Archivio mensile Agosto 2017

Don Calogero Virzì- Salesiano

 DON SALVATORE CALOGERO VIRZI’ (1910 – 1986)

Il Salesiano don Salvatore Calogero Virzì, una tra le figure di più alta levatura nel panorama della cultura siciliana del XX secolo, per Randazzo e per tanti randazzesi è stato molto di più, un pioniere, una guida, uno stimolo, colui che ha acceso in loro il gusto, spesso sopito, della conoscenza e dell’amore verso il proprio paese.

Maristella Dilettoso – Randazzo

Don Calogero Virzì – Randazzo

Nato a Cesarò (ME) l’11 gennaio 1910, compì i primi studi nel paese natale, per frequentare poi il Ginnasio all’Istituto S. Francesco di Sales di Catania. Nel 1925 entrò nella Congregazione dei figli di Don Bosco, fu poi al S. Gregorio di Catania, all’Istituto D. Bosco di Palermo, come assistente dei convittori, e quindi al S. Domenico Savio di Messina, dove, nel 1934, fu ordinato sacerdote.Tornato a Catania, al S. Francesco di Sales, frequentò l’Università e nel 1937 conseguì la Laurea in Lettere Classiche presso l’Ateneo Catanese.
Quello stesso anno fu trasferito a Randazzo, all’Istituto S. Basilio.
E fu amore a prima vista, verso la cittadina piena allora, ad ogni passo, delle vestigia dell’arte del passato, inalterata nel suo assetto medievale, ma fu anche di breve durata: di lì a poco, nel 1943, in un solo, terribile mese di fuoco, dal 13 luglio al 13 agosto, quasi l’80% di quell’ingente patrimonio artistico sarebbe finito in un cumulo di macerie e di fumo.
Nell’introduzione al bellissimo volume sulla Chiesa di S. Maria (1984) “espressione di attaccamento a quella città che mi ospita da 40 e più anni, e di amore a questo suo monumento d’arte”, don Virzì ricorda: “venendo a Randazzo mi trovai in un ambiente consono al mio spirito… fu un dolce sogno per me… che purtroppo ben poco avrebbe potuto durare. Ho perduto…tutto, rimanendo con solo ciò che avevo addosso e col rimpianto della distruzione di tutto quello che era stato il sogno più bello della mia vita… Ed io, pellegrino doloroso, mi immersi in mezzo a questa rovina, cercando il passaggio tra i mucchi di macerie…ma ogni cosa gridava il suo dolore e il suo strazio”.
Trascorso quel primo, drammatico momento, in cui il sacerdote prestò la sua opera di soccorso, ad una popolazione troppo duramente provata, don Virzì avrebbe voluto salvaguardare il centro storico da interventi tempestivi quanto inopportuni, infatti l’urgenza di ricostruire, di ridare una casa ai troppi senza tetto, finì per arrecare danni irreversibili ai monumenti e agli edifici superstiti.
Di fatto, prevalsero allora le esigenze più concrete, e non possiamo oggi emettere verdetti col senno di poi, tanto più che, per farlo obiettivamente, dovremmo avere innanzi il quadro desolante che si ritrovarono i cittadini all’indomani dei bombardamenti, rivivere il loro stato d’animo, il dolore, la miseria, la fretta di riavere un tetto…
In un clima così poco adatto, per motivi storici e contingenti, a far sviluppare una lungimirante e scientifica cultura del restauro, a don Virzì non rimaneva che vigilare affinché, nell’ansia della ricostruzione, il patrimonio artistico di Randazzo non ne fosse stravolto.

Al Collegio S. Basilio, dove fino a qualche decennio fa confluirono giovani provenienti da ogni parte della Sicilia, ricoprì, per moltissimi anni, il ruolo di docente nel biennio del Ginnasio, conferendo all’insegnamento impartito un’impronta indelebile.
Da seguace di don Bosco, infatti, nutrì sempre un’attenzione particolare verso i giovani, indirizzandoli ai valori della bellezza e dell’immortalità. I suoi allievi d’un tempo, sparsi per ogni versante della Sicilia, ne serbano tuttora un ricordo riverente e affettuoso.
Non soltanto uno studioso, ma anche un grande educatore, nel senso più lato del termine: fu proprio attraverso la scuola che riuscì a instillare nei giovani l’amore e la conoscenza del proprio paese.
Sempre al S. Basilio fu, fino all’anno della morte, direttore e curatore della pregevole Biblioteca del Collegio.

Quando, nel 1971, venne istituito il Liceo Statale a Randazzo, fu chiamato a ricoprirvi il ruolo di docente di Storia dell’Arte.
Conferenziere, professore, studioso, don Virzì ebbe nella comunità randazzese un ruolo culturale attivissimo, che proiettò anche all’esterno: fu socio fondatore e membro combattivo della Pro Loco, dell’Associazione di Storia Patria Vecchia Randazzo, e della sua filiazione Arte S. Bartolomeo, Ispettore Onorario della Soprintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, Istruttore in corsi per guide turistiche, Consulente esterno nella Commissione igienico-edilizia comunale, in qualità di esperto, senza tralasciare per questo l’impegno scolastico e sacerdotale. Fu assistente spirituale degli ex-allievi del S. Basilio, e gli si attribuivano doti di eccellente confessore.


Nel 1979 gli era stata conferita dal Comune di Randazzo, dall’allora sindaco Francesco Rubbino, la Cittadinanza Onoraria, atto questo che veniva a sancire, formalmente, quella che era già una realtà sostanziale, perché don Virzì era, di fatto, profondamente inserito nel tessuto sociale randazzese, ne aveva assimilato la cultura e il sentire, coltivava amicizie tanto nell’ambiente ecclesiastico che in quello laico.
Per l’occasione fu pubblicato il volume bio-bibliografico “Una vita dedicata a Randazzo: Salvatore Calogero Virzì e le sue opere”, curato dal prof. Salvatore Agati.

Quanto don Virzì avesse apprezzato, e forse atteso negli anni, quel gesto, lo comprendemmo tempo dopo, entrando nel suo studio, al Collegio S. Basilio, una cameretta stipata fino all’inverosimile di carte, documenti, scaffali traboccanti di libri, pareti tappezzate di stampe, cimeli artistici e riconoscimenti, dove campeggiava la pergamena consegnatagli nel 1979 per il conferimento della cittadinanza onoraria.
Nel 1984 la stessa comunità randazzese si riunì numerosa per celebrare, nella basilica di S. Maria, alla presenza del Vescovo Mons. Malandrino, il 50° dalla sua ordinazione sacerdotale.

Morì in silenzio e improvvisamente, il 21 novembre 1986

. A un anno dalla scomparsa, gli fu intitolata la Biblioteca Comunale di Randazzo, quasi a voler rappresentare l’attualità e la continuità del suo messaggio culturale anche tra le generazioni future. Per l’occasione nell’atrio dell’edificio fu collocato un suo busto in bronzo, realizzato dallo scultore Nunzio Trazzera.
Dalla mole degli scritti di don Virzì – molti dei quali non ebbero, pur meritandola, la sorte di essere dati alle stampe – promana serietà, impegno, dedizione, entusiasmo ed amore per la ricerca ed il sapere, quali traspaiono forse solo dalle pagine di un altro illustre studioso e cultore del bello, il suo amico e sodàle professore Enzo Maganuco, meritevole anch’egli di avere fatto conoscere ed apprezzare l’arte randazzese.
Quegli scritti sempre attuali, letti, consultati, citati continuamente, costituiscono una pietra miliare per chiunque si accosti alla conoscenza di Randazzo, e il fatto che il suo messaggio cresca e perduri nel tempo, l’avrebbe reso certamente felice e consapevole di non avere lavorato invano.
“Apostolo all’interno e all’esterno di Randazzo affinché la città possa di nuovo assurgere alla dignità che le compete” fu definito don Virzì, e anche se un giorno dovessero venire alla luce nuove fonti, nuove scoperte atte a mettere in chiaro i tanti punti oscuri del passato di Randazzo, nessuno potrà mai rifiutarsi di riconoscergli obiettività di storico, equilibrio, cautela nell’esaminare e vagliare le notizie, nel porre le fonti nella giusta luce, nel non emettere mai giudizi o conclusioni che non fossero suffragati da riscontri certi e incontrovertibili.
“A lui vada il pensiero delle nuove generazioni, aperto finalmente a questi problemi. Vada la riconoscenza di tutti i suoi abitanti che, in questo fortunato risveglio ai valori più apprezzabili della nostra cittadina, è giusto che esternino il loro riconoscimento verso coloro che operarono, apprezzarono e fecero apprezzare ciò che di bello e singolare i padri ci hanno tramandato”. Con queste parole don Virzì chiudeva un articolo dedicato al professore Maganuco. Eppure, profeticamente, erano parole che si potrebbero applicare alla sua persona!,

Il giudice Sebastiano Virzì fratello di Don Virzì.

Certo, nella sua azione di “nume tutelare” del patrimonio storico-artistico di Randazzo, don Salvatore Calogero Virzì dovette imbattersi in non poche incomprensioni, del resto un certo tipo di edilizia che andò diffondendosi, spesso spregiudicatamente, dagli anni ’60 in poi, come poteva conciliarsi con la patina che il tempo aveva impresso sulla pietra lavica, con quella visione di austera bellezza di una Randazzo anteguerra, che gli era rimasta impressa negli occhi e nel cuore?
“La creatività avvalorata dall’amore del soggetto è sempre prolifica…” ebbe a dire, in una sua pagina che ci è particolarmente cara, e, considerando la mole dei suoi scritti, se ne deduce un grande amore verso Randazzo, suo paese d’adozione, ch’egli, da forestiero, riuscì ad amare come fosse stato la sua patria, e che auspicava “semper virens, semper accrescens, semper vigens” (sempre rigogliosa, sempre in crescita, sempre piena di vita), come recita l’iscrizione sul basamento del Piracmone.
Randazzo con la sua storia affascinante di re e regine, Randazzo nei suoi monumenti muti, di nera lava, cui egli seppe infondere voce, Randazzo nelle sue tradizioni cristallizzate da secoli, nelle sue ataviche rivalità dei tre quartieri in lotta, Randazzo nella sua gente di ogni estrazione sociale, dei pochi acculturati del tempo, che gli dispiegavano innanzi i vecchi libri ed i tesori d’arte custoditi nei palazzi, delle vecchiette, dei poeti estemporanei, dei monelli, dalla cui viva voce apprendeva, per tesaurizzarli, vecchi scioglilingua, proverbi, scongiuri e preghiere…
Randazzo, infine, lacerata, bombardata 84 volte, in quell’estate del 1943, prostrata davanti alle proprie macerie e davanti ai propri morti. Ma, da quel terribile momento, molte cose si sono evolute.

Don Calogero Virzì, Don De Luca, Francesco Rubbino, Giuseppe Montera

Il patrimonio perduto non si può più riacquistare, tanti recuperi e restauri non furono curati con lo scrupolo dovuto, è vero, ma don Virzì ha seminato bene, e se oggi c’è un maggiore rispetto ed interesse verso i beni artistici e monumentali, è soprattutto merito suo, di quest’uomo dalla grande vitalità, dalla grande fermezza, e dall’immensa cultura, che, nulla togliendo ai suoi meriti di sacerdote e di professore, riuscì a risvegliare nei cittadini randazzesi il culto e l’interesse per il proprio patrimonio artistico e per le proprie radici, di averli fatti conoscere un po’ meglio, di avere gettato il seme dell’amore per la propria terra nelle nuove generazioni.

Gli scritti di Don Virzì
Oltre a numerosissimi articoli su periodici locali e nazionali (La Sicilia, il bollettino del Comune Randazzo Notizie , ecc. ) molti furono gli scritti lasciati, editi e inediti:
– Memorie storiche del Collegio S. Basilio di Randazzo (inedito, 1953)
– Randazzo e le sue opere d’arte (dattiloscritto inedito del 1956),
– Paesi di Sicilia: Randazzo (Palermo: IBIS, 1965).
Su Memorie e rendiconti dell’Accademia Zelantea di Acireale ha pubblicato:
– Il regio Castello di Randazzo (1968),
– Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto 1860 in Randazzo (1968),
– Randazzo 1848 (1980).
E ancora:
– Storia della Città di Randazzo (1972), manuale divulgativo per le scuole,
– Breve guida attraverso i monumenti artistici della città di Randazzo…(1973),  – Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi (inedito, 1960),
– La Chiesa di S. Maria, su Historica (Reggio Calabria, 1971).
Ha dato inoltre alle stampe le guide illustrate:
– Alcantara (1975),
– Etna (1978),
– Taormina (1979),
– Cesarò.
Per il 21° Distretto scolastico ha collaborato a
– Un itinerario etneo (1983),
– Storia, Arte e folklore in Randazzo, Castiglione e Linguaglossa (1985), e curato
– Randazzo nei suoi costumi (1986),
– Randazzo e le sue opere d’arte, 2 v. usciti postumi (1987/89).
Ricordiamo ancora:
– I cento anni del Collegio S.Basilio (1979),
– La Chiesa di S. Maria edito dal Comune di Randazzo (1984),
– Il Castello della Ducea di Maniace, pubblicato postumo nel 1992.

Maristella Dilettoso 

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                               La “Batiazza” di Francavilla tra fede, storia e leggenda pubblicato il 06 ottobre 2015 

 

Salvatore Ferruccio Puglisi e Don Virzì

   Sarà il tema dell’originale pubblicazione, di imminente uscita, “Il Salto di San Crimo”, nella quale l’autore Salvatore Ferruccio Puglisi raccoglie gli approfonditi studi rimasti inediti di Don Salvatore Virzì sul monastero basiliano e sul suo fondatore Cremete. Partendo dal… Giro d’Italia del 1954, una cui tappa attraversò il Comune dell’Alcantara.

   Seconda incursione nella narrativa per Salvatore Ferruccio Puglisi, insegnante nativo di Francavilla di Sicilia, ma residente in Veneto per lavoro: ambientalista (è stato fondatore e presidente della sezione francavillese di “Italia Nostra”), naturalista, appassionato di fotografia, autore di documentari in diapositive, campione di corsa podistica e da alcuni anni anche scrittore. Puglisi aveva già avuto a che fare con l’editoria, inizialmente dando alle stampe delle pubblicazioni riguardanti rispettivamente la flora spontanea e le testimonianze preistoriche nel territorio della Valle dell’Alcantara per poi, cinque anni fa, cimentarsi nel genere del romanzo con “Gli zucchini di Loto”. Adesso è lui stesso a preannunciarci l’imminente uscita del suo secondo lavoro letterario, dove gli aspetti autobiografici si innestano nella ricerca storica.

   “Il Salto di San Crimo” sarà il titolo della nuova opera di Puglisi, interamente incentrata sul “leggendario” monastero basiliano comunemente denominato “Batiazza” (ossia “grande abbazia”) i cui ruderi (parti di pareti perimetrali, alcune strutture ad arco attestanti l’esistenza di un opificio per la vinificazione, una grande aia inamovibile, una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, qualche tomba rupestre e tanti mucchi di macerie indistinte) svettano sulla sommità di un’altura dalla strana forma cilindrica e con pareti a strapiombo ubicata nel territorio del Comune natio dell’autore, ossia Francavilla, a meno di quattro chilometri dal centro abitato nelle adiacenze della strada che conduce a Mojo Alcantara e Novara di Sicilia.

