un rotulo svolto sulle gambe, in ambio manto celeste lumeggiato dall’artista con un cobalto sereno che si risolve in accordo coll’azzurro d’oltremare delle pieghe cupe, profonde, sinuose, elegantemente contenute, ristà sotto un baldacchino di cadmio tutto dorato dai raggi del sole; l’angelo in lucco rosso e con ali acutissime che rammentano quelle delle miniature francesi del trecento, è genuflesso; e divide architettonicamente lo spazio in diretta corrispondenza coll’oggetto del baldacchino: da un ornato porta fiore emergono fogli e gigli; la scena si svolge su un pavimento a scacchi verdi e neri che chiedono con tono freddo e intonato tutta la gamma cromatica della composizione. La scena della Visitazione si svolge entro un recinto limitato da un incannicciato, il tradizionale e ancor comune “cannizzu” siciliano che si rivede anche nella Natività né mi pare sia questo un riempitivo di indole nordica.
   Torrioni apparsi nella lontananza che li separa, si ergono in alto, sulla collina retrostante. Anche qui il rosso mattone della veste di S. Elisabetta, è intonato colle tinte espresse nella miniatura. Più solida nel colore è la miniature della Presentazione al Tempio; stridente pel contrasto che nasce da gridellino dell’abito di Giuseppe di fronte all’azzurro di cobalto del manto della Madonna immersa in una fiamma convenzionale, amplissima che la circonfonde e l’altra raffigurante la Natività; ambedue queste miniature mostrano qualità di disegno e un senso così marcato della plastica e della profondità  –  che diventa ammirevole risoluzione prospettica nello sfondo della trabeazione, costituito da un loggiato –  da far pensare quasi che l’artista abbia cominciato dalla Crocefissione e dal Martirio alla colonna e che dopo varie incertezze e inciampi nella risoluzione dei vari problemi anatomici e paesistici abbia meglio padroneggiato i suoi mezzi sboccando con vero lirismo pittorico in quelle figurazioni che cronologicamente sono anteriori nella vita del Redentore.                                             

                                                                                                                ***

   Ma ci occorre il problema del collocamento cronologico e della provenienza.
   Dissi sin da l’inizio che le miniature appaiono francesi.  Ed è verosimile che l’artista sia stato educato a modelli francesi. Un’analisi minuta ci porta ben lontani. Nelle presenti miniature il convenzionalismo, se c’è non è gotico; è nel colore e questo può essere frutto di quella spiccata tendenza al colore irrazionale che i siciliani ereditarono dai bizantini e dagli arabi.
   Né vale che spesso siano state illustrate leggende cavalleresche o sacre di sapore provenzale come nello steri o  nel tetto di S. Nicolò a Nicosia, o nel tetto del Duomo di Messina ; in Sicilia la tendenza al colore irrazionale fu intimo bisogno di decorazione sognatrice, non convenzionalismo di importazione straniera; né d’altra parte affiora in questi fogli miniati quell’eleganza slanciata ma chiusa e fredda del gotico tardivo francese.
 Nel Nostro codice, l’elemento figurato, umano o divini, sematico insomma, è reso con quel naturalismo stentato, ma naturalismo, che ritroviamo in Sicilia verso il quattrocento; quivi l’arco acuto comparso prima dell’evento del gotico, scompare presto e il primo rinascimento quattrocentesco ci dà nuovamente l’arco molto schiacciato, quasi a pieno centro, dal quale è bandita ogni idea di goticismo; e ricompare qualche decorazione cosmatesca come nel palazzo Ciampoli di Taormina, nel palazzo Clarentano e nelle case di via dell’Agonia a Randazzo; nella miniatura dell’Annunciazione la decorazione del mur0 di cinta del baldacchino, se pure aprossivamente, rammemmora la decorazione cosmatesca; e nella Presentazione lo sfondo è pienamente quattrocentesco nella semplicità del loggiato, nella rotondità degli archi ; e questo maestro che in luogo di giocare per impasti di tinte preferisce dipingere a forti tinte locali, lumeggiando poi per sovrapposizioni filiformi e chiare, porta nella sua tecnica, nella comprensione prospettica, nella variazione cromatica dei piani, gusto strano e rozzezza e dev’essere stato un primitivo siciliano del quattrocento educato soprattutto alla scuola di quei freschisti della Sicilia centrale che negli affreschi di S. Andrea di Piazza Armerina e di S. Spirito a Caltanissetta fanno sentire come le miniature in questione siano lontana e indiretta filiazione di quegli affreschi.

Prof. Enzo Maganuco .