Per quanto ci riguarda, abbiamo avuto il privilegio di leggere in anteprima il prologo di Salvatore Ferruccio Puglisi a tale suo scritto e ci ha già incuriosito l’originale approccio dell’autore alla tematica trattata: fatti e personaggi “austeri” dell’età medievale vengono, infatti, introdotti dal nostalgico “amarcord” di un evento per così dire “effimero”, ossia il passaggio da Francavilla della… seconda tappa del Giro d’Italia nella memorabile giornata del 22 maggio 1954, quando il Puglisi era ancora un fanciullino di sei anni.  L’autore attinge, dunque, alla suggestiva tecnica del “flashback”, spesso impiegata nel cinema e consistente nel partire da situazioni contemporanee per poi proiettarsi a ritroso nel tempo.

   Nel caso di specie, a fare da “ponte” tra passato recente e passato remoto è proprio quello “storico” pomeriggio del ’54, quando ai francavillesi festanti per il passaggio dal proprio paese della popolarissima competizione ciclistica nazionale si contrapponeva contemporaneamente l’esperienza parallela, ma profondamente diversa, di un intellettuale che in quello stesso giorno decideva di recarsi, in tutta solitudine, in escursione alla volta della maestosa rocca della “Batiazza” per tentare di carpirne i misteri, ma finendo col rimanere piuttosto infastidito dalla chiassosa e strombazzante carovana del Giro che, prima di addentrarsi nel centro abitato di Francavilla, transitò ai piedi dell’altura su cui a tutt’oggi si ergono i resti dell’antico cenobio.

   Lo studioso in questione altri non era che l’illustre sacerdote salesiano Don Salvatore Calogero Virzì, docente di materie letterarie al Collegio “San Basilio” di Randazzo, con il quale Salvatore Ferruccio Puglisi si sarebbe incontrato otto anni dopo essendone stato allievo in quinta ginnasiale presso il collegio del Comune etneo, che a sua volta, prima che nel 1867 gli ordini religiosi venissero soppressi, aveva fatto da nuova sede dei monaci basiliani, probabilmente trasferitisi dalla “Batiazza” perché andata in rovina (anche a seguito del disastroso terremoto verificatosi sul finire del XVII secolo) o a causa del clima rigido e delle avversità atmosferiche che, durante i mesi autunnali ed invernali, rendevano pressoché invivibile quel particolare lembo sopraelevato di territorio francavillese.

   «Il compianto Don Virzì – spiega Salvatore Ferruccio Puglisiha condotto un’accurata ricerca sul monachesimo basiliano e su San Cremete, fondatore e primo abate dell’eremo di Francavilla, intitolato a San Salvatore della Placa. Al sottoscritto e ad altri allievi che venivamo dal Comune dell’Alcantara, amava parlarci spesso di Cremete.

   «Ci raccontava, in particolare, che “nella seconda metà del secolo XI, sui monti di Placa viveva questo santo eremita, attorniato da vari animali selvatici che lui era riuscito ad addomesticare. Un giorno, accompagnato dalle sue docili bestie, si presentò al Conte Ruggero, che con il suo esercito si recava a Troina per combattere contro i Mori, il quale rimase affascinato dalla figura di quel mistico. Così, salito con lui sulla sommità della rocca, gli concesse di erigere in quel posto un monastero di cui Cremete diventò l’abate ed il superiore degli altri suoi confratelli.

   «Ma un giorno alcuni monaci non vollero più ubbidire alla sua regola basiliana e pensarono di liberarsi di lui buttandolo giù dalla rocca. Ciò malgrado, Cremete sarebbe rimasto miracolosamente illeso (morì poi il 6 agosto del 1116) e, da quel momento, cominciò ad essere considerato un santo”.

   «Da qui – prosegue l’autore – il titolo di questo mio nuovo scritto (“

Collegio San Basilio – Randazzo

Il Salto di San Crimo”), che peraltro è un’espressione già usata da Antonio Filoteo degli Omodei, storico di Castiglione di Sicilia del 1500.

   «Purtroppo Don Virzì, deceduto nel 1986 all’età di settantasei anni, non fece in tempo a pubblicare questo suo studio su San Cremete ed i basiliani, di cui resta solo una semplice bozza dattiloscritta. Mi sono quindi prodigato per avere una copia di essa e, con mia grandissima sorpresa, in quei fogli ho rinvenuto anche un intero paragrafo dedicato alla descrizione della visita fatta dal religioso ai ruderi del monastero il 22 maggio del 1954 quando io, ancora scolaretto di prima elementare, ero invece tutto preso, così come l’intera popolazione francavillese, dal passaggio del Giro d’Italia.

   «“Il Salto di San Crimo” l’ho dunque articolato in due parti: la prima riguarda il mio personale ricordo di quel pezzo di storia sportiva nazionale transitata da Francavilla, mentre nella seconda ho integralmente riportato quanto scritto dal prete salesiano su quella stessa giornata, da lui vissuta in un contesto totalmente diverso da quello di noi “gente comune”».

   Mentre oggi Salvatore Ferruccio Puglisi si occupa della “Batiazza” di Francavilla dal punto di vista storico-letterario, in passato se ne è occupato da ambientalista per denunciare, in particolare, l’inopportuna installazione di freddi ed antiestetici tralicci dell’alta tensione nelle immediate adiacenze di quell’angolo di antichità.

   Tornando a “Il Salto di San Crimo”, sarà questa la seconda pubblicazione interamente dedicata all’anacoreta francavillese ed alla sua “Batiazza”. Nel 2004, infatti, lo scultore Mario Restifo, anche lui originario della cittadina dell’Alcantara, si cimentò nella narrativa con il romanzo “Il Nido dell’Aquila”, ispirato alle vicende mistico-leggendarie di San Cremete, i cui resti del capo sono conservati in un reliquario di bronzo dorato ed argento custodito nella basilica di Santa Maria a Randazzo.

Rodolfo Amodeo

 

UNA VITA DEDICATA A RANDAZZO  di Salvatore Agati 

Salvatore Agati – Randazzo

Intorno alle ore 20:00 di venerdì 21 novembre si spegneva, sicuramente senza neppure accorgersene, al San Basilio di Randazzo, la casa salesiana più antica di Sicilia, il sacerdote professore Salvatore Calogero Virzì, dopo una vita interamente dedicata alla sua missione sacerdotale, alla cura dei giovani e al loro insegnamento, allo studio e alla ricerca storico storico-artistica.
E tutto questo egli seppe portare avanti con scrupolo, competenza e modestia, cosa oltremodo difficile da riscontrare nei tempi che viviamo.

Il nostro era nato a Cesarò, un paesino sui Nebrodi in provincia di Messina, da famiglia onesta e laboriosa, l’undici gennaio del 1910. Dopo avere ricevuto i primi insegnamenti nel luogo natio, lasciava la casa Paterna per frequentare le scuole ginnasiali al San Francesco di Sales di Catania.
A contatto con i Padri Salesiani coltivò e seguì la sua vocazione che lo avrebbero portato ad entrare definitivamente nella congregazione dei figli di Don Bosco nell’anno 1925.


Lo troviamo, subito dopo, a San Gregorio di Catania poi al San Paolo di Palermo e successivamente al San Domenico Savio di Messina dove, nel 1934, riceveva gli ordini sacerdotali.

Il giovane sacerdote, nello stesso anno dell’ordinazione, ritornava ancora a San Francesco di Sales di Catania. Ed era nell’Ateneo di questa città che aveva modo di continuare i suoi studi alla Facoltà di Lettere Classiche. Appena conseguita la laurea, era il 1937, veniva trasferito a Randazzo, l’antica cittadina che tanto lustro aveva avuto nel Medioevo, dove avrebbe avuto modo di rafforzare non solo le sue attitudini all’insegnamento, ma anche la sua passione per la storia e l’arte, a contatto con un immenso patrimonio, di cui diverrà negli anni, il conoscitore più profondo e qualificato. In questo suo slancio e attaccamento troviamo il significato della sua ininterrotta presenza a Randazzo, dove rimase per il resto della sua vita.
Da persona sensibile alla cultura classica e all’arte in particolare, dove si rimane incantato della vecchia città medievale che, sebbene già scalfita dal tempo ma ancora integra nell’originaria bellezza, gli offre un insieme architettonicamente omogeneo nelle mura di cinta e nelle torri di guardia, nelle chiese e nei campanili, nei palazzi e nelle case, nelle vie e nei vicoli, nelle piazze e negli slarghi, negli elementi decorativi e nei colori.
Se a tutto questo si aggiungono ancora l’impareggiabile oreficeria, le ricche e originali suppellettili sacre, le magnifiche tele e pale pittorica, le pregevoli e maestose sculture, patrimonio di una gara esaltante tra la popolazione, che nei tre quartieri ritrovava nelle rispettive chiese di Santa Maria, Santa Nicola e San Martino il fulcro di ogni alterità partecipativa, si capisce subito come l’incanto del primo contatto si sia trasformato in un ardente desiderio di ricerca attenta e di studio meticoloso, volto a svelarne ogni particolare storico ed artistico.


Se i ricordi di una lunga collaborazione tra un maestro e un discepolo possono diventare testimonianza e messaggio, posso affermare che l’amore di Don Virzì per Randazzo nacque dalla consapevolezza scientifica che la città rappresentasse uno “scrigno di tesori” da custodire gelosamente per una migliore conoscenza di tutto ciò che i siciliani erano riusciti, sui tanti influssi portati dall’esterno, a realizzare attraverso un proprio ed originale processo creativo: Randazzo, per gli aspetti di presenza e di continuità nei tanti filoni dell’arte, rappresentava per don Virzì la più significativa chiave di lettura per comprendere l’insopprimibile bisogno espressivo del popolo siciliano.
Non aveva Don Virzì, del tutto penetrato le pieghe del complesso patrimonio artistico dell’antica città medievale del valdemone, quando sopraggiunsero i terribili giorni del luglio-agosto 1943. Infatti, nel tentativo di forzare la ritirata dei tedeschi, attestatisi sull’Alcantara lungo il confine tra la provincia di Catania e quella di Messina, gli anglo-americani misero in atto una serie di incursioni aeree e di bombardamenti che rasero al suolo Randazzo. Nei giorni che seguirono, il giovane sacerdote mentre da un lato si prodigava a portare aiuto e sollievo alla provata popolazione, dall’altro non trascurava di annotare le distruzioni e le mutilazioni che l’insieme architettonico e artistico della città avevano subito.
Va ricordato che don Virzì fu tra i pochi a sostenere che la municipalità randazzese avrebbe dovuto richiedere al governo centrale la costruzione di una città nuova, da erigersi in continuità con il centro storico, anch’esso da ricostruire e restaurare. Ciò avrebbe evitato l’obbligatorio intervento del privato che, da solo, non avrebbe assolutamente potuto salvare l’antico.
Difatti così avvenne, per cui alla distruzione della guerra seguì quella di una ricostruzione affrettata e disordinata, ma comunque necessaria. Il guasto si verificò sia sul fronte della salvaguardia che su quello, non meno importante delle legittime aspettative per avere un’abitazione dignitosa e adeguata ai tempi. Se vogliamo, su questa primaria esigenza, si pose, subito dopo, il doloroso esodo migratorio.

Questa sua visione, va chiarito, non era assolutamente limitativa, quasi che lo studioso volesse mummificare il centro storico escludendolo da ogni attività futura, così come non intendeva certo alla ricostruzione di una città nuova avulsa dal suo contesto. Queste idee erano belle lontane dalla mente lucida e competente di Don Virzì.
Lo scopo, invece, era duplice: dare un’abitazione immediata alla popolazione, secondo l’urgenza, legata alle necessità di sopravvivenza che il momento richiedeva, salvaguardando il centro storico da una ricostruzione frettolosa, non per paralizzarlo, ma per attuarla in una fase successiva, secondo un programma ben definito di restauro e di conservazione degli elementi architettonici, stilistici ed estetici, per realizzare un complesso cittadino armonico, ordinato ed omogeneo, di cui il centro storico stesso avrebbe dovuto essere il fulcro.

La linea di azione di Don Virzì, da quel momento in poi, non poté indirizzarsi, di conseguenza, se non verso una mediazione tra i bisogni della gente e le aspirazioni dell’uomo di cultura convinto che si dovessero conservare tutte le testimonianze del passato. Il fatto di non essere riuscito a fare capire il senso della sua azione gli provocò il dolore più grande della sua vita.
Tuttavia, va precisato che mentre sarebbe riuscito a comprendere e giustificare gli interventi di ricostruzione dettati da necessità, non avrebbe invece mai scusato la mancanza di volontà e di comprensione della classe dirigente nel non aver saputo porre il problema della Ricostruzione nei termini in cui andava condotto.

Nello stesso periodo in cui maturarono questi avvenimenti, Don Virzì penso bene di dovere rivolgere la sua azione educativa verso i giovani.
E la frequentatissima scuola dei Salesiani gliene diede larga occasione. Ecco, quindi, i due filoni lungo e quali l’azione dello studioso si indirizzo: la ricerca e lo studio, da una parte, e la divulgazione dall’altra. Capì, altresì, che le sorti del patrimonio storico-artistico di Randazzo non sarebbero passate solo attraverso l’azione municipale, ma principalmente attraverso la sensibilizzazione degli uomini di cultura presenti a tutti i livelli.
E in questo la sua lezione fu senz’altro più incisiva e proficua: la città divenne punto di riferimento di quanti, ed erano pochi, continuarono a credere che la conservazione del patrimonio dei progenitori sarebbe stata di valido aiuto anche al risveglio dell’attività turistica.

Ed è così che si concretizza la sua azione permanente di educazione, di sensibilizzazione e di divulgazione alla quale si dedica con impegno, passione e costanza: conferenze, dibattiti, articoli su giornali e riviste, tutto tende ad approfondire e a far conoscere Randazzo.
Nella città,come ebbe modo di affermare durante una conferenza, egli vedeva la “chiave della Sicilia sia per la storia che per l’arte”. Fu un conferenziere dalle qualità espressive stringate ma complete nell’essenzialità.
Il suo disquisire fu tanto interessante da fare perdere la dimensione temporale all’auditorium, il linguaggio usato nelle descrizioni tecnico e semplice, fu proprio di chi conosce la storia dell’arte in ogni sfumatura.

Da corrispondente di molti giornali, con i suoi articoli, pubblicati su quotidiani e periodici a diffusione nazionale, riuscì a suscitare tale interesse nei lettori, anche stranieri, da indurli a visitare Randazzo per verificare se quell’atmosfera di suggestione che, con i suoi scritti, aveva saputo creare sulla cittadina, aveva riscontri con il reale. Ma la sua opera non si fermò solo alle conferenze e agli articoli. Pur privo di mezzi, ma non di volontà, andò oltre: animò l’istituzione della Pro Loco, fondò l’associazione di Storia Patria “Vecchia Randazzo”, divenne ispettore onorario della Sovrintendenza ai Beni Architettonici, Artistici e Storici, istituì e tenne personalmente dei corsi per guide turistiche randazzesi.
Ma il frutto più significativo e proficuo della sua attività sono le opere edite ed inedite. Ed è citandole che sono certo di rendere il miglior omaggio alla memoria dell’uomo, dello studioso, del sacerdote, del ricercatore attento che, con molta umiltà, mise il suo ingegno e la sua opera al servizio di Randazzo: “Randazzo e le sue opere d’arte” del 1956, “Randazzo” del 1965,  “Il R. Castello di Randazzo” del 1968,  “Sulla venuta di Nino Bixio nell’agosto del 1860 a Randazzo” del 1968,  “Storia della città di Randazzo” del 1972,  “Breve guida attraverso i monumenti artistici della Città di Randazzo”del 1973,  “Randazzo nella sua storia e nei suoi costumi” del 1975,  “Alcantara” del 1975, “Taormina” del 1979,  “Randazzo 1848” del 1980, “Un itinerario etneo” del 1983,  “La Chiesa di S. Maria di Randazzo”del 1984.
In ultimo, non si può non sottolineare un altro aspetto importante della personalità di don Virzì, cioè quello di educatore, che pose l’insegnamento a base del suo quotidiano lavoro. In più di 50 anni di cattedra, curò i rapporti con le tante generazioni in modo personalizzato, tanto che in Lui gli allievi videro sempre non solo il docente, preparato e puntiglioso, ma, principalmente, l’amico, l’uomo che, in ogni occasione, era pronto a dare consigli ed anche ad aiutare. Ed è per questo, maggiormente, che oggi tutti coloro i quali lo hanno avuto per maestro lo piangono.

Salvatore Agati .  Randazzo Notizie n.19 del novembre 1986 

 

GIUSEPPE SEVERINI

Giuseppe Severini – Randazzo

 

 

Laurea in storia medievale, Milano 1981. Studi musicali conservatorio di Padova, apprendistato di liuteria presso numerosi maestri italiani, dirige la Casa della Musica e della Liuteria a Randazzo, esposizione didattica permanente con 60 ricostruzioni di strumenti musicali funzionanti dalla Preistoria alla Grecia classica al Medioevo. www.secolibui.com

 

 

 

La Casa della Musica e della Liuteria (Via Santa Caterinella, 21 – Randazzo)

 

 

Via Santa Caterinella, 21 – Randazzo

Un vero e proprio viaggio tra musica, preistoria e storia al lume di candela in un atmosfera fuori dal tempo. Non è un museo, né un esposizione, bensì un laboratorio vivente! 

Circa cinquanta strumenti musicali, vengono esposti e presentati al visitatore all’interno di un edificio storico (probabilmente un ex alloggio militare) risalente al XII secolo, con interventi di rifacimento datati intorno al XII-XV secolo, nei pressi di quanto rimane dell antico Palazzo Reale distrutto durante il terremoto del 1693.

 

 

 

Severini, l’artigiano che crea musica a Randazzo
«La Catania che non c’è più, patria della liuteria»

LUISA SANTANGELO 22 MAGGIO 2016

CULTURA E SPETTACOLI – Sessant’anni, 22 passati nel borgo medievale del Catanese. Madre messinese, padre calabrese, nato a Milano: a chi gli chiede perché abbia scelto quel paese risponde che segue «una melodia interiore». Che insegna ai turisti che affollano la sua casa museo e agli allievi dell’orchestra Falcone e Borselli

Giuseppe Severini

«Una domanda troppo difficile. Dirò che seguo la mia musica interiore». È una risposta evasiva quella che Giuseppe Severini, liutaio 60enne ed esperto di melodia medievale, sceglie di dare a chi gli chiede come mai, 22 anni fa, sia finito a vivere a Randazzo. Madre di Messina, padre calabrese, nato a Milano: di motivi per trasferirsi nel piccolo centro del Catanese ne ha trovati tanti. «È un paese che, per me, risuona», dice. Merito della natura: l’Etna da una parte, i Nebrodi dall’altra, l’Alcantara vicinissimo. «E poi ho trovato a pochi soldi una casa trecentesca – racconta – Vivo in un modo più naturale, come piace a me, ho costruito il mio laboratorio». Dove crea strumenti musicali che sarebbero stati d’uso comune quasi un millennio fa. «Io suono la ghironda, la viella e il salterio», spiega.

Su Trip Advisor, il portale che raccoglie recensioni su luoghi e attrazioni, la Casa della musica e della liuteria di Severini, aperta cinque anni fa, è la seconda tappa più popolare. Subito prima c’è solo la chiesa principale del borgo noto per essere un piccolo gioiello della storia e dell’architettura del Medioevo in Sicilia. «Ormai la gente sa dove andare già prima di partire – dice l’artigiano – Quando partono dagli Stati Uniti, dopo aver guardato Trip Advisor sanno già che verranno a sbattere da me». Che è un po’ quello che è capitato a una troupe di una tv giapponese che, il mese scorso, ha passato qualche giorno con lui a documentare la sua vita. «Grazie a internet non hai più bisogno di mettere i cartelli e di farti pubblicità, le persone ti trovano», sorride. Nel suo caso, oltre che lui trovano anche una casa museo. Con 50 posti a sedereun centinaio di strumenti musicali e un immenso campionario di pietreramiconchiglie ossa per «permettere ai visitatori di ascoltare i suoni e i rumori della natura, prima di sentire le spiegazioni sulla musica nell’antica Grecia e, infine, nel periodo medievale».

 

È l’attività delle visite guidate a permettergli di andare avanti. Assieme al lavoro di liutaio nel vero senso della parola: «C’è stato un periodo di grande entusiasmo per la musica antica – ricorda – Dopo il fenomeno Angelo Branduardi è diventata una moda». Ma, come tutte le tendenze, anche quella si è rivelata passeggera. E ha lasciato il posto a una crisi del settore della liuteria che lui ha sentito poco solo perché più che con l’Italia lavora con l’estero. «Prevalentemente con la Francia, perché lì si fa più ricerca – afferma il musicista – Con qualche amico, visto che in questo settore siamo tutti un po’ dei cloni, stiamo pensando di esplorare anche Germania e Fiandre». Dove l’interesse per quelli che sono passati alla storia come i secoli bui non si è mai affievolito.
Motivo per il quale, a differenza che in Italia, c’è più concorrenza. «Da Roma in giù io sono uno dei pochissimi. 
In Sicilia noi liutai specializzati siamo in tre: due nel Palermitano e io».

casa della musica e della liuteria

Numeri strani se si pensa che Catania «una volta era la capitale della liuteria: si producevano un sacco di chitarre, mandolini… La qualità non era sempre eccelsa, ma andavano in tutte le parti del mondo».
Oltre l’Europa e al di là degli oceani. «Io – racconta Giuseppe Severini – ho fatto in tempo a conoscere uno degli ultimi, negli anni Ottanta, ma di lì a qualche anno hanno chiuso quasi tutti.
Quello è 
un bel pezzo di città sparita, una Catania che non c’è più». Colpa della concorrenza della produzione industriale, ma anche degli ascoltatori, sempre meno abituati alla musica acustica.
Restano cose, però, che hanno un valore profondo.
Come il suo lavoro volontario con gli allievi dell’
orchestra Falcone e Borsellino, a cui ha «incollato qualche violino e raccontato la storia della melodia».
Ma ai bambini ha anche spiegato che la musica ha due livelli: «Quello operativo, che porta a una carriera musicale – elenca – E quello meditativo: questo è il livello che appartiene a tutti e 
da cui parte il riscatto sociale.
Il suono è una facoltà di cui bisogna riappropriarsi e che aiuta a costruire l’umanità
Quella individuale e quella collettiva».
Luisa Santangelo  

 

Una personalità da conoscere Giuseppe Severini: il fondatore della Casa della Musica di Randazzo Quella di Severini è un’esperienza originale nella diffusione della cultura medievale attraverso l’arte, la musica e la poesia. Un’arte viva, in grado coinvolgere e stimolare la creatività di chi indirettamente vi partecipa.  Francesca Bisbano

Una personalità poliedrica ed eclettica, è senz’altro ciò che colpisce maggiormente del maestro Giuseppe Severini. Artigiano, musicista, attore, rievocatore, ma anche studioso di musica antica, egli si presenta quale interprete vivente di un complesso periodo storico-musicale occidentale. 
Dalla preistoria alla musica barocca, con evidenti richiami alla tradizione celtica e all’arabo-mediterranea, quello del Maestro Severini è un minuzioso ed attento lavoro di ricostruzione e ricerca umanistica.
Impegno, ma prima di tutto una passione, che si articola in due fasi principali: una pratica, finalizzata alla fedele riproduzione di antichi strumenti musicali, in particolare: liuti, vielle ed altri strumenti a corda, diffusi durante il medioevo in Europa; ed una artistica, che vede la messa in scena di spettacoli di ogni sorta, con spiccata predilezione nei confronti dell’arte giullaresca e dunque verso il mostruoso e il grottesco, il tutto ispirato alle illustrazioni del Roman de Fauvel, nonché ai testi di Ciullo d’Alcamo e alle famosissime Novelle del Bocaccio.
Un percorso, se vogliamo, che inizia con un’esperienza: quella dell’associazione Secoli bui e raggiunge l’apice con la recente creazione della Casa della Musica nel cuore della città di Randazzo, ormai sintesi di uno studio consolidato da anni. Una casa, che nasce prima di tutto dalla necessità di organizzare e concentrare i risultati ottenuti negli ultimi anni, tanto dalla realizzazione dei manufatti, assai fedeli alla tradizione, quanto nella messa in scena degli spettacoli di animazione, in tutta la Sicilia.
Per cui, se la tradizione medievale concepisce l’arte e la musica inseriti in una cornice sacra (prima di tutto) e profana, è bene spostare l’attenzione su quell’aspetto in genere sottovalutato, ossia sull’interesse per il mondo giullaresco e del burlesco per eccellenza. Si sappia che il giullare era anche poeta, narratore, affabulatore e musicista, testimone dunque di un’arte fuori dal contesto. Arte che per la sua freschezza, nonché per l’intramontabile attualità di alcune sue composizioni, ispira oggi il lavoro di Severini, perché sia messa in musica com’era in uso all’epoca.
Il tutto è seguito dalla riscoperta di autori più o meno famosi, quali: Jacopo da Lentini, inventore del Sonetto come forma di composizione poetica, Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, il citato Ciullo d’Alcamo, che è uno dei monumenti più antichi del Volgare italiano, sino al Boccaccio, la cui opera testimonia vivissimi squarci di vita medievale.
Per di più, gli adattamenti ridotti all’essenziale, con spiccata tendenza nel sottolineare battute ardite e piccanti, o nel descrivere situazioni divertenti, talvolta paradossali fino alla conclusione “a sorpresa”, intervallate tanto da brevi dialoghi concitati fra due improbabili amanti, quanto da musiche diversificate, catturano immediatamente l’attenzione dello spettatore. Chi vi assiste, ne rimane totalmente coinvolto. 
Non si tratta dunque di semplice arte per fare teatro, bensì di capacità nel richiamare al presente particolari momenti di un’era lontana, a volte oscura o scarsamente apprezzata. Ed ecco che con l’ausilio di pochi oggetti scenici, un ritmo di danza e qualche battibecco acceso fra i personaggi, lo spettatore diviene parte integrante della rappresentazione, proiettato in un mondo popolare e farsesco. 
La musica poi, rievoca sensazioni remote. Essa nasce prima di tutto, dalla ricerca dei suoni naturali e dalla loro applicazione ad un repertorio, accuratamente scelto per illustrare via via i diversi periodi storici.
Così, mentre il suono dei rombi in legno o in osso, sembra riprodurre quella che un tempo era considerata l’evocazione degli spiriti; i fischietti, il canto degli uccelli e corni e conchiglie, il rumore del mare; quello di lire, flauti e cimbali, sembra richiamare tutta la bellezza dell’antica civiltà Greca.  Tra il sacro ed il profano, piccoli cori di voci accompagnati da uno o più strumenti richiamano alla memoria ora l’intensa spiritualità di polifonie monastiche del secolo XII, come il “Ludus Danielis”, o di canti devozionali di pellegrinaggio del XIII e XIV secolo, tratti da famose raccolte, quali il Codex Callixtinus, o le Cantigas de S.Maria, o il Llibre Vermell de Monserrat, o il Laudario di Cortona; ora la freschezza e l’immediatezza delle composizioni trovatoriche, come quelle di Guglielmo IX di Aquitania, Raimbaut de Vaqueiras o di Bertrand de Born.  Quella di Severini è un’esperienza non isolata, ma senz’altro originale per quanto essa costituisca oggi, uno dei mezzi maggiori di diffusione della cultura medievale sotto ogni aspetto: artistico, musicale e poetico! Si tratta dunque di un’ arte viva capace di coinvolgere e di stimolare la creatività di chi indirettamente vi partecipa.

Francesca Bisbano 

 

Descrizione – Gli ultimi giorni di Don Piddu

Un uomo anziano negli ultimi giorni della sua vita viene a co­noscenza di un evento misterioso in grado di chiarire la storia del suo paese. Una giovane donna nel dramma del 1492, quando gli Ebrei furono cacciati dai domini spagnoli.


La vicenda di un priore carmelitano alle soglie della santità, ucciso “per errore” da un suo concittadino. Anni ruggenti e declino di una bella ragazza di provincia.

Questi i temi dei racconti più importanti di Gli ultimi giorni di Don Piddu, che illustrano una Sicilia contemporanea, sospesa tra la ricchezza del suo passato e la realtà presente

 

 

 

 

Prof. Domenico Ventura

Prof. Domenico Ventura 

(Dipartimento “Economia e Impresa”)

 Dati anagrafici:

Data di nascita: 09 marzo 1949

Luogo di nascita: Catania

Curriculum accademico:

1972, 30 marzo: laurea in Lettere presso l’Università di Catania (110/110);

AA. 1972/73 – 1973/74: frequentazione della “Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari” dell’Università di Roma 1973, 1 febbraio – 1974, 31 ottobre: assistente incaricato supplente presso l’Istituto di Storia Economica della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania;

1974, 27 aprile: diploma del “Corso di specializzazione per la lettura e l’interpretazione di documenti commerciali dei secoli XIII-XVIII” conseguito presso l’Istituto Internazionale di Storia economica “Francesco Datini” di Prato (direttore: prof. Federigo Melis; presidente: prof. Fernand Braudel);

1974, 1 novembre – 1983, 5 gennaio: contrattista presso l’Istituto di Storia economica della Facoltà di Economia dell’Università di Catania;

1983, 6 gennaio – 2001, 31 ottobre: ricercatore presso il suddetto Istituto;

2001,1 novembre: professore associato di Storia economica nella Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania;

Attività di docenza:

AA. 1994/95–2003/04: incarico d’insegnamento di “Storia economica” nel Diploma Universitario in “Economia e Amministrazione delle Imprese”;

AA. 2001/02 –2008/09: incarico d’insegnamento di “Storia economica” nel Corso di laurea triennale in “Economia” (6 CFU);

AA. 2001/02 ad oggi: incarico d’insegnamento di “Storia economica” nel Corso di laurea triennale in “Economia aziendale” (9 CFU); dall’a.a. 2009/10 (due Corsi per complessivi 18 CFU);

Domenico Ventura

AA. 2001/02: incarico d’insegnamento di “Storia economica” nel Corso di laurea triennale in “Amministrazione e controllo” (6 CFU);

AA. 2001/02–2002/03: incarico d’insegnamento di “Storia della Sicilia” nel Corso di perfezionamento in “Economia Regionale”;

AA. 2002/03–2003/04: incarico d’insegnamento di ”Storia economica” nel Corso di laurea triennale in “Economia e gestione dei sistemi agroalimentari” (3 CFU);

2003, giugno: affidamento incarico per attività didattica nel Master “Management Turistico” nell’ambito del Programma Operativo Nazionale per le regioni (Catania);

2003, giugno: affidamento incarico per attività didattica nei Corsi postdiploma IFTS (Siracusa); 

AA. 2003/04–2006/07: affidamento incarico seminari a Gela nell’ambito della convenzione sottoscritta fra Provincia Regionale di Caltanissetta e Facoltà di Economia dell’Università di Catania per il Corso di laurea triennale in “Economia”; 

AA. 2004/05: incarico d’insegnamento di “Storia dell’agricoltura” nel Corso di laurea specialistica in “Management Turistico” (6 CFU);

AA. 2004/05-2008/09: incarico d’insegnamento di “Storia dell’impresa e dell’innovazione” nel Corso di laurea specialistica in Direzione Aziendale (6 CFU);

2006, luglio: affidamento incarico di “Storia delle organizzazioni internazionali” nel Master “Mercati internazionali e marketing per le P.M.I.” (Agrigento).