 

 

Gaetano Spartà

Gaetano Spartà randazzese classe 1979 ha iniziato a suonare il pianoforte a quattro anni, cominciando a prendere lezioni ad otto e sostenendo i primi esami presso l’Istituto musicale “V. Bellini” di Catania e il Conservatorio di Stato “F. Torrefranca” di Vibo Valentia. Studia con il M° Vera Pulvirenti sotto la cui guida si diploma con brillante votazione nell’ottobre 2002 presso l’Istituto Musicale “V. Bellini” di Caltanissetta.

Gaetano Spartà

A seguito di tale eccellente risultato, nella primavera 2003, viene invitato a partecipare alla Rassegna “I migliori diplomati d’Italia 2002” presso Castrocaro.

Nel 2004 la svolta della sua carriera, intraprende infatti, con il pianista Osvaldo Corsaro, gli studi jazzistici partecipando a numerosi seminari e Masterclass tenuti da musicisti di calibro internazionale quali: Enrico Rava, Dado Moroni, John Taylor, Sandro Gibellini e Francesco Cafiso.

Nel settembre 2005 ha partecipato al Campus Internazionale della Musica a Gallodoro (ME) dove erano presenti grandi musicisti quali: Salvatore Bonafede (con il quale intraprende successivamente un importante percorso di studio), Roberto Gatto e Maurizio Rolli.

Nel febbraio 2006 è tra i primi in Italia a conseguire il Diploma Accademico di II Livello in “Musica, Scienza e Tecnologia del Suono” presso il Politecnico Internazionale “Scientia et Ars” sito in Vibo Valentia, discutendo la tesi dal titolo:
                “Lo stimolo sonoro e le nuove tecnologie. Esperienze d’ascolto con soggetti affetti da Trisomia 21”.

Nel 2008 partecipa al Tuscia in Jazz Music Workshop presso Soriano nel Cimino (VT) tenuto da star del jazz internazionale quali: Kenny Barron, Ray Mantilla, Rick Marigitza, Flavio Boltro, Shawn Monteiro, Tony Monaco, Eddy Palermo e Karl Potter.

Nel 2011 partecipa ai seminari estivi di Piazza Jazz nella classe di Giovanni Mazzarino, inoltre, in questa occasione, suona con il Master Ensemble di Steve Swallow esibendosi con Dino Rubino, Giuseppe Asero ed i fratelli Cutello.

Nel Luglio 2012 partecipa alla Berklee Summer School at Umbria Jazz Clinics e vince la prestigiosa borsa di studio per partecipare al Valencia Master’s Program in Spagna. inoltre, si esibisce in occasione di Umbria Jazz con il Berklee/UJ Clinics Award Group sul palco dei Giardini Carducci. 

 

 

Nel settembre 2015 partecipa alla Masterclass tenuta in Sicilia dal leggendario pianista Barry Harris.

Fin dal principio la sua attività concertistica ha riscosso lusinghieri consensi di pubblico e critica nelle rassegne e manifestazioni a cui ha partecipato.

Attualmente suona con l’IN…SOLITO JAZZ TRIO (con il batterista catanese Pucci Nicosia ed il contrabbassista romano Fabrizio Scalzo) con il quale esegue un repertorio di Originals da lui composti e che si è esibito per la “Giornata mondiale del Jazz 2016” sotto l’egida dell’UNESCO selezionato come Residenza Creativa al prestigioso #4 JAZZIT FEST, presso Cumiana (TO).

 

Ha partecipato con il suo GAETANO SPARTA’ 4et al MESSINA SEA JAZZ 2015.

Ha suonato, inoltre, con lo STJEPKO GUT JAZZ 4ET (con il famoso trombettista serbo Stjepko Gut, il batterista palermitano Marcello Pellitteri, docente presso il prestigioso Berklee College of Music di Boston U.S.A., e il contrabbassista Giuseppe Campisi).

Sarà Residenza Creativa al #6 JAZZIT FEST, dal 22 al 24 Giugno 2018, presso Montegrosso (BT)

 

 

Si è esibito con: Stjepko Gut, Marcello Pellitteri, Dino Rubino,Nicola Caminiti, Giuseppe Asero, I gemelli Cutello, Giuseppe Mirabella, Giuseppe Campisi, Carmelo Venuto, Osvaldo Corsaro e molti altri ancora.

ACCENTè il suo primo disco da leader, registrato insieme a Valerio Vantaggio (batteria), Daniele Sorrentino (contrabbasso) e con ospiti il grande flicornista FRANCO PIANA e la B.i.m.

Orchestra diretta da Giuseppe Tortora e Marcello Sirignano, prodotto dalla casa discografica ALFAMUSIC di Roma e distribuito da EGEA nei migliori negozi di musica e da BELIEVE FRANCE su tutte le maggiori piattaforme digitali internazionali.

Attivo anche didatticamente, è docente di ruolo di Educazione Musicale e Potenziamento Musicale per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Vito La Mantia

 

LA MANTIA VITO

di Maria Antonella Cocchiara – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 63 (2004

 

Vito La Mantia

LA MANTIA, Vito. – Nacque il 6 nov. 1822 a Cerda, piccolo comune del Palermitano, da Francesco e da Rosa Arcara, entrambi appartenenti a famiglie dell’agiata borghesia terriera. Compiuti gli studi superiori a Termini Imerese, si trasferì a Palermo per iscriversi alla facoltà giuridica, dove ebbe tra i suoi maestri E. Amari e B. D’Acquisto. 
Negli anni di studi universitari fu insignito del premio Angioino per l’economia politica e del premio Di Giovanni in lingua greca e latina, storia sacra e storia di Sicilia. A uno di tali premi è legata la sua prima pubblicazione, Sul modo di procurare la ricchezza e la civiltà delle nazioni (Palermo 1843), in cui il La Mantia  professava un’incondizionata adesione al liberismo economico, pur differenziando le proprie posizioni da quelle della scuola degli economisti siciliani di matrice autonomistica e liberale, quali R. Busacca e F. Ferrara.
Dopo qualche anno di pratica legale presso lo studio di P. Calvi, nel febbraio 1846 conseguì la laurea in giurisprudenza, dedicandosi, dopo un vano tentativo di ottenere un incarico universitario, all’avvocatura. 
Antinapoletano convinto e prudente sostenitore del movimento liberale siciliano, restò tuttavia estraneo all’esperienza rivoluzionaria e costituzionale del 1848 e, di conseguenza, all’ondata di persecuzioni successive al ritorno dei Borbone. Fino all’Unità, continuò a esercitare la professione di avvocato. Risalgono a questo periodo diverse memorie difensive e il progetto di dotare il foro siciliano di una rivista di legislazione e giurisprudenza, gli Annali di legislazione e giurisprudenza patria e straniera: nel 1858 ne pubblicò il primo (e unico) volume, seguito dalla raccolta di Decisioni della Corte suprema di Sicilia (Palermo 1858), relativa al primo decennio di attività della Suprema Corte siciliana (1819-29).
Nel 1856, il L. sposò Antonina Salemi, sorella del democratico-radicale G. Salemi-Oddo. Dalla loro unione nacquero quattro figli, Francesco Giuseppe, Giuseppe – futuri collaboratori del padre e autori anch’essi di numerosi lavori storico-giuridici -, Rosa e Maria Concetta.
In un contesto culturale impoverito dalla fuga di cervelli causata dalla repressione borbonica, il L. avviò il primo nucleo di studi di storia dell’antico diritto siciliano. Nell’opuscolo Discorso sulle basi della legislazione seguito da un progetto di storia del diritto civile e penale in Sicilia (Palermo 1853), presentò l’ambizioso disegno che, con qualche modifica resasi ancor più necessaria a seguito dell’unificazione territoriale e legislativa del Regno d’Italia, avrebbe preso corpo con la pubblicazione della Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia (I-IV, ibid. 1858-74). L’opera, che gli avrebbe dato ampia notorietà, è ancora oggi punto di riferimento per gli studi di storia del diritto siciliano.
Articolata su due grandi aree temporali (dai tempi primitivi all’espulsione degli Arabi dall’isola e dalla conquista normanna sino ai suoi giorni), la Storia della legislazione, dopo i primi due volumi pubblicati nel 1858 e nel 1859, fu completata dopo l’Unità d’Italia (Palermo 1866 [ma 1868] e 1874), finendo per costituire una sorta di testimonianza dell’impatto con il processo di unificazione e codificazione nazionale.
Il 6 agosto 1860 il La Mantia  fu nominato giudice del tribunale civile di Palermo, entrando così a far parte della rinnovata magistratura siciliana. Nei trentacinque anni di attività giudiziaria, il L. continuò a coltivare gli studi di storia del diritto, spesso anteponendoli a interessanti prospettive di carriera e affrontando con rigore la difficoltà di conciliarli con i doveri del suo ufficio. All’età di 73 anni, pressato dal carico di lavoro connesso ai compiti di consigliere di Corte di cassazione, chiese l’anticipato collocamento a riposo, per dedicarsi totalmente alla ricerca storico-giuridica e, in particolare, ai lavori sulle consuetudini siciliane.