 Attività di formazione e ricerca:

AA.2003/04 ad oggi: componente del Dottorato di ricerca in “Organizzazione del territorio e sviluppo sostenibile in Europa” attivato presso il Dipartimento “Economia e Territorio” dell’Università di Catania; 

Affiliazioni:

– Società Italiana degli Storici dell’Economia

– Comitato di consulenza scientifica del Museo Civico Etno-Antropologico “Mario De Mauro” di Scordia (Ct)

– Comitato scientifico della rivista “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura” di Scordia (Ct)

– Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale (Socio corrispondente)

– Consiglio Scientifico dell’Istituto di Storia della Carta “Gianfranco Fedrigoni (ISTOCARTA)”.

 Pubblicazioni

 a) Monografie:

  • Edilizia, urbanistica ed aspetti di vita economica e sociale a Catania nel ‘400, Istituto di Storia economica, Collana di studi e ricerche diretta da Antonio Petino, 6, Catania, Università di Catania, 1984;
  • Randazzo e il suo territorio tra medioevo e prima età moderna, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1991;
  • Feudi e patrimoni in ascesa nel Seicento siciliano. Scordia e il principe Antonio Branciforti, Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Mauro”, Scordia 2004;
  • Città e campagne di Sicilia. Catania nell’età della transizione (secoli XIV-XVI), Acireale-Roma, Bonanno, 2006;
  • Cultura e formazione economica in una realtà meridionale. La Facoltà di Economia di Catania (1920-1999), Catania, Università di Catania, 2009;
  • Il servizio postale nella Sicilia moderna: una gestione privata in regime di monopolio (1549-1786), Acireale-Roma, Bonanno, 2012;
  • Fra Storia e Geografia. L’avventura della Storia economica a Catania tra le due guerre, Torino, Giappichelli, 2013;
  • «Baglio». Un’azienda vitivinicola nella Sicilia dell’Ottocento, Acireale-Roma, Bonanno, 2013.
  • Dalla parte degli esclusi. Stampa ed editoria in Sicilia ai tempi del Piano Marshall, Milano, F. Angeli, 2014.

b) Saggi:

  • Palagonia, A.D. 1579. (Da un anonimo registro notarile), Accademia dei Palici, Quaderni, 1, Palagonia 1997;
  • Scordia, 1628-1636. Dalla “fondazione” al primo rivelo, Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Mauro”, Testi e documenti, 1, Scordia 1998;
  • Note bio-bibliografiche e saggio introduttivo a M. DE MAURO, Notizie storiche sopra Scordia Inferiore, Catania 1868, ristampa anastatica a cura del Museo Civico Etno-Antropologico ed Archivio Storico “Mario De Mauro”, Coll. Riletture, 1, Scordia 2000.

 c) Saggi pubblicati in volumi collettanei:

  • Nella Sicilia del ‘400: terra e lavoro in alcuni contratti notarili del catanese, in Studi in onore di Antonio Petino, I, Momenti e problemi di storia economica, Catania 1986, pp.103-135;
  • L’impresa metallurgica di Fiumedinisi nella seconda metà del XVI secolo, in A. GIUFFRIDA, G. REBORA, D. VENTURA, Imprese industriali in Sicilia (secc. XV-XVI), Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1996, pp.131-214 ed ora in “Mediterranea. Ricerche storiche” (online) 2012, pp. 135-246;
  • Itinerario storico, in G. GAMBERA, Scordia e dintorni, Scordia, Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Mauro”, 2002, pp.9-38;
  • Economie e risorse boschive nella storia della Sicilia, in Storia e risorse forestali, a cura di M. Agnoletti, Firenze, Accademia Italiana di Scienze Forestali, 2001, pp. 275-289 e in “Archivio storico siciliano”, s. IV, vol. XXIV (1998), pp.303-321;
  • Medici ebrei a Catania, in Medici e medicina a Catania. Dal Quattrocento ai primi del Novecento, a cura di M. Alberghina, Catania, Maimone, 2001, pp.35-39;
  • La questione forestale in Sicilia nella pubblicistica di metà Ottocento, in Diboscamento montano e politiche territoriali. Alpi e Appennini dal Settecento al Duemila, a cura di A. Lazzarini, Milano, F. Angeli, 2002, pp.232-253;
  • Forme e attori dello spazio urbano catanese, in La memoria ritrovata. Pietro Geremia e le carte della storia, a cura di F. Migliorino e L. Giordano, Catania, Maimone, 2006, pp.253-274;
  • La “ricetta” di un medico contro la povertà in una comunità ricca…di ferro, in Il ferro e il buon governo. L’utopia politica ed economica del dottor Grappein e la Valle d’Aosta ai primi dell’800, a cura di S. Noto, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci editore, 2007, pp.177-203;
  • La Storia, in N. GAMBERA – D. VENTURA, Scordia. La Storia – Le Tradizioni – I Monumenti – L’Arte, Scordia, Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Mauro”, 2009, pp. 7-34.

d) Interventi a convegni:

  • Considerazioni su credito ed interesse in Sicilia (Randazzo, secc. XV-XVI), in Credito e sviluppo economico in Italia dal Medio Evo all’Età Contemporanea, “Atti del I Convegno Nazionale della Società Italiana degli Storici dell’Economia (Verona, 4-6 giugno 1987)”, Verona, Grafiche Fiorini, 1988, pp.173-190;
  • Intervento alla “XXI Settimana di Studi dell’Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini» (Prato, 10-15 aprile 1989)”, in La donna nell’economia. Secc. XIII-XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 1990, pp.158-159;
  • Edilizia e società a Randazzo nel Quattrocento, in Catania e il suo territorio. Bilanci e proposte storiografiche (Catania, 9-10 gennaio 1998), [Atti non editi];
  • Vite e vigna nella Randazzo del ‘400, in I beni culturali dei centri minori: Randazzo, fra recupero e valorizzazione (Randazzo, 17-19 aprile 1998), [Atti non editi];
  • Economia e risorse boschive nella storia della Sicilia, in History and Forest Resources, “International Conference (Firenze, 20-23 may 1998)”, pubblicato in Storia e risorse forestali, a cura di M. Agnoletti, Firenze, Accademia Italiana di Scienze Forestali, 2001, pp.275-289 e in “Archivio Storico Siciliano”, s. IV, vol. XXIV (1998), pp.303-321;
  • La Sicilia preindustriale nell’inventario di una cartiera settecentesca, in Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa nella storia economica italiana, “Convegno di Studi della Società Italiana degli Storici dell’Economia (Roma, 24 novembre 2000)”, a cura di S. Zaninelli e M. Taccolini, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp.337-356;
  • La questione forestale in Sicilia nella pubblicistica di metà Ottocento, in Processi di diboscamento montano e politiche territoriali. Alpi e Appennini dal Settecento al Duemila, “Convegno di Studio (Vicenza, 5-7 aprile 2001)”, pubblicato in Diboscamento montano e politiche territoriali. Alpi e Appennini dal Settecento al Duemila, a cura di A. Lazzarini, Milano, F. Angeli, 2002, pp. 232-253;
  • Forme e attori dello spazio urbano, in La memoria ritrovata. Pietro Geremia e le carte della Storia, “Convegno di Studio (Catania, 28-29 aprile 2003)”, pubblicato, con lo stesso titolo, a cura di F. Migliorino e L. Giordano, Catania, Maimone, 2006, pp. 253-274;
  • Tra storia e ambiente: viaggio nella Valle dell’Alcantara, in Centri storici e identità locale nella progettazione dello sviluppo sostenibile di sistemi del turismo, “Convegno di Studio (Catania, 27-29 ottobre 2003)”, a cura di V. Ruggiero e L. Scrofani, Catania, Dipartimento di Economia e Territorio dell’Università di Catania, 2004 [versione in CD];
  • Mondo rurale e Valdemone nel tardo Medioevo, in La Valle d’Agrò: un territorio, una storia, un destino, “Convegno Internazionale di Studi (Hotel Baia Taormina – Marina d’Agrò, 20-22 febbraio 2004)”, I. L’età antica e medievale, a cura di C. Biondi, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2005, pp.133-152;
  • Amministratori inglesi in terra di Sicilia: la Ducea di Nelson, Bronte e i Thovez (1819-1871), in Vices temporum, “Giornata di studio nel 150° anniversario della nascita di Benedetto Radice (Bronte, 30 ottobre 2004)”, a cura di E. Galvagno, Bronte, Edizioni Esiodo, 2005, pp.61-78 e in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, L (2006), pp. 129-152;
  • La «ricetta» di un medico contro la povertà di una comunità ricca…di ferro, in La figura e l’opera di César Emmanuel Grappein, “Convegno Internazionale in occasione del 150° anniversario della scomparsa (Cogne, 2 settembre 2005)”, pubblicato in Il ferro e il buon governo. L’utopia politica ed economica del dottor Grappein e la Valle d’Aosta ai primi dell’800, a cura di S. Noto, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci editore, 2007, pp.177-203;
  • Storia dell’autonomia, in All’ombra del Paradiso. Storia di uomini e storia di santi nel territorio di Castel di Iudica (Castel di Iudica, 29 marzo 2008), Atti non editi;
  • Tavola rotonda su: Gli anni del Risorgimento. Randazzo: società, economia e fatti d’arme (Randazzo, 4 agosto 2011), Atti non editi;
  • Sul ruolo della Sicilia e di Amalfi nella produzione e nel commercio della carta: alcune considerazioni in merito, in Alle origini della carta occidentale: tecniche, produzioni, mercati (secoli XIII-XV), Atti del Convegno (Camerino, 4 ottobre 2013), a cura di G. Castagnari, E. Di Stefano, L. Faggioni, Fondazione Gianfranco Fedrigoni, Fabriano, Istituto Europeo di Storia della Carta e della Scienza Cartaria, 2014, pp. 95-119;
  • I siti produttivi siciliani e la loro breve stagione (secoli XVIII-XIX), in Il patrimonio industriale della carta in Italia. La storia, i siti, la valorizzazione, Atti del Convegno (Fabriano, 27-28 maggio 2016), Fondazione Gianfranco Fedrigoni, Fabriano, Istituto Europeo di Storia della Carta e della Scienza Cartaria (di prossima pubblicazione negli Atti).

  e) Articoli:

  • Aspetti economico-sociali della schiavitù nella Sicilia medievale (1260-1498), in “Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania”, XXIV (1978), pp.77-130;
  • Pirateria, guerra ed economia in Sicilia tra medioevo ed età moderna, in “Annali del Mezzogiorno”, XIX (1979), pp.11-102;
  • Sul commercio siciliano di transito nel quadro delle relazioni commerciali di Venezia con le Fiandre (secc. XIV-XV), in “Nuova rivista storica”, LXX (1986), pp.15-32;
  • Medici e istituzioni pubbliche in Sicilia. Una condotta medica a Randazzo nel 1467, in “Archivio storico siciliano”, s. IV, vol. XII-XIII (1986-87), pp.31-56;
  • Prezzi e salari a Randazzo agli inizi dell’età moderna, in “Nuova rivista storica”, LXXII (1988), pp.113-138;
  • Dall’Archivio Datini : spedizioni d’armi nella Sicilia del Vicariato (1387-1390), in “Archivio storico pratese”, LXV (1989), pp.85-107;
  • Masserie e mulini: strutture produttive nella Sicilia moderna, in “Rivista di storia dell’agricoltura”, XXX (1990), pp.17-41;
  • Grano “russo” nella Sicilia del Quattrocento, in “Archivio storico italiano”, CXLVIII (1990), pp.793-806;
  • Per una storia dell’edilizia urbana in Sicilia agli inizi dell’età moderna, in “Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania”, XXXVI (1990), pp.257-285;
  • Cronaca di un riscatto. Dalle lettere di Giovanni Carocci, mercante pisano “schiavo” in Tunisi (1384-1387), in “Ricerche storiche”, XXII, 1 (1992), pp.3-20;
  • Uomini e armi per la difesa costiera della Sicilia (da un’inedita relazione del primo Seicento), in “Ricerche storiche”, XXII, 3 (1992), pp.527-552;
  • Bagliori industriali nella Sicilia cinquecentesca: cenni di una ricerca, in “Ricerche storiche”, XXIV, 1 (1994), pp.3-18;
  • Epidemie e attività commerciale. La Sicilia di fine Trecento nei documenti dell’Archivio Datini, in “Società e storia”, 66 (1994), pp.723-740;
  • Quando il carcere era un affare. A proposito di “jus carceris” ovvero di “raxuni di prigionia”, in “Società calatina di storia patria e cultura. Bollettino”, 4 (1995), pp.217-242;
  • L’azienda Datini e il mercato dei pannilana in Sicilia, in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, XLII (1996), pp.263-310;
  • Potere e criminalità nel Rinascimento siciliano: i Lucchesi di Naro, in “Società calatina di storia patria e cultura. Bollettino”, 5-6 (1996-97), pp.303-318;
  • “Privilegi” e iniziative industriali nell’Italia moderna: un fenomeno da riconsiderare, in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, XLIII (1997), pp.7-30;
  • L’industria cartaria in Sicilia e le sue origini “settecentesche”, in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, XLIV (1998), pp.137-162 e in “Ricerche storiche”, XXVIII, 2 (1998), pp.369-389;
  • Da un inedito rivelo (1636) un profilo del primo assetto demografico ed economico-sociale della Scordia moderna, in “Società calatina di storia patria e cultura. Bollettino”, 7-9 (1998-2000), pp.311-330;
  • Lo spazio e la corte del principe di Scordia. Documenti inediti sul palazzo Branciforti, in “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura”, 1 (2000), pp.45-69;
  • Potere e spazio urbano nella società medievale: gli Alagona di Catania, in “Memorie e Rendiconti” dell’Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, s. IV, vol. X (2000), pp.87-105;
  • Vite, zolfo e un prete innovatore nella Sicilia borbonica: Diego Costarelli (Acireale, 1854), in “Memorie e Rendiconti”, Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, s. IV, vol. X (2000), pp.107-146;
  • Potere, violenza e criminalità organizzata a Scordia nei secoli XVI-XIX, in “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura”, 2 (2001), pp.61-69;
  • Problemi d’inquinamento atmosferico nella Palermo borbonica (1831-1852). Prime note, in “Nuova Economia e Storia”, VII, 1-2 (2001), pp.39-47;
  • Rapporti agrari e vicende giudiziarie in un comune della Sicilia orientale tra Sette e Ottocento, in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, L (2004), pp.5-26;   
  • Vicende agrarie in contrada “Pennisi” o “Vitarva” (Acireale, 1781-1875), in “Agorà. Periodico di informazione culturale”, V, 16 (2004), pp.38-43;
  • La breve parabola di un capomastro sfortunato nella Sicilia del ‘600: Clemente Rubino da Randazzo, in “Agorà. Periodico di informazione culturale”, V, 19/20 (2004/2005), pp.57-63;
  • Mineo e la sua scuola ebraica di alta formazione medica (secoli XIV-XV), in “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura”, VI, 1 (2005), pp.47-57;
  • Per la storia delle élites locali. Il Consiglio Civico a Scordia tra il 1787 e il 1804, in “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura”, VII, 2 (2006), pp.121-143;
  • Santi Floridia, storico e geografo ispicese (1891-1940), in “Hispicaefundus. Rivista di storia e di cultura della Società Ispicese di Storia Patria”, V, n. 11, dicembre 2008, pp. 3-11 e, con il titolo Santi Floridia. Preside della Facoltà (1939-1943). Cenni bio-bibliografici, in “Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania”, LIV (2008), pp. 155-167.
  • Politica ed economia tra pubblico e privato. L’ascesa di un notaio “angioino” alle corti d’Aragona e di Sicilia, in “Nuova Rivista Storica”, XCII, fasc. III (2008), pp. 773-794.
  • Alle origini della Facoltà di Economia di Catania, in “Annali di Storia delle Università italiane”, 13 (2009), pp. 397- 408;
  • Un moderno Indiana Jones nell’Archivio di San Rocco [di Scordia], in “AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura”, XI, 19 (2010), pp. 89-91;
  • L’economia agraria del Calatino nella pubblicazione di un alto funzionario del Regno (Giuseppe Fovel, 1876), in “Rivista di Storia dell’Agricoltura”, L, 1 (2010), pp. 97-126;
  • Zolfo, mantici e un prete innovatore nella Sicilia borbonica, in “Nuova Economia e Storia”, XVII, n.1-2 (2011), pp. 37-66;
  • Nascita di una moderna azienda vitivinicola nella Sicilia postunitaria, in “Nuova Economia e Storia”, XVII, n.3 (2011), pp. 13-36;
  • Corrado Barbagallo. Il fulmineo passaggio di un Maestro nel R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Catania, in “Annali di Storia delle Università italiane”, 15 (2011), pp. 339-350;
  • Produzione e vendita di vino in un mercato siciliano di fine Ottocento, in “Nuova Economia e Storia”, XVII, n. 4 (2011), pp. 29-52;
  • Carlo M. Cipolla, straordinario di Storia delle esplorazioni geografiche nella Facoltà di Economia e Commercio di Catania (1949-53), in “Annali di Storia delle Università italiane”, 16 (2012), pp. 309-318;
  • Gaetano Platania, un geologo acese nel R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Catania (1923-30), in “Memorie e Rendiconti”, Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, s. VI, vol. I (2012), pp. 121-144;
  • Fiscalità statale e banchieri privati nella Sicilia alfonsina. A proposito dei meccanismi di riscossione e di deposito della regia collecta, in “Nuova Rivista Storica”, XCVIII, fasc. I (2014), pp. 267-288;
  • Vincenzo Feo (1844-1906). Profilo di un imprenditore che, dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, risuscitò e fece grande il cotonificio siciliano, in “Agorà. Periodico di informazione culturale”, n. 49 (2014), pp. 34-41;
  • In tema di consumi popolari. La neve di Buccheri sul mercato di Scordia (1636), in “AmpeloScordia. Aperiodico di Storia e Cultura”, a. XVI, n. 1, s. II (2015), pp. 18-25;
  • Umberto Toschi, ovvero la Geografia tra ricerca e didattica nella Facoltà di Economia dell’Università di Catania (1933-35), di prossima pubblicazione in “Annali di Storia delle Università italiane”.