La dimensione praticistica dei suoi studi, sollecitati sin dagli anni giovanili anche da esigenze di natura professionale, trovò alimento nell’attività di magistrato: le indagini per risolvere le controversie sottoposte alla sua cognizione si associavano alla ricerca storica sulle fonti, ritenuta necessaria per dominare un sistema giuridico di tipo codicistico, ma con vaste influenze dell’antico sistema giurisprudenziale del diritto comune. Rivelavano interferenze tra il lavoro di giudice e l’impegno di storico del diritto i numerosi approfondimenti su argomenti presi in esame in ragione del suo ufficio.
Si ricordano, in proposito, le ricerche in tema di prescrizione centenaria, di diritti del Pubblico Demanio sulle spiagge e terreni adiacenti, di decime siciliane e di tonnare. Su quest’ultimo argomento il L. pubblicò la monografia Le tonnare in Sicilia (Palermo 1901), che riprendeva una nota alla sentenza della Corte di cassazione di Palermo del 22 marzo 1890, di cui era stato estensore. Lo studio ricostruiva, con ampio corredo di fonti documentarie e normative, la regolamentazione giuridica delle tonnare siciliane, ripercorrendone le tappe: dal sistema della libertà della pesca, riconosciuto dal diritto romano, alle concessioni di età normanna, sveva, angioina e aragonese, fino alla normativa di età borbonica e alla vigente legislazione unitaria. Un esame già effettuato in occasione del giudizio di cassazione, non per gusto antiquario ma per ragioni processuali, poiché, pur nel vigore della normativa nazionale, il caso concreto esigeva, per accertare il titolo del possesso, un’indagine storica sulle fonti.
Riconducibili ai suoi percorsi di carriera furono anche le ricerche sugli statuti di Roma, primo passo verso l’ambizioso progetto, rimasto incompiuto, di scrivere una storia della legislazione italiana. Il L. iniziò questo filone di studi quando, nel 1877, trasferito a Perugia in seguito alla promozione a consigliere di corte d’appello, fu costretto ad allontanarsi dagli archivi siciliani e quindi a sospendere le ricerche da tempo intraprese sulle consuetudini delle città di Sicilia.
Avviate in occasione del rinvenimento di un codice membranaceo custodito nell’Archivio segreto Vaticano, le indagini sfociarono in un breve saggio intitolato Statuti di Roma: cenni storici (Roma 1877), che costituì il primo lavoro critico intorno agli statuti romani di età medievale. L’illustre Eugène de Rozière elogiò il lavoro, conferendo al L. notorietà e consensi negli ambienti storico-giuridici e letterari d’Oltralpe e consacrandolo come l’iniziatore di quegli studi.
Affrontato in un più articolato saggio dal titolo Origini e vicende degli statuti di Roma (Firenze 1879), il tema sarebbe stato successivamente ripreso e sviluppato nella memoria I Comuni dello Stato romano nel Medio Evo (s.l. 1884) e, quindi, nella più vasta opera Storia della legislazione italiana, I, Roma e Stato romano (Torino 1884). A questo volume fu riservata, però, un’inattesa, negativa accoglienza da parte della intelligencija accademica.
Se la parte relativa alla ricostruzione delle fonti – la cosiddetta “storia esterna” – fu unanimemente apprezzata, il metodo storico-sistematico, con il quale il L. seguì cronologicamente l’evoluzione del diritto, degli studi giuridici e della giurisprudenza per aree politico-geografiche differenziate, suscitò aspri giudizi. Il tentativo di passare da una dimensione localistica a una storia del diritto nazionale produceva una somma di storie regionali che prendevano in sostanza le mosse dall’età comunale. Scelta infelice in anni in cui proprio alla storia del diritto italiano e al diritto romano si affidava il compito di saldare i nessi dell’unità culturale della nazione italiana, all’insegna della continuità tra l’antica Roma e l’ottocentesco Regno d’Italia.
Forse in conseguenza di quelle critiche, il L. archiviò il progetto di una storia generale del diritto italiano e tornò a dedicarsi agli studi sull’antico diritto siciliano e, soprattutto, ai lavori sulle consuetudini delle città di Sicilia, che suscitarono interesse e approvazione tra i contemporanei e ai quali ancora oggi è in gran parte legata la sua notorietà.