f) Recensioni:

  • G. BARBERA CARDILLO, La Calabria industriale preunitaria. 1815-1860, Napoli, ESI, 1999, in “Nuova Economia e Storia”, V, 1-2 (1999), pp.115-117;
  • G. DE GENNARO, Piccoli paesi e grandi nazioni. Scritti di storia europea (secc. XVI-XX), Torino, Giappichelli, 1998, in “Nuova Economia e Storia”, VI, 1-2 (2000), pp.105-107;
  • A. SIGNORELLI, Tra ceto e censo. Studi sulle élites urbane nella Sicilia dell’Ottocento, Milano, F. Angeli, 1999, in “Nuova Economia e Storia”, VI, 3 (2000), pp. 111-114.

g) Altro:

  • Presentazione a L. GENUARDI, Sui demani comunali di Palagonia, a cura di A. Cucuzza, “Società calatina di storia patria e cultura. Studi e ricerche”, 1, Caltagirone 1997, pp.7-9;
  • Presentazione a A. CARUSO, Caltagirone e gli Alleati. Politica e società, 9 luglio 1943-25 gennaio 1944, Catania, Le Nove Muse, 2004, pp. 9-11;
  • Prefazione a A. CARUSO, Il Piano Marshall e la Sicilia. Politica ed economia, Torino, Giappichelli, 2013, pp. VII-VIII.

h) Collaborazione con saggi e recensioni alle seguenti riviste:

  • «Agorà. Periodico di informazione culturale»
  • «AmpeloScordia. Bollettino di Storia e Cultura»
  • «AmpeloScordia. Aperiodico di Storia e Cultura»
  • «Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Catania»
  • «Annali della Facoltà di Economia dell’Università di Catania»
  • «Annali del Mezzogiorno»
  • «Annali di Storia delle Università italiane»
  • «Archivio storico italiano»
  • «Archivio storico pratese»
  • «Archivio storico siciliano»
  • «Hispicaefundus. Rivista di storia e di cultura della Società Ispicese di Storia Patria»
  • «Memorie e Rendiconti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale»
  • «Nuova Economia e Storia»
  • «Nuova rivista storica»
  • «Ricerche storiche»
  • «Rivista di storia dell’agricoltura»
  • «Società e Storia»
  • «Società calatina di storia patria e cultura. Bollettino».

(aggiornato al luglio 2016)

Domenico Prof. Ventura

 

Articoli e Pubblicazioni

 

 

LINK

Domenico Ventura: “Randazzo e il suo territorio tra medioevo e prima età moderna”   (le prime 16 pagine del libro).  

Domenico Ventura : “ Masserie e Mulini strutture produttive nella Sicilia Moderna “.

CASA DELLA MUSICA E DELLA LIUTERIA MEDIEVALE

Nasce nel 2009 con l’intento di creare un punto di incontro per gli appassionati di musica, di artigianato, di belle arti in generale, dove sia possibile isolarsi ad ascoltare i suoni naturali degli strumenti musicali in un ambiente antico vicino alla natura.

Casa della Musica e della Liuteria – Randazzo

La Casa è un edificio costruito tra XII e XV secolo. Da un lato si affaccia sulla Via S. Caterinella, nel quartiere di S.Martino, dall’altro sporge sulla valle del fiume Alcantara e i monti Nebrodi.
Nella luce discreta dei suoi ambienti silenziosi sono custoditi oltre 60 strumenti musicali e oggetti sonori che documentano l’interesse umano per i suoni dalla Preistoria al Medioevo.
La singolarità di questa collezione è che tutti questi oggetti durante la visita vengono suonati dal loro autore, che ne spiega l’origine, le particolarità e la funzione. Nella stanza più grande 40 posti a sedere permettono anche a un pubblico numeroso, come gruppi scolastici e comitive organizzate, di godere della sosta negli ambienti medievali ravvivati dai racconti e dalla musica. Le visite serali a lume di candela.

 

L’ESPOSIZIONE

Giuseppe Severini – Randazzo

Si comincia dagli oggetti sonori utilizzati fin dall’epoca preistorica: frutti essiccati, mandibole di animali, ossa, legni, pietre, corni e conchiglie.
Seguono oggetti naturali modificati al fine di produrre suoni: canne e tibie di animali tagliate e forate per creare dei primitivi flauti, i primi strumenti ad ancia, precursori delle Zampogne, poi i “Rombi” preistorici ricavati da lastrine di osso o di legno, le “Cicale” fatte con gusci di noci, spago e legnetti.

Giuseppe Severini – Randazzo

 

Si prosegue con uno dei primi strumenti a corde, la Kythara greca, col Kanon di Pitagora, il primo “accordatore” della storia europea, l’Epinette des Vosges, l’Arpa medievale di Santiago de Compostela, e poi Salteri a percussione e infine i Liuti. 

Seguono una serie di strumenti ad arco, dai Rebab ricostruiti a partire dalle pitture della Cappella Palatina di Palermo (secolo XII) alle Lyre senza tastiera al Lyrone basso al “Violino siciliano di canna” alla Gusle yugoslava a una sola corda.
Infine la Symphonia e la Ghironda, le prime “macchine per la musica” medievali.
Inoltre si possono ascoltare le campane intonate del Tintinnabulum e, quando c’è vento, la tessitura di armonici dell’Arpa eolica.

Giuseppe Severini – Liutaio

 

 

 

E’ possibile acquistare un cd di musica medievale eseguito da Secoli bui, un DVD  sulla Casa e sugli strumenti musicali antichi, un libro di  racconti ispirati alla storia di Randazzo e anche piccoli strumenti musicali.

 

 

Randazzo, Catania, via S. Caterinella 19 aperto tutti i giorni. tel.349 4001357

fonte: www.secolibui.com

Un luogo forse unico in Italia
La Casa della Musica a Randazzo
Non è un museo, né un’esposizione, bensì un laboratorio vivente
Di Francesca Bisbano


 
  Casa della Musica e della Liuteria Medievale – particolare grande sala

Mille anni di storia quasi dimenticata oggi rivivono attraverso la passione di un esperto maestro liutaio nel cuore della città di Randazzo!
Quelli, che spesso sono definiti come Secoli Bui, adesso vengono presentati sotto una nuova luce dal continuo ed attento lavoro del maestro Giuseppe Severini, per cui l’attenzione si sposta nuovamente sullo strumento musicale e sulle sue tecniche di lavorazione.
Si parla di un’arte antica, tramandata e arricchita in tempi lontani attraverso le culture di tutto il mondo: dagli arabi, ai cinesi, agli europei, diversamente da quanto solitamente viene insegnato, l’attenzione al perfezionamento di dette tecniche cresce già a partire dal XII secolo, come testimonia una miniatura del tempo. Tuttavia oggi è possibile verificare detta consuetudine in quella che dallo stesso suo ideatore è stata ribattezzata come: “casa della musica e della liuteria medievale”!

Cos’è la Casa della Musica?
Non è un museo, né un esposizione, bensì un laboratorio vivente! Circa cinquanta strumenti musicali, vengono esposti e presentati al visitatore all’interno di un edificio storico (probabilmente un ex alloggio militare) risalente al XII secolo, con interventi di rifacimento datati intorno al XII-XV secolo, nei pressi di quanto rimane dell’antico Palazzo Reale distrutto durante il terremoto del 1693.

L’idea nasce dalla necessità di dare un ordine alla casa e valorizzare l’opera di chi ormai da anni propone una serie di spettacoli, comprendenti canti, danze, azioni musico-teatrali, nonché rievocazioni storico-medievali, in tutta la Sicilia. Chi vi entra può vedere, toccare ed ascoltare dal vivo gli strumenti musicali, venendo a contatto con una cultura ormai dimenticata: il tutto grazie anche alla particolare suggestività prodotta dagli ambienti interni. Parte degli intonaci, infatti, nonché dei recenti interventi, sono stati smantellati con l’intento di recuperare quanto più possibile dell’originario assetto strutturale, nonostante le evidenti tracce di bruciature su gran parte dell’edificio e che dunque in passato hanno giustificato i necessari rifacimenti.

 
  Casa della Musica e della Liuteria Medievale – Forme per la costruzione di un liuto

Tuttavia gli ambienti più importanti rimangono : la grande sala, dotata di circa trenta posti a sedere, ove è possibile assistere a varie dimostrazioni musicali in completamento alla presentazione di ogni singolo strumento a cura dello stesso Severini e il laboratorio del liutaio, con forno e cucina a carbone annessi, ove è possibile invece visionare le varie fasi di lavorazione o riparazione degli strumenti.

La vista comprende anche un’illustrazione della storia del quartiere San Martino che ospita l’edificio e delle origini del paese, sorto probabilmente sulle rovine dell’antica Tissa.

Perché visitare la Casa?

I motivi sono molteplici e fortemente soggettivi. Sicuramente una buona ragione risiede tanto nella curiosità, che essa suscita, quanto nella singolarità degli ambienti interni, che fanno perdere del tutto il contatto con la realtà esterna. Chi entra nella casa, entra nel passato!

 
  Casa della Musica e della Liuteria Medievale – Flauti

L’estrema semplicità e schiettezza degli arredi, ma sopratutto il suono dimenticato di Liuti, Campane, Conciglie, Salteri, Lyre ad Arco, Flauti di ogni sorta, Ghironde, Tamburi e tanti altri strumenti, ricordano al visitatore che un tempo, accanto ai canti gregoriani, gelosamente studiati e tramandati nelle maestose abazie o negli innumerevoli monasteri italiani, poichè considerati base della tradizione monodica medievale, è esistita anche la musica profana, legata ad una tradizione para-liturgica, che mostra verso gli strumenti e le forme musicali del tempo un’attenzione maggiore di quanto in genere s’ immagina.

Canti goliardici vengono posti all’attenzione degli ospiti, suoni remoti, antichi idiomi, come il lombardo del 1500, uniti a canti catalani e al “canso”, le cui strofe richiamano gli antichi filoni cortesi-cavallereschi, ricreano un’atmosfera unica, misteriosa, quasi magica, che colpisce anche l’anima dell’ospite più ignaro!

CASA DELLA MUSICA E DELLA LIUTERIA MEDIEVALE
Via Santa Caterinella, 21
95036 Randazzo (CT)
ingresso libero
www.liuteriaseverini.it
prenotare la visita:
cell 349 4001357 o con un
 messaggio

 

TERRITORIO ETNEO DI RANDAZZO: IL RIFUGIO FORESTALE DI MONTE SPAGNOLO (di E. Crimi)

Nella parte sommitale dell’Etna, a sud di Monte Spagnolo, a pochi metri dalla “bottoniera” eruttiva del 1981 e all’interno della nota faggeta di Randazzo, la mano dell’uomo, complice un ambiente ancora incontaminato, ha saputo realizzare un manufatto di grande attrattiva. Infatti, incastonato in un pianoro naturale a oltre 1400 metri di quota, troviamo il “Rifugio di Monte Spagnolo”, luogo di sosta obbligata per tutti gli escursionisti appassionati di questo territorio montano etneo, che trovano in esso un punto base per una semplice immersione nella natura incontaminata, oppure, per le passeggiate di alta quota che portano verso l’estremo limite di vegetazione arborea del vulcano più alto d’Europa e la famosa “Grotta del gelo”, nome dovuto alla sua caratteristica di mantenere una gran massa di ghiaccio al suo interno per quasi tutto il periodo dell’anno.

Questo rifugio, per la sua posizione geografica, per la pregevole fattura della struttura, per la sua ubicazione all’interno di una zona boschiva ben conservata, ma anche per le sensazioni intime ed indescrivibili che offre al gitante, da tanti anni rappresenta come un punto di riferimento per i viandanti che vogliono godere del paesaggio etneo e può senza dubbio definirsi come massima espressione del connubio natura – uomo. Il rifugio di “Monte Spagnolo”, è aperto e libero a tutti coloro che lo rispettano e lo sanno apprezzare e visitarlo è una sensazione unica che resterà impressa a lungo nell’anima del visitatore.

Ci sono mille motivi per salire fin lassù e visitarlo, ma soprattutto, per scappare dalla vita caotica e frenetica della città, in cerca di scenari naturali e autentici.

Quando sarete lassù a passare la notte, sappiate che è un rifugio semplice e spartano, non cercate le comodità cittadine, non siate troppo pigri da non alzarvi e perdere così un’alba che dopo aver inondato di luce Monte Spagnolo, s’infila quasi di striscio tra gli alberi di faggio, la sera non siate troppo stanchi e affamati da restare seduti dentro a tavola ma godetevi il calar del sole e il dolce passaggio dal giorno alla notte. Se sarete fortunati, forse potrete incontrare anche qualche piccolo animale selvatico abitante del luogo, infatti in questa zona, non è difficile fare la conoscenza diretta di conigli, lepri e volpi. Se incontrate il cattivo tempo, non perdetevi il temporale montano estivo, fatto di un composto caos, tra rumori assordanti e mille luci, per poi come d’incanto veder apparire il sole e poter respirare quell’aria fresca di “Madre terra” che vi laverà dentro… Anche solo per uno di questi momenti vale la pena di salire al rifugio di Monte Spagnolo.

Dopo aver vissuto queste sensazioni, tornerete un po’ più ricchi a valle, pensando che in fondo tutti salgono sull’Etna e poi, dopo poco o magari dopo giorni, quando sarete scesi, vi verrà la voglia di tornare ancora lassù, per scoprire un altro rifugio, così da rubare ancora alla montagna una nuova e indimenticabile emozione!

Enzo Crimi

ETTORE FOTI

TERRITORIO ETNEO DI RANDAZZO: LA LEGGENDARIA GROTTA DEL GELO (di Enzo Crimi)

La Grotta del Gelo, la cavità di origine vulcanica più conosciuta dell’Etna, si è formata a circa 2040 metri slm, sul versante nord-occidentale dell’Etna, in territorio di Randazzo, ed ha uno sviluppo di circa 125 metri e un dislivello di metri 30 circa. Anticamente utilizzata dai pastori per abbeverare il gregge, oggi è meta ambita dell’escursionismo etneo. Infatti, l’affascinante spettacolo offerto dalla visione di un piccolo ghiacciaio rappresentato da un consistente deposito naturale perenne di neve ghiacciata, ha stimolato da sempre la curiosità degli escursionisti che ritengono la grotta, certamente una delle più note delle oltre 300 presenti sull’Etna. Sin dall’alba del mondo, sappiamo che le grotte hanno sempre rappresentato dei veri e propri misteri e la storia antica e recente dell’uomo è ricca di fatti inspiegabili e non comuni legati alle grotte. Forme di paure ancestrali dell’irreale collettivo, rappresentate da demoni e spiriti maligni, abitanti delle viscere della terra, si sono intrecciate con le fantasiose storie leggendarie di maghi, divinità, esseri demoniaci, tesori nascosti (truvature) e briganti, i quali, sono stati i veri soggetti di fantastiche vicende. Nelle leggende a sfondo religioso, le grotte divengono teatro di eventi prodigiosi o straordinario ricettacolo che protegge manufatti e sacre immagini, preziose apportatrici di grazia divina. Quindi, nelle menti arcaiche e meno evolute, le grotte erano considerate luoghi sacri e al loro interno poteva avvenire una crescita sia contemplativa e spirituale che fisica o anche la maturazione della saggezza e della consapevolezza. Gli uomini primitivi, al loro interno, alla luce delle torce e, ancora prima, sperimentando e approfondendo il loro rapporto sacro e liturgico con il fuoco, trascorrevano la loro esistenza ed organizzavano la loro vita sociale, in particolare nelle ore notturne, quando praticavano i loro riti tribali e i loro banchetti. Le grotte sono anche delle aperture misteriose in un mondo oscuro e silenzioso e per l’uomo del neolitico, esse rappresentavano una porta d’accesso all’aldilà, ma non era un’aldilà come lo intendiamo oggi, era un mondo spirituale incastonato ed influente nel tessuto della realtà quotidiana. Quando si entrava in questo aldilà, si incontravano strani esseri, si vivevano esperienze particolari e mistiche, era un luogo che ispirava una potente energia, ecco perché spesso le grotte venivano usate anche come luoghi di preghiera arcaica e non di rado, al loro interno si celebravano rituali di sepoltura. Le grotte, quindi, non soltanto sono luogo di ricovero per animali selvatici o ispiratori di miti e leggende, esse sono anche permanenti e gelose guardiane della cultura e delle tradizioni popolari degli uomini antichi. Dunque, seppur non possiamo considerarla molto antica, sin dalla sua formazione, la Grotta del Gelo ha rappresentato un intrecciato motivo di studio antropico, storico ed anche geologico, dell’intrigante mondo ipogeo e del suo lento ed incessante scorrere del tempo. Un affascinante ed inconsueto viaggio all’interno delle recondite profondità, immersi in un silenzio magico, laddove in piena estate il ghiaccio cede il posto ad incantate ombre che si incontrano e si confondono in un gioco sempre nuovo ma occulto, che profuma di misterioso e arcano, ma che ogni piccola disattenzione può trasformarsi in rischiosa trappola. Il suo nome è la sua notorietà, sono dovuti alla sua caratteristica di mantenere una gran massa di ghiaccio al suo interno per quasi tutto il periodo dell’anno, ciò dovuto alla neve che viene spinta dal vento al suo interno facilitata dalla lieve inclinazione del suolo, alle infiltrazioni dell’acqua che si congela per le temperature fredde e al difficile scambio termico con l’ambiente esterno. Con queste condizioni climatiche, la massa glaciale, trovando condizioni di temperatura più favorevoli, ha eseguito una traslazione sul fondo della grotta dove mantiene il suo spessore, rendendo a periodi impraticabile il cunicolo finale. Per visitarla in primavera, si procede con l’utilizzo di attrezzatura alpinistica tra cumuli di neve presenti sin dall’inizio della galleria e attraverso stallatiti di ghiaccio pendenti dalla volta e un scivoloso strato di ghiaccio, si arriva ad un piccolo ambiente pianeggiante coperto da uno tappeto di ghiaccio cristallino, dal quale traspaiono grossi massi incastonati al suo interno. Da questo si dipartono due gallerie “rivestite” dal ghiaccio invernale: la prima diventa quasi subito impraticabile a causa della gran massa di ghiaccio, la seconda, più ampia, si sviluppa interamente all’interno del ghiacciaio direzione sud e verso l’uscita. La Grotta del Gelo rappresenta un caratteristico esempio di cavità ipogea originata da meccanismi eruttivi, essendo stata prodotta dal parziale svuotamento di una colata lavica, ed è abbastanza singolare per la notevole ampiezza che supera quella media delle comuni grotte laviche. Essa si apre a monte e precisamente nella parte iniziale delle famose “lave dei dammusi” che costituiscono il prodotto dell’eruzione che in diverse fasi e per 10 anni circa (1614-1624) interessò il versante settentrionale dell’Etna. Si tratta di una grotta di scorrimento lavico che segue un processo evolutivo che ha origine dalle colate laviche, le quali scorrendo lungo le pendici del vulcano, alle volte si creano dei percorsi per così dire paralleli. La parte esterna, in quanto a contatto con l’atmosfera, tende a raffreddarsi e a solidificarsi prima,
mentre il flusso lavico all’interno della colata mantiene il suo calore e continua a scorrere come in una galleria, sino a quando viene alimentato. Quando la colata incomincia ad estinguersi e pertanto il flusso non riceve più propulsione, la condotta si svuota e lascia il posto ad una grotta di scorrimento lavico. Attualmente la Grotta del Gelo non gode di ottima salute. Infatti, mentre all’inizio della sua formazione avvenuta verosimilmente verso la prima metà del XVII secolo, cioè qualche decina di anni dopo la fine dell’eruzione all’interno della quale si formò, il ghiaccio della cavità raggiungeva uno spessore di circa 2 metri, in questi ultimi anni il ghiaccio al suo interno si assottiglia sempre di più, tanto che a estate inoltrata ne rimane pochissimo e pertanto, essa perde il suo fascino. Ciò è dovuto probabilmente alle variazioni climatiche che stanno interessando il nostro pianeta, alle temperature meno rigide e nevicate sempre meno abbondanti, ai numerosi movimenti sismici del terreno che creano infiltrazioni d’aria che indeboliscono le proprietà coibenti della grotta e non ultimo, al disordinato afflusso dei visitatori che certamente andrebbe regolamentato.

ENZO CRIMI

IL LAGO GURRIDA DI RANDAZZO : IN SILENZIO DOVE RIPOSANO GLI AIRONI (di Enzo Crimi).

 

Lago Gurrida Randazzo

Il lago Gurrida, realizzato artificialmente verso la fine degli anni sessanta e inizio settanta, ha una capienza di circa 400 mila metri cubi d’acqua. Sotto il profilo morfologico il territorio complessivo che include il lago, esteso per circa 300 Ha, é caratterizzato dalla presenza in affioramento di un consistente strato di suolo di natura agrario, originato dal disfacimento di ammassi detritici, con presenze calcaree frammiste ad argilla. Situato ad una quota di circa 835 m. s.l.m., all’estremo settore nord-occidentale del dominio vulcanico etneo e può considerarsi, dal punto di vista geo-strutturale, uno degli anelli di congiunzione tra i terreni vulcanici e quelli sedimentari posti a settentrione, caratterizzati geologicamente da argille variegate marnose e quarzarenitiche identificate in letteratura geologica con il nome di “Flysch Numidico”.

La genesi geologica del sito ci fa pensare che questo comprensorio era in origine verosimilmente formato da una vasta vallata acquitrinosa generata ed alimentata dal fiume Flascio e che risentiva degli effetti delle eruzioni vulcaniche, dalle quali veniva spesso modificato. In seguito, a causa dell’imponente colata lavica che originò le lave di “Santa Venera”, secondo alcuni studiosi avvenuta tra il 1150-1170, secondo altri risalente al periodo preistorico, il fiume Flascio subì lo sbarramento e la deviazione verso il fiume Alcantara, attraverso un percorso sotto le mura sud della cittadina di Randazzo, dove prendeva il nome di fiume Piccolo.

In seguito, l’assetto idrogeologico del fiume Flascio venne mutato nuovamente a causa di un’altra eruzione vulcanica. Infatti, nel 1536 una colata lavica proveniente dal Monte Pomiciaro, posto a sud-ovest di monte Spagnolo, ha nuovamente sbarrato il corso del fiume Flascio, determinando così l’odierno bacino che compone il noto lago, mentre un’ampia parte esterna allo specchio d’acqua, di proprietà del Demanio Forestale Regionale, in realtà può essere definita un acquitrino nel periodo invernale che si asciuga quasi del tutto nel periodo estivo, quando il flusso idrico viene spesso a diminuire. A seguito di questo fenomeno di abbassamento del livello, l’acqua stagnante su tutto il comprensorio in parte si disperde, attraverso buche, fessurazioni e inghiottitoi naturali (pirituri), per immettersi nelle falde acquifere che vanno ad alimentare il fiume Simeto, attraverso le sorgenti delle “Favare” di Magiasarde (nome proveniente dall’arabo al-fawwāra, “la sorgente”) e il fiume Alcantara, attraverso il torrente “Annunziata”. Nei mesi invernali, quando maggiori sono le precipitazioni meteoriche e la portata idrica del torrente Flascio e delle sorgenti sotterranee, il lago esonda e causa l’allagamento delle zone circostanti, compresi vigneti e frutteti, un tempo fiori all’occhiello dell’agricoltura locale.

Lago Gurrida – Randazzo

I vigneti limitrofi al lago, coltivati con vitigni di grenache o alicante, sono originari dei Pirenei e furono introdotti in questo territorio nel 1868 da un enologo della ducea Nelson per contrastare la filossera che è una malattia delle viti, attraverso la loro sommersione nell’acqua. Questi insoliti vigneti, generano nobili uve da vino, dalle quali si produce un corposo vino color rubino, molto ricercato dal mercato. Diviene complicato comprendere quali siano le vere motivazioni di questa meraviglia naturale. Guardando questi vigneti immerse quasi completamente nelle acque, si potrebbe pensare a qualcosa di suggestivo e irreale, tuttavia, è anche un buon motivo per riflettere sulla genialità della natura che ha voluto esprimere questo patrimonio, da salvaguardare per la grande capacità di questa vite di adattarsi. Per tali caratteristiche, questo vitigno costituisce un’autentica unicità.

Gli aspetti vegetazionali del lago Gurrida, esprimono una grande suggestione in tutte le stagioni, per la presenza di una ricca vegetazione arborea rappresentata da salici e pioppi e una rigogliosa vegetazione minore arbustiva, tra la quale emerge la canna acquatica, l’oleandro, l’ampelodesma, la ginestra di Spagna, il tamerice, il sambuco, e l’euforbia. Altre piccole piante come la menta, la canapa acquatica, il cardo cretico, il sedano d’acqua, la veronica acquatica, il ranuncolo, la lenticchia d’acqua, a volte si associano alla folta vegetazione igrofita che si abbina ai muschi, alle felci, alla florida vegetazione erbacea che nei tratti inondabili, finisce periodicamente per essere sempre spazzata via dall’esondazione delle acque per poi ritornare in particolare in primavera quando è la festa grande della natura che si risveglia, quando i prati che si affacciano sul lago, si vestono di verde. In questo periodo sono moltitudini di fiori che si fecondano e si propagano per mezzo delle correnti, dell’aria e degli insetti.

Nel lago Gurrida hanno riparo numerosissime specie di animali acquatici e uccelli migratori, data la sua ottimale posizione geografica lungo una direttrice di migrazione, che assicura un persistente richiamo per l’avifauna. La protezione di queste aree è utile e necessaria ai fini dell’equilibrio ecologico dei nostri territori: Aironi cenerini, Cavalieri d’Italia, Pavoncelle, Pivieri, Pettegole, Combattenti, Piovanelli, Anatre, Marzaiole, Beccaccini, Gallinelle d’acqua, Codoni, Fischioni, Tuffetti, Folaghe, Canapiglie, Mestoloni, senza dimenticare le tantissime altre specie di uccelli minori, le quali, seppur meno appariscenti o meno noti di quelli sopra indicati, certamente, in concorso con tutte le specie floristiche, contribuiscono, in forma paritaria, al mantenimento dell’equilibrio naturalistico di questo sistema lacustre. La Cicogna bianca è un esempio alquanto tangibile della integrità di quest’area, infatti era quasi scomparsa dal panorama faunistico di questo territorio ma da qualche anno è ritornata a nidificare. Il ritorno e la permanenza delle cicogne confermano ancora una volta come questo territorio presenti alcuni aspetti indicatori di grande salubrità dell’ecosistema che consentono la vita di alcune sensibilissime specie di avifauna di grande interesse scientifico e naturalistico.

Enzo Crimi

Anche le acque del lago sono ricche di vita: Anfibi quali il Rospo comune, la Rana esculenta, il Discoglosso e i pesci come le Carpe e Tinche, rappresentano le specie più comuni di fauna ittica presenti nel lago. Il bacino costituisce, in ogni caso, una risorsa insostituibile per tutta l’area circostante e per la fauna stanziale che vi alloggia: Volpi, Gatti selvatici, donnole, Ghiri, Istrici, conigli, Martore e altre specie. Alcuni rapaci diurni come le Poiane e i Falchi, abili volatori, sono capaci di volteggiare a lungo sfruttando le correnti calde ascensionali alla ricerca di prede come conigli, roditori, rettili ed altri piccoli uccelli presenti all’interno di questo vasto territorio. I rapaci hanno sempre rappresentato per i loro studiosi come un indicatore naturale di quello che è l’equilibrio biologico di un ecosistema, in quanto essi, a seconda della particolare integrità, riescono ad adattarsi ad un ambiente in modo stanziale, oppure, seguendo le naturali rotte migratorie, riescono a percorrere anche migliaia di chilometri pur di raggiungere mete ben conservate e quindi più idonei alla loro sopravvivenza che segue l’avvicendarsi delle stagioni.