 


Avviati intorno agli anni Sessanta, con la pubblicazione di una raccolta di Consuetudini delle città di Sicilia (Palermo 1862) in cui si limitava a includere i capitoli di diritto civile ritenuti utili per risolvere questioni pendenti in giudizio, gli studi sulla legislazione cittadina sarebbero stati da lui approfonditi in successivi lavori: Notizie e documenti su le consuetudini delle città di Sicilia, monografia pubblicata a puntate nell’Archivio storico italiano, poi raccolta in estratto (Firenze 1888); le Consuetudini siciliane in lingua volgare, in Il Propugnatore, XVI (1883), pp. 3-73; Leggi civili del Regno di Sicilia: 1130-1816 (Palermo 1895).
Seguirono altri saggi che confluirono nell’ampia silloge Antiche consuetudini delle città di Sicilia (ibid. 1900), comprensiva non solo dei testi delle consuetudini in senso stretto, ma di gran parte dello ius proprium, costituito da privilegi, capitoli, ordinationes ecc. Una scelta apprezzata, che avrebbe consentito di registrare in modo organico l’estensione delle libertates vantate, in tempi diversi, dalle varie città siciliane.
Socio dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo e della Società siciliana per la storia patria, il L. fu anche assiduo collaboratore del più originale tra i cenacoli culturali palermitani, il Circolo giuridico, editore dell’omonimo periodico (dopo la morte del fondatore, Circolo giuridico Luigi Sampolo), fra le cui pagine pubblicò, a puntate, dal 1883 al 1894, il saggio Diritto civile siciliano esposto secondo l’ordine del codice italiano. Il lavoro, in cui ripercorreva la tradizione giuridica isolana in aderenza con la sistematica del codice civile del 1865, fu poi dato alle stampe, nella redazione completa, nel citato volume Leggi civili del Regno di Sicilia.
Protagonista di vivaci polemiche con storici del diritto italiani e stranieri (particolarmente aspre quelle con O. Hartwig, A. Del Vecchio, A. Todaro della Galia), che rivelavano l’intransigenza e la spigolosità del carattere, fu peraltro legato da rapporti di amicizia e cooperazione con illustri esponenti della cultura giuridica nazionale, da F. Sclopis a P.S. Mancini, su invito del quale scrisse diverse voci dell’Enciclopedia giuridica italiana. Collaboratore di prestigiose riviste storiche e giuridiche nazionali, il L. pubblicò, tra monografie, saggi, memorie, recensioni e scritti polemici, oltre cento lavori.
Coadiuvato dai figli il La Mantia completò altri lavori originali in materia di diritto consuetudinario, come quelli sulle Consuetudini di Paternò (Palermo 1903) e le Consuetudini di Randazzo (ibid. 1903), riproponendosi di dare alle stampe in tempi brevi un volume conclusivo sulla legislazione cittadina siciliana di età medievale e moderna.

Il progetto non si realizzò. Vito La Mantia  morì a Palermo, dopo breve malattia, il 16 giugno 1904.

Apparve postumo, per cura dei figli, il volume L’Inquisizione in Sicilia. Serie dei rilasciati al braccio secolare, 1487-1732. Documenti su l’abolizione dell’Inquisizione 1782 (Palermo 1904), che completava il suo precedente lavoro sull’Inquisizione siciliana (Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, ibid. 1886). Si tratta di un’opera ricca di documenti inediti, capace di suggerire interessanti itinerari di ricerca, e in grado di offrire agli studiosi un prezioso materiale per indagini ancora passibili di sviluppi.

Il libro “Consuetudini di Randazzo”  di Vito La Mantia (che puoi sfogliare cliccando sui link sottostanti) è una gentile concessione di Angela Militi – 

Consuetudini di Randazzo 01.pdf

Consuetudini di Randazzo 02.pdf

 

Manuela Mannino

Mi chiamo Manuela Mannino, sono nata a Catania il 1° settembre 1977.
Ho vissuto a Randazzo fino ai ventitré anni per trasferirmi successivamente a Lamezia Terme città nella quale vivo fino ad oggi e dove ho creato la mia famiglia. A Randazzo abitano i miei genitori e torno spesso nel “nostro” paese anche solo per poter respirare l’aria di casa e guardare l’Etna che tanto mi manca dove vivo adesso. Forse potrà sembrare sciocco a chi non si è mai allontanato dalle zone etnee, ma vi assicuro che per me è così!

Sono stata invitata a scrivere queste poche righe perché ho pubblicato un libro “Anonima” con la casa editrice bookabook di Milano, ma io non mi definisco e non mi definirò mai una “scrittrice”, perché non lo sono e, per come stanno le cose nel mondo dell’editoria nazionale, ho preso in antipatia il termine che è entrato nel lessico con troppa leggerezza.
Oggi siamo circondati da gente che pubblica non da scrittori. Sono un’autrice, una narratrice e questo mi basta.

Sono arrivata alla scrittura tardi, nel 2015, ma vanto una carriera da lettrice dal 1984.
Ho una laurea triennale in Economia Agraria, ho svolto molteplici incarichi lavorativi tutti in ambiti diversi, anzi diversissimi dal sociale alle gare d’appalto per lavori pubblici!

Ho iniziato a scrivere su una piattaforma online wattpad. Ho iniziato a cuor leggero senza avere l’obiettivo di portare a termine ciò che avevo iniziato. Non avevo messo in conto il mio carattere che mi porta sempre a far sul serio in ogni situazione.
  “Anonima” è nata così e sarebbe rimasta lì se non fossi venuta a sapere di questa casa editrice che accettava manoscritti di aspiranti esordienti e non chiedeva contributi per la pubblicazione. Ho inviato il mio testo e non credevo di passare al vaglio qualitativo e invece il mio scritto è andato avanti e ha passato la selezione qualitativa e anche quella delle prevendite in un solo mese. La fase delle prevendite è stata una prova difficile, ma l’ho superata grazie alla mia ex professoressa d’italiano Nina Romeo che mi ha pubblicizzato.

“Anonima” ha la capacità di essere una storia diversa per ogni lettore. Per me è un romanzo rosa o almeno è il romanzo rosa che io vorrei leggere e che oggi manca nelle librerie perché si prediligono storie non originali che seguono cliché triti e ritriti o ci sono storie al limite del buongusto. Il mio target di lettori di riferimento sono sempre state le donne dai venti anni in su. Dalla pubblicazione in poi invece quasi nessuno mi ha dato ragione, “Anonima” è stato inserito nella categoria della narrativa contemporanea, ho molti lettori uomini che hanno apprezzato il mio testo, c’è chi vede in “Anonima” un testo di denuncia sulla violenza di genere anche se sono davvero poche le parti che trattano tale tema, è stato definito un testo di crescita, di rinascita, c’è chi vi ha intravisto un filone thriller… Insomma, ogni lettore trova pane per i suoi denti e devo dire che la cosa mi dona una certa soddisfazione.

Ecco la sinossi:

“L’esistenza felice e spensierata di Sara è completamente stravolta: una feroce aggressione del suo fidanzato la riduce in fin di vita. Uscita dal coma, una verità difficile da accettare la porta a scappare lontano e sparire. Diventa Ambra, una ragazza diversa, con una nuova casa in un posto lontano. Ma Ambra non vive, si rifiuta di interagire con il mondo circostante perché fugge da un passato che l’ha profondamente ferita sia nel corpo sia nell’anima. Vuole essere anonima, scivolare invisibile agli occhi degli altri, senza mai intrattenere relazioni umane.
Solo l’arrivo di un nuovo collega, Luca, riporterà energia e vita nell’esistenza di Ambra, spingendola a trovare la forza per tornare agli eventi di otto anni prima e a indagare i silenzi che le impediscono di andare avanti.”

Manuela Mannino

Ho anche partecipato al Premio Themis di Bronte nel 2016, aggiudicandomi la pubblicazione in antologia in quanto il racconto, da me presentato in tale occasione, “Pietre al sole” è arrivato fra i primi dieci. Questo concorso è stato una grande soddisfazione anche perché è stato il primo a cui ho partecipato e conteneva un messaggio a me caro che, grazie alla scrittura ho potuto esternare.

Ecco, la scrittura per me è un veicolo attraverso il quale si può lanciare un messaggio importante anche a persone che non conosci e lasciare un qualcosa in ognuno di esse.

Lo scritto che per ora alberga nel mio cuore e nella mia mente è il mio secondo racconto “DUE APRILE”.
Spero proprio di riuscire a pubblicarlo. DUE APRILE ( il carattere maiuscolo ha un suo significato, è un urlo di denuncia ), è ambientato a Randazzo con: l’Etna, la ginestra, l’istituto Santa Caterina, il pellegrinaggio a Mojo Alcantara, il bar Musumeci, Santa Maria…

La sintesi è un mio dono e dunque direi che basti questo! Ringrazio il blog per avermi contattata.

È possibile acquistare “Anonima” presso la cartolibreria di Donata Reitano o su tutti gli store online.

Pagina autrice: https://www.facebook.com/Manuela-Mannino-Autrice-1606014162825077/

 

Intervista all’autrice Manuela Mannino…

Ciao Manuela benvenuta tra noi, parto subito con il chiederti di presentarti e raccontarci un po’ chi sei e cosa fai.

Ho 40 anni, sono mamma e moglie . Laureata in Agraria, da tre anni scrivo. A gennaio è stato pubblicato il mio primo libro Anonima. Ho fatto di tutto e voglio continuare a fare di tutto.