Un altro universo animale, presente nell’area, completa l’interazione biologica con le altre varie componenti: il mondo dei rettili. La Natrice o biscia del collare è considerato il rettile d’eccellenza presente lungo il fiume, l’innocuo Biacco è invece il rettile più comune dell’area. Inoltre, in questo sito vivono una grande quantità di altre specie minori, come numerose luscengole, lucertole, gongili, ramarri, gechi ed emidattili, sono anche presenti la testuggine comune e la testuggine palustre siciliana. La presenza di questa straordinaria biodiversità, oltre ad arricchire il paesaggio di tonalità, rappresenta una delle costituenti biologiche più minacciate dalla degradazione o dalla riduzione a ritmo sempre più alto di questi biotopi. Pertanto,  queste presenze animali,  mantengono uno profondo legame di reciproca dipendenza con questo ambiente naturale, quasi a volere significare per certi versi che la loro presenza in queste aree è rigorosamente dipendente dalla integrità biologica che il territorio saprà conservare nel tempo.

Risultato immagine per lago gurrida etna

lago Gurrida

 Il lago Gurrida, rappresenta un connotato naturalistico che ha dell’eccezionale, non a torto, può considerarsi come una delle poche aree umide presenti in Sicilia, ben inserito all’interno di un circuito di turismo naturalistico, da cui gli abitanti di questo territorio si attendono molto, sottoforma di ricaduta economica che tarda sempre ad arrivare. Purtroppo, in questo preciso momento storico, il lago Gurrida, che è di proprietà privata, ma anche una gran parte del nostro territorio isolano pubblico,  esprime una violenta forma di smobilitazione e abbandono, e tutto sembra avvolto in un’immensa ombra, quasi tenebrosa. Insomma, questo territorio è oramai lasciato all’oblio, e non c’è scusa neppure rispetto alla durata di questo processo di abbandono che io oramai percepisco da anni. Questo fenomeno è stato trascurato oramai con tempi di accumulo difficilmente recuperabili. Scorrendo i ricordi della mia decennale frequentazione di questo territorio, posso cogliere i segni indelebili di un “Amarcord” vissuto con molta intensità e difficile da dimenticare, a contatto con una natura viva e difesa, che per restare tale oggi, ha bisogno di grande protezione.  I ricordi sono dunque ciò che ci resta? Forse, certamente sono le tracce di esperienze naturalistiche passate sul territorio, che hanno impresso la mia memoria attraverso le sensazioni e le emozioni che hanno colpito i miei sensi estremamente ricettivi verso questo “pezzo” di territorio etneo. Quante volte ho dovuto pensare che alcune circostanze o accadimenti non sono in linea con le dotazioni culturali di un paese civile? Ho anche pensato: che futuro ha un popolo che non rispetta il suo ambiente naturale?    

lago Gurrida – Etna

  L’amore per la natura deve essere una battaglia continua con chi è privo di intelligenza naturalistica, ognuno di noi deve operare per il bene dei valori naturalistici che esprime il territorio, in particolare quanto questo è capitolato all’abbandono, pur nella consapevolezza che non tutte le persone detengono una sensibilità naturalistica e allora, i sintomi sono i rifiuti, gli incendi, i sentieri danneggiati, la dimenticanza, insomma, la mancanza di rispetto e l’ambiente ne risente. E’ difficile interagire con chi è privo di cultura dell’ambiente che faccia comprendere la vera importanza del nostro patrimonio naturale. Certe problematiche non possono essere affrontate da sodalizi e associazioni naturalistiche di volontariato o addetti alla vigilanza generalizzata, ancor più nelle aree private come il lago Gurrida, dove per entrare bisogna bussare, è lo Stato che potrebbe (dovrebbe) sostituirsi al privato, ma quale Stato, quali Istituzioni, in alcuni casi lo Stato (o chi lo rappresenta) diventa debole e ha paura di avere coraggio nel prendere delle decisioni impopolari e limitanti il diritto alla proprietà, anche quando un territorio volge alla noncuranza e all’oblio. Non bisogna certo avere una mente eccelsa per comprendere che l’interesse del legislatore verso la natura e l’ambiente, sembra oramai una foto sbiadita, che tende a scomparire definitivamente dalle tematiche politico-sociali che si discutono oggi, e allora, come in un gioco onirico, il nostro animo contemplativo, molte volte, si infrange sugli irti scogli dell’indifferenza che i “nostri” politici nutrono verso i beni naturalistici del creato. Pertanto la configurabilità dell’ambiente come bene giuridico non può essere ignorata dall’uomo attraverso tagli continui alle risorse finanziariev. Eppure, il legislatore con la sua mente piccola, non ha ancora la piena consapevolezza della gravissima crisi ambientale che noi uomini con l’intelligenza naturalistica, figli di questa terra splendida ma martoriata dalla ipocrisia dei “senza anima” stiamo vivendo. L’assenza di antropizzazione, a volte, rende un territorio apprezzabile e in alcuni casi ricco di particolare integrità per quanto riguarda gli aspetti naturalistici e paesaggistici. Di contro, non può non amareggiare e suscitare un senso di vuoto e di tristezza l’abbandono di un territorio, che per le sue condizioni, nel tempo porta ad un processo di dissolvimento degli stessi valori naturalistici, che consentono la vita degli animali, delle piante, dell’uomo stesso. Seguendo questo ragionamento, l’importanza di ricordare si affianca a quella della dimenticanza che non significa cancellare il passato ma prendere distanza da esso attraverso la sua comprensione e accettazione, che ne attenua il potere di provocare in noi emozioni di grande portata che ci hanno segnato e che possono pesare in noi come se appartenessero al presente. Chiudo questa mia riflessione con un pizzico di auspicabile ottimismo, augurandomi che qualcuno, chi deve decidere, si accorga dei suoi errori ed arrivi il momento in cui si renda conto che l’inestimabile valore ambientale è meritevole di grande attenzione e tutela….andiamo avanti !!!

Enzo Crimi

ERASMO MAROTTA

ERASMO MAROTTA (1576 – 1641)

 

                                               Nacque a Randazzo (presso Catania) da Francesco e da Salvuzza Svendroli il 24 febbr. 1576 e fu battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di S. Nicolò (Policastro, p. 113).
Ancora adolescente si trasferì a Roma dove condusse gli studi musicali e ricevette gli ordini sacerdotali.
Secondo Aguilera (p. 393) le doti vocali e musicali gli valsero una fama precoce, grandi onori e un posto di rilievo tra i musicisti della città papale. Ad ambienti romani sono legate le sue prime composizioni musicali conosciute: il Marotta, infatti, contribuì con una coppia di madrigali (Son le risa e Non sono risa) alla raccolta curata da un altro giovane musicista siciliano, Gioan Pietro Flaccomio di Milazzo, Le risa a vicenda (Venezia, G. Vincenzi, 1598).
Due anni dopo il Marotta pubblicò la sua prima raccolta a stampa, l’Aminta musicale… Il primo libro di madrigali a cinque voci, con un dialogo a otto (Venezia, A. Gardano, 1600), dedicandola, da Roma il 1° genn. 1600, al cardinale Girolamo Mattei, celebre collezionista di pitture e appassionato di musica.
Nella dedica di questa raccolta di madrigali, quasi tutti su versi tratti dall’Aminta di T. Tasso, il Marotta, dopo aver ringraziato il cardinale Mattei per averlo «fatto degno del suo servitio […] tutt’il tempo di mia vita», dichiarava di aver «preso ardire di dargli luce sotto ’l nome di V.S. Illustrissima […] per esser nati [questi madrigali] in casa sua».
È probabile, quindi, che il Marotta fosse entrato al servizio di Mattei in giovanissima età e che all’epoca vivesse nel palazzo romano (poi Caetani) del cardinale.
Della raccolta, pervenutaci in un solo esemplare privo di alcuni libri-parte, si conosce un solo madrigale che fu ripubblicato dall’editore P. Phalèse nell’antologia Il Helicone (Anversa 1616).
La notorietà dell’Aminta musicale sembra testimoniata anche da un dipinto d’impronta caravaggesca, attribuito a Bartolomeo Cavarozzi (per le figure) e al maestro della natura morta Acquavella.

Banda Musicale “Erasmo Marotta” – Randazzo


Esso raffigura un suonatore di flauto a becco, incoronato di foglie, insieme con un altro personaggio appoggiato a un tamburello con aria mesta.
Sul tavolo, dinanzi a loro, un tralcio di vite con dei grappoli d’uva, un violino di scorcio e un libro di musica di cui sono visibili le pagine contenenti il madrigale Dolor che sì mi crucii (Tasso, Aminta, vv. 1417-1438) tratto appunto dall’Aminta musicale del Marotta. L’identificazione del brano ha permesso di precisare il soggetto del quadro, che raffigurerebbe Aminta insieme con la ninfa Dafne o Tirsi, in questo caso con riferimento ai versi 1319-1320 del testo tassiano, nei quali si ricorda l’abitudine di Aminta di «raddolcir gli amarissimi martiri al dolce suon de la sampogna chiara» (Colin Slim, p. 250).
Restano tuttora ignoti il committente e le circostanze d’esecuzione del dipinto, che è stato datato al 1614-15 (Cottino).
Nel 1603 il M. partecipò col madrigale Cede a vostri zaffiri il vago azzurro onde s’adorna il cielo alla raccolta Infidi lumi  stampata a Palermo quale omaggio a donna Giovanna, figlia di Giovanni d’Austria, in occasione delle sue nozze con Francesco Branciforte Barresi, principe di Pietraperzia e marchese di Militello; ma il volume, cui parteciparono 18 compositori siciliani oltre allo spagnolo Sebastián Raval, è purtroppo andato perduto.
L’8 dicembre 1603 morì il cardinale Mattei e Erasmo Marotta, pur senza il suo protettore, rimase probabilmente a Roma fino a quando, il 10 maggio 1612, fu ammesso al noviziato dei gesuiti di Palermo.
Nel marzo 1613 si trasferì in quello di Messina, contribuendo a introdurre in questa città la pratica della monodia su basso continuo.
Nella Pasqua di quell’anno, infatti, per la prima volta il Passio secundum Iohannem fu cantato in musica a tre voci soliste dal M. e altri cantori (Aguilera, p. 34).
Dopo qualche tempo il Marotta ritornò al collegio gesuitico di Palermo dove si mise in luce per le proprie capacità musicali: le sue esecuzioni divennero presto un richiamo per il popolo e le autorità cittadine, tanto che un nuovo organo fisso fu installato nella chiesa, fino ad allora fornita soltanto di un organo portatile.
Nel 1618 il Marotta  fu incaricato di comporre le musiche, oggi perdute, per la tragedia Pelagius martyr, commissionata al gesuita Fabrizio de Spuches dal viceré Francesco Castro duca di Tauresana, e poi rappresentata nel collegio gesuitico.
È stato inoltre ipotizzato che i madrigali dell’Aminta siano stati eseguiti come intermedi, quando l’omonima favola pastorale di Tasso fu rappresentata allo Spasimo, al tempo del viceré duca d’Ossuna (1611-16).
La corrispondenza tra il padre generale dei gesuiti e i confratelli siciliani rende manifesto che i superiori della Compagnia non vedevano di buon occhio le esecuzioni di musica del Marotta, malgrado valessero più di qualunque predica «ad efficiendos enim pios et salutares animi motus» (Aguilera, p. 393).
In particolare, veniva deplorato ch’egli suonasse e cantasse avvalendosi di musicisti esterni e che nei collegi fossero eseguiti «dialoghi vulgari con balli et moresche» (lettere del 26 marzo 1616: cit. in Calagna, p. IX).
Di nuovo nel 1618 e ancora nel 1619, il padre generale ribadiva la proibizione di far musica con musicisti esterni e si rifiutava di dispensare il Marotta da alcuni esami di teologia.
Nel febbraio 1620 il generale della Compagnia permetteva tuttavia l’esecuzione di musiche del Marotta, a patto che quest’ultimo non vi prendesse parte, considerato che si trattava di opere «spirituali e che caggionano consolatione e divotione» (ibid., p. X).
In conseguenza di questo clima di ostilità, nell’ottobre 1620 il Marotta  fu trasferito a Mineo, presso Catania, come rettore del locale collegio dei gesuiti, restandovi per il consueto triennio, sino al novembre 1623.
Anche la sua permanenza a Mineo lasciò traccia di alcune attività musicali: documenti contabili attestano, infatti, spese per esecuzioni di musiche in occasione delle feste di S. Francesco Saverio e di S. Ignazio, per l’acquisto di carta rigata e di un organetto.
Rientrato a Palermo, il Marotta vi fu accolto calorosamente, ma con ogni probabilità si astenne per qualche tempo dal partecipare in prima persona all’attività musicale.
All’epoca riuscì a guadagnarsi la fiducia di Antonio Aragona Moncada, duca di Montalto, e di sua moglie Juana de la Cerda, divenendo confessore di entrambi.
In tale veste, nel 1628, il Marotta  fu coinvolto nella fondazione a Palermo del nuovo monastero Carmelitano dell’Assunta, di cui la duchessa divenne priora nel 1633, col nome di madre Teresa dello Spirito Santo.
Sempre nel 1628 il Marotta  si recò a Randazzo per fondarvi un collegio ma l’iniziativa andò avanti fra molte difficoltà e nel 1638 il collegio fu chiuso.
Negli ultimi anni di vita il Marotta ritornò a dedicarsi alla musica.
Nel 1635 un suo parente, Agapito Marotta, curò la stampa a Palermo dell’unica opera del Marotta pervenutaci integralmente: la Raccolta dei mottetti. Libro primo, a due, tre, a quattro, cinque con il basso continuo et un salmo a tre et una litania a cinque o a sei, dedicata a una figlia dei duchi di Montalto, carmelitana scalza col nome di suor Antonia Gertrude.
Sempre a Palermo nel 1636 pubblicò una raccolta di Madrigaletti a tre e due voci, oggi perduti, così come un’altra sua opera menzionata in un inventario soltanto come «musica cum quatuor vocibus» (Federhofer).
I documenti contabili del collegio gesuitico di Palermo mostrano il Marotta  sovrintendere di nuovo alla musica della chiesa negli anni 1638-40; e nel 1638 due noti organari palermitani, Antonio e Raffaele La Valle jr., lo interpellavano come perito circa la costruzione dell’organo della chiesa madre di Caltanissetta.

Erasmo Marotta morì a Palermo il 6 ottobre 1641

 

ERASMO MAROTTA (1576 – 1641), UN GESUITA CHE AMÒ LA MUSICA – Eliade Maria Grasso

ERASMO MAROTTA (1576 – 1641), UN GESUITA CHE AMÒ LA MUSICA

Eliade Maria Grasso

Erasmo Marotta nasce a Randazzo nel 1576 da una nobile famiglia originaria di Capua arrivata in Sicilia sotto gli aragonesi.
Già dalla più tenera età mostra un innato talento  musicale e, giunta anche la vocazione sacerdotale, viene mandato a Roma  per completare gli studi e prendere i voti nella Compagnia del Gesù.
Musicista e compositore in un’epoca in cui si va delineando la forma musicale del  mottetto, una composizione polifonica vocale che dal ‘500 ricalca il modello compositivo di tradizione fiamminga.
 Anche Marotta muove i suoi passi di compositore nell’ambiente musicale del tempo i cui  nomi più illustri della scuola italiana sono Orlando di Lasso, Pierluigi da Palestrina, e i veneziani  Andrea e Giovanni Gabrieli.
In seguito, in pieno ‘600,  il mottetto, pur conservando il rigore contrappuntistico assume carattere più libero o, meglio dire, “concertato” in cui, fermo restando la presenza del testo religioso, la sua esecuzione elude l’esclusiva dell’ambito liturgico.
Marotta, dopo aver accuratamente studiato e applicato il contrappunto,  si libera da ogni rigida costrizione formale donando alle sue composizioni una maggiore aderenza tra musica e testo a favore di una maggiore cantabilità.
 A Roma Erasmo Marotta  era in servizio come musico presso il Cardinal Mattei a cui dedicò L’Aminta, la sua prima raccolta di composizioni musicali pubblicata a Venezia nel 1600.
Nel 1612 ritorna in Sicilia per essere ammesso al Noviziato Gesuita di Casa Professa.
Il motto Gesuita non cantat non si confà di certo al nostro Erasmo, la cui attività musicale lo mette in cattiva luce con gli alti gradi dell’Ordine dei Gesuiti,  tanto che nel 1616 il Padre generale di Roma scrive al Padre Provinciale di Messina una missiva con la quale lo esorta  a proibire a Padre Marotta di esibirsi durante le feste con musicisti esterni all’Ordine religioso: <<… mi dica chi l’ha permesso per farne la debita dimostrazione et Voscenza Reverendissima da qui avanti non permetta simil cosa>>.
La battaglia musicale di Padre Marotta non si ferma qui, egli riesce a far acquistare alla Casa Professa un organo stabile, che sostituiva un fatiscente strumentino a tastiera portatile usato, e anche di rado,  durante le celebrazioni più solenni.
Successivamente, nel 1620, viene trasferito a Mineo per ricoprire la carica di Rettore dove, oltre agli adempimenti imposti dall’Ordine,  continua ad acquistare strumenti e a  finanziare numerose attività musicali organizzando concerti e messe cantate.
Detto così sembrerebbe che avesse le “mani bucate”  invece era anche un ottimo amministratore e il collegio di Mineo, sotto la sua guida, conobbe un periodo assai florido.
Il Padre Generale, sconfitto ormai nel tentativo di stroncare le iniziative musicali di Padre Marotta scrive nel febbraio del 1620 un’altra lettera al Provinciale di Messina in cui proibiva a Erasmo di esibirsi personalmente ma non proibiva la sua musica: <<… Mi è stato rappresentato che l’opere del P. Marotta sono tutte spirituali e che cagionano consolatione e divotione e però mi è parso bene che si cantino e sonino […] purchè il Padre non canti e non suoni...>>.
La battaglia musicale di Erasmo è vinta!
Erasmo Marotta finisce i suoi giorni terreni a Palermo nel 1641. Siamo certi che in un angolo del Paradiso stia cantando ancora.                                                                                                           

Bibliografia:

Marotta E. Mottetti concertati a 2,3,4,5 voci -1635 a cura di P.E.Carapezza – Collezione Musiche rinascimentali siciliane, Leo S.Olchki, 1993, Firenze

 

Erasmo Marotta

 

Nacque a Randazzo da Francesco e da Salvuzza Svendroli il 24 febbr. 1576 e fu battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di S. Nicolò (Policastro, p. 113).

Associazione Erasmo Marotta – Randazzo.

Ancora adolescente si trasferì a Roma dove condusse gli studi musicali e ricevette gli ordini sacerdotali. Secondo Aguilera (p. 393) le doti vocali e musicali gli valsero una fama precoce, grandi onori e un posto di rilievo tra i musicisti della città papale. Ad ambienti romani sono legate le sue prime composizioni musicali conosciute: il M., infatti, contribuì con una coppia di madrigali (Son le risa e Non sono risa) alla raccolta curata da un altro giovane musicista siciliano, Gioan Pietro Flaccomio di Milazzo, Le risa a vicenda (Venezia, G. Vincenzi, 1598). Due anni dopo il M. pubblicò la sua prima raccolta a stampa, l’Aminta musicale… Il primo libro di madrigali a cinque voci, con un dialogo a otto (Venezia, A. Gardano, 1600), dedicandola, da Roma il 1° genn. 1600, al cardinale Girolamo Mattei, celebre collezionista di pitture e appassionato di musica. Nella dedica di questa raccolta di madrigali, quasi tutti su versi tratti dall’Aminta di T. Tasso, il M., dopo aver ringraziato il cardinale Mattei per averlo «fatto degno del suo servitio […] tutt’il tempo di mia vita», dichiarava di aver «preso ardire di dargli luce sotto ’l nome di V.S. Illustrissima […] per esser nati [questi madrigali] in casa sua». È probabile, quindi, che il M. fosse entrato al servizio di Mattei in giovanissima età e che all’epoca vivesse nel palazzo romano (poi Caetani) del cardinale. Della raccolta, pervenutaci in un solo esemplare privo di alcuni libri-parte, si conosce un solo madrigale che fu ripubblicato dall’editore P. Phalèse nell’antologia Il Helicone (Anversa 1616).

La notorietà dell’Aminta musicale sembra testimoniata anche da un dipinto d’impronta caravaggesca, attribuito a Bartolomeo Cavarozzi (per le figure) e al maestro della natura morta Acquavella. Esso raffigura un suonatore di flauto a becco, incoronato di foglie, insieme con un altro personaggio appoggiato a un tamburello con aria mesta. Sul tavolo, dinanzi a loro, un tralcio di vite con dei grappoli d’uva, un violino di scorcio e un libro di musica di cui sono visibili le pagine contenenti il madrigale Dolor che sì mi crucii (Tasso,Aminta, vv. 1417-1438) tratto appunto dall’Aminta musicale del Marotta. L’identificazione del brano ha permesso di precisare il soggetto del quadro, che raffigurerebbe Aminta insieme con la ninfa Dafne o Tirsi, in questo caso con riferimento ai versi 1319-1320 del testo tassiano, nei quali si ricorda l’abitudine di Aminta di «raddolcir gli amarissimi martiri al dolce suon de la sampogna chiara» (Colin Slim, p. 250). Restano tuttora ignoti il committente e le circostanze d’esecuzione del dipinto, che è stato datato al 1614-15 (Cottino).

Nel 1603 il M. partecipò col madrigale Cede a vostri zaffiri il vago azzurro onde s’adorna il cielo alla raccolta Infidi lumi stampata a Palermo quale omaggio a donna Giovanna, figlia di Giovanni d’Austria, in occasione delle sue nozze con Francesco Branciforte Barresi, principe di Pietraperzia e marchese di Militello; ma il volume, cui parteciparono 18 compositori siciliani oltre allo spagnolo Sebastián Raval, è purtroppo andato perduto. L’8 dic. 1603 morì il cardinale Mattei e il M., pur senza il suo protettore, rimase probabilmente a Roma fino a quando, il 10 maggio 1612, fu ammesso al noviziato dei gesuiti di Palermo. Nel marzo 1613 si trasferì in quello di Messina, contribuendo a introdurre in questa città la pratica della monodia su basso continuo. Nella Pasqua di quell’anno, infatti, per la prima volta il Passio secundum Iohannem fu cantato in musica a tre voci soliste dal M. e altri cantori (Aguilera, p. 34).

Dopo qualche tempo il M. ritornò al collegio gesuitico di Palermo dove si mise in luce per le proprie capacità musicali: le sue esecuzioni divennero presto un richiamo per il popolo e le autorità cittadine, tanto che un nuovo organo fisso fu installato nella chiesa, fino ad allora fornita soltanto di un organo portatile. Nel 1618 il M. fu incaricato di comporre le musiche, oggi perdute, per la tragedia Pelagius martyr, commissionata al gesuita Fabrizio de Spuches dal viceré Francesco Castro duca di Tauresana, e poi rappresentata nel collegio gesuitico. È stato inoltre ipotizzato che i madrigali dell’Aminta siano stati eseguiti come intermedi, quando l’omonima favola pastorale di Tasso fu rappresentata allo Spasimo, al tempo del viceré duca d’Ossuna (1611-16). La corrispondenza tra il padre generale dei gesuiti e i confratelli siciliani rende manifesto che i superiori della Compagnia non vedevano di buon occhio le esecuzioni di musica del M., malgrado valessero più di qualunque predica «ad efficiendos enim pios et salutares animi motus» (Aguilera, p. 393). In particolare, veniva deplorato ch’egli suonasse e cantasse avvalendosi di musicisti esterni e che nei collegi fossero eseguiti «dialoghi vulgari con balli et moresche» (lettere del 26 marzo 1616: cit. in Calagna, p. IX). Di nuovo nel 1618 e ancora nel 1619, il padre generale ribadiva la proibizione di far musica con musicisti esterni e si rifiutava di dispensare il M. da alcuni esami di teologia. Nel febbraio 1620 il generale della Compagnia permetteva tuttavia l’esecuzione di musiche del M., a patto che quest’ultimo non vi prendesse parte, considerato che si trattava di opere «spirituali e che caggionano consolatione e divotione» (ibid., p. X).

In conseguenza di questo clima di ostilità, nell’ottobre 1620 il M. fu trasferito a Mineo, presso Catania, come rettore del locale collegio dei gesuiti, restandovi per il consueto triennio, sino al novembre 1623.

Anche la sua permanenza a Mineo lasciò traccia di alcune attività musicali: documenti contabili attestano, infatti, spese per esecuzioni di musiche in occasione delle feste di S. Francesco Saverio e di S. Ignazio, per l’acquisto di carta rigata e di un organetto. Rientrato a Palermo, il M. vi fu accolto calorosamente, ma con ogni probabilità si astenne per qualche tempo dal partecipare in prima persona all’attività musicale. All’epoca riuscì a guadagnarsi la fiducia di Antonio Aragona Moncada, duca di Montalto, e di sua moglie Juana de la Cerda, divenendo confessore di entrambi. In tale veste, nel 1628, il M. fu coinvolto nella fondazione a Palermo del nuovo monastero carmelitano dell’Assunta, di cui la duchessa divenne priora nel 1633, col nome di madre Teresa dello Spirito Santo. Sempre nel 1628 il M. si recò a Randazzo per fondarvi un collegio ma l’iniziativa andò avanti fra molte difficoltà e nel 1638 il collegio fu chiuso.

Negli ultimi anni di vita il M. ritornò a dedicarsi alla musica. Nel 1635 un suo parente, Agapito Marotta, curò la stampa a Palermo dell’unica opera del M. pervenutaci integralmente: la Raccolta dei mottetti. Libro primo, a due, tre, a quattro, cinque con il basso continuo et un salmo a tre et una litania a cinque o a sei, dedicata a una figlia dei duchi di Montalto, carmelitana scalza col nome di suor Antonia Gertrude. Sempre a Palermo nel 1636 pubblicò una raccolta di Madrigaletti a tre e due voci, oggi perduti, così come un’altra sua opera menzionata in un inventario soltanto come «musica cum quatuor vocibus» (Federhofer). I documenti contabili del collegio gesuitico di Palermo mostrano il M. sovrintendere di nuovo alla musica della chiesa negli anni 1638-40; e nel 1638 due noti organari palermitani, Antonio e Raffaele La Valle jr., lo interpellavano come perito circa la costruzione dell’organo della chiesa madre di Caltanissetta.

Il M. morì a Palermo il 6 ott. 1641.

Oltre alle opere citate si conserva manoscritta la parte del tenore di alcuni brani appartenenti alla raccolta Miserere e Motteti per li venerdì di Quaresima (Palermo, Arch. della Casa professa dei gesuiti: Calagna) e il mottetto in dialogoAve quae est ista. Salutatio angelica a due con ripieni attribuito al M. (Mdina, Museo della cattedrale, Mss., Mus.155a-b).

Anna Tedesco

La lapide nel cortile del Municipio 

 

Un grande musicista gesuita siciliano: Erasmo Marotta (prima parte)

 

Nasce a Randazzo (Catania) il 24 febbraio 1576 (alcune fonti riportano il 1578), da Francesco e Salvuzza Svendroli ed è battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di S. Nicolò. Ancora giovanissimo, per le sue spiccate qualità musicali, viene inviato a Roma dove, infatti, compone le sue prime opere musicali. G.P. Flaccomio lo include tra i nove compositori che a gara mettono in musica il doppio madrigale Le risa a vicenda, raccolta dedicata nel 1598 al card. F.M. Del Monte, e la composizione del giovanissimo Marotta è tra le migliori. 

Antonino Lo Nardo – Il lamento di Aminta

A Roma è al servizio del card. G. Mattei, quando il 1° gennaio 1600 gli dedica l’Aminta Musicale: il primo libro di madrigali a cinque voci, con un dialogo ad otto tutti su versi della favola pastorale di T. Tasso.
È già sacerdote nella curia romana, quando nel 1610 chiede di entrare nella Compagnia di Gesù, e viene ammesso nel noviziato dei gesuiti di Palermo il 10 maggio 1612. Nel 1613 è trasferito in quello di Messina, dove introduce l’uso di cantare la Passione a voci sole su basso continuo, ed egli stesso fa la parte del Cristo.
Torna spesso a Palermo, ma i superiori della Compagnia non vedono di buon occhio le sue esecuzioni musicali che si avvalgono anche di musicisti esterni. Dopo una lunga corrispondenza tra il Generale e i suoi confratelli siciliani, viene permessa l’esecuzione di musiche di Marotta a condizione che questi non vi prendesse parte.
E per tre anni (1620-1622), forse a causa di questa atmosfera ostile, viene inviato a Mineo come rettore di quel Collegio. Torna a Palermo nel 1623, da dove si allontana per missioni diplomatiche a Roma e Napoli (1627-1628); Randazzo fonda un Collegio. Muore a Palermo il 6 ottobre 1641. A suo ricordo, vi sono a Randazzo una lapide commemorativa nel chiostro del palazzo comunale, il titolo della Scuola musicale ed del corpo bandistico; a Catania vi è un viale a lui intitolato. 
Marotta fu un raffinato musicista caduto a poco a poco nell’oblio. L’Aminta musicale raggiunse una certa notorietà come ci testimonia il quadro Il lamento di Aminta dipinto nella ii metà del sec. xvii probabilmente da B. Cavarozzi (Collezione privata).
Non si conosce per (conto di) chi il dipinto sia stato prodotto ma, considerando la sua impronta caravaggesca, non è da escludere che possa essere stato qualche personaggio dell’
entourage del card. Del Monte. L’identificazione, nel contenuto del dipinto, del madrigale Dolor, che sì mi crucii, uno di quelli composti da Marotta e basato sull’opera di Tasso ha permesso di comprendere il contenuto del dipinto; si tratta di due giovani: l’uno, un pastore (Aminta?) che triste suona il flauto, e l’altro, possibilmente, la ninfa Dafne o Tirsi, che si appoggia pensierosa su un tamburino.

 

Erasmo Marotta – Sancta Maria sopra un aria siciliana (mottetto a due voci) – Elaborazione musicale: Giulio Nido

 

Erasmo Marotta – Si vis perfectus (mottetto a tre voci) Elaborazione musicale : Giulio Nido

 

Erasmo Marotta – Sancta Maria (mottetto a quattro voci) Elaborazione musicale  di Giulio Nido 

 

Rubrica a cura di Giulio Nido 

Museo Archeologico Paolo Vagliasindi

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IL CASTELLO SVEVO 

 

Teresa Magro Archeologa curatrice Museo Vagliasindi – Randazzo

Castello Svevo e campanile di San Martino – Randazzo

Al centro di Randazzo, di fronte allo splendido campanile della chiesa di San Martino, sorge il cosiddetto castello-carcere di età normanna,vestigia delle mura che circondavano la città e degno contenitore della collezione archeologica .
Il castello in realtà era la torre più poderosa, il cosidetto maschio, delle mura che circondavano per circa tre km la città di Randazzo raggiungendo l’altezza