Hai altre passioni che coltivi oltre alla scrittura?

Ovviamente la lettura è stata la mia prima passione e, ultimamente, le serie tv che stanno diventando quasi una droga!

Che tipo di libri scrivi, ce ne parli un po’? Presentaci i tuoi personaggi.

Ciò di cui scrivo è ancorato alla realtà che ci circonda. Intendo la scrittura come un mezzo per esternare i nostri pensieri e porre l’accento su ciò che accade nel quotidiano donandogli il tempo necessario per assimilarlo. Oggi tutto accade troppo velocemente e le notizie ci scivolano via senza lasciare nulla a parte uno stupore passeggero. Attraverso un libro si ha un più ampio respiro, si può far entrare in empatia il lettore con il personaggio. Principalmente parlo di donne quando scrivo racconti lunghi, uomini nei miei racconti brevi.

Hai sempre amato scrivere o è una passione uscita con il tempo?

Ho sempre amato leggere, ho iniziato a scrivere nel 2015 per gioco sulla piattaforma di wattpad e mai avrei pensato che sarei riuscita a completare la mia prima storia né tantomeno di pubblicarla con una casa editrice.

Da dove arriva l’ispirazione? Hai rituali o abitudini a cui ti affidi prima di scrivere e leggere?

L’ispirazione arriva all’improvviso, come una folata di vento inaspettata e mi travolge, inizio subito a immaginare dialoghi o le sensazioni che devono suscitare nel lettore certe scene, espressioni dei volti, stati d’animo dei protagonisti. Se, dopo un po’, non riesco a liberarmi di questa idea mi siedo e scrivo. Una abitudine che ho è il non iniziare a scrivere senza aver mangiucchiato qualcosa. Per la lettura no, non ho nulla di particolare.

Cosa c’è sempre e non può assolutamente mancare nei tuoi libri? Cosa invece non troveremo mai e perché?

Ad oggi c’è sempre la Sicilia, c’è la realtà, c’è un dramma. Non troveremo mai… non saprei proprio dirvelo! Mai dire mai, la mia fantasia vola in alto e si è pure spinta sotto due metri di terra.

Solitamente prima di essere scrittori si è lettori, tu che tipo di lettrice sei? Hai dei generi preferiti?

Io  passo da periodi di massima attività nella lettura a momenti in cui mi blocco e non leggo. Se, ad esempio, becco un libro che non mi piace mi blocco, e poi lo riprendo e lo porto al termine (perché non interrompo mai un libro a metà), ma se non mi piace impiego molto tempo per finirlo. Odio chi abbandona un libro, qualsiasi libro.

Amo le storie realistiche, amo gli autori del passato quelli veri, quelli che hanno saputo lasciare una vera opera che resiste al tempo a una lingua che cambia. Non disdegno comunque nessun genere, ciò che non sopporto sono i libri cloni di una moda temporanea.

Progetti in writing progress e futuri che tieni in un cassetto?

Sto limando il mio secondo lavoro “Due Aprile” con lentezza e nel frattempo il mio subconscio è alla ricerca di una spinta per scrivere un nuovo racconto lungo.

Quanto è difficile il mondo dell’emergente? Cosa cambieresti e cosa svilupperesti invece?

È difficilissimo! Oggi un autore non deve essere solo capace di scrivere ma anche un abile venditore. I libri che si vendono da soli sono quelli di autori affermati non quelli di un emergente comune. Chi già all’esordio ha un discreto successo sono quegli autori che hanno alle spalle grosse case editrici che investono in una serie di servizi atti a rendere appetibile un’opera. Io credo che l’editoria debba tornare a fare il suo lavoro e l’autore debba saper scrivere non per forza saper vendere.

Self o Ce, cosa ne pensi di questi due mondi?

La Casa editrice è stata la mia scelta e spero di poter avere una Ce anche per “Due Aprile”. Il self potrebbe essere una bellissima realtà, ma ad oggi io credo che almeno in Italia non sia una valida scelta per un emergente perché è troppo affollata e la maggior parte di ciò che ho comprato si è rivelata spazzatura. Ciò va a svantaggio di chi lavora veramente bene e di chi si impegna a rendere il suo elaborato di qualità. Unico acquisto che mi ha soddisfatta è stato quello di una ragazza che ho conosciuto su wattpad che ha pubblicato delle strisce umoristiche davvero perfette: bella impaginazione, disegni accurati, sceneggiatura davvero divertente e intelligente. Ma attenzione! Anche le Case editrici sono tante, proprio come gli autori in self e anche molte Ce sono in realtà delle grandi tipografie e niente di più. Sarebbe meglio ridimensionare il tutto, non pubblicare ogni piccola ideuzza che si ha da parte degli autori e che chi volesse fare l’editore lo faccia con coscienza non pensando solo al denaro. 

Il commento più bello ricevuto e quello più brutto per i tuoi scritti?

Tanti su wattpad lì si vive solo di commenti! Per quanto riguarda Anonima, il mio libro edito, alcune lettrici mi hanno detto di non esser riuscite a smettere di leggere, di averlo finito in un’unica sessione di lettura. Hanno apprezzato in molti anche il mio tono nella narrazione l’esser stata delicata su certi aspetti, si complimentano anche sul  finale non scontato ed è molto apprezzato. Commenti brutti no, forse negativi? Anche se per me nessun commento può esser negativo, perché un parere è uno scambio che io accetto sempre e con umiltà. Uno di questi è stato la caratterizzazione dei personaggi secondari che per alcuni è stata poco approfondita, io concordo con questo appunto anche se riconosco che la storia di Anonima sia solo la storia di Ambra la protagonista, io mentre scrivevo vedevo solo lei e lei era concentrata solo su se stessa.

Un libro che assolutamente consigli e uno invece che non sei riuscita a terminare?

La storia di Elsa Morante per me è uno dei libri fondamentali insieme ad altri. Li termino tutti! Ma sconsiglio i prodotti commerciali che affollano le librerie.

Un viaggio che da sempre desideri fare ma che non hai ancora potuto? Perché?

Desidero andare a Parigi perché non ci sono ancora andata. È una risposta banale ma è la verità!

Hai una citazione, un motto a cui sei particolarmente  affezionata?

Ultimamente penso sempre alla favola “Il vestito nuovo dell’imperatore”. C’è la frase del bambino in cui dice che l’imperatore è nudo, ecco mi ripeto sempre di esser quel bambino e di non perdere la sua capacità di vedere la verità senza sottostare a nessun tipo di condizionamento. Poi c’è da dire che sono cresciuta con mia nonna e lei mi ripeteva sempre tutti i modi di dire dialettali che conosceva e quelli li intercalo spesso nelle varie situazioni che mi si prospettano durante la giornata!

Augurandoti il meglio, spero ti sia piaciuto stare un po’ con noi, a presto Manuela!

https://bookabook.it/libri/anonima/

 

      JFM consiglia: Due Aprile di Manuela Mannino

 

Da ora in poi il giovedì sarà dedicato a consigliarvi romanzi di altri autori Wattpad.
Oggi vi parlerò di un libro fuori dagli schemi (perchè su Wattpad, udite, udite, potete trovare anche libri che non parlano di teenager che vengono consensientemente stuprate da badboy con la faccia di Harry Styles)!
Scusandomi con Manuela Mannino per aver messo nella stessa frase il suo libro e Harry Styles, oggi vi parlo di Due Aprile. https://www.wattpad.com/story/67679775 (in corso).
Questa è una delle prime storie che ho trovato su Wattpad, ha anche vinto, meritevolmente, il premio Wattys 2016.
Il due aprile è la giornata dedicata all’autismo ed è proprio da questa data che l’autrice fa scaturire il suo racconto, un misto fra una narrativa poetica mescolato ad una critica consapevole della cruda realtà. L’autismo è ai giorni nostri ancora un tabù, un mistero, qualcosa che ci sfiora ma non comprenderemo mai appieno.
Ed è questo l’intento dell’autrice, trascinarci nel baratro insieme alla protagonista che, invece, dell’autismo ha fatto la sua malattia, perché la vive tutti i giorni, da sola affronta il mondo con e per suo figlio, colpito da questa sindrome.

Il racconto si svolge in prima persona e ci sviscera per filo e per segno una quotidianità distrutta da questo orco invisibile, una realtà vista con occhi consumati, una donna che lotta da sola, perché il resto del mondo non potrà mai capire cosa significhi davvero quello che sta passando; ma il tutto narrato attraverso una poetica che ti culla, ti immedesima, ti fa comprendere, ti fa sperare che un raggio di sole possa entrare nella vita di questa persona, per lenire anche un po’ la nostra coscienza di spettatori esterni.


Quindi se volete ricredervi sulla qualità delle storie che girano su Wattpad, cominciate da questa =)
L’autrice ha anche da poco pubblicato il suo primo libro in self publishing, Anonima, che ovviamente consiglio. Lo potete visionare e, spero, acquistare, a questo link! https://bookabook.it/prodotto/anonima/  
     A cura di Lucio Rubbino

 

 

 

 

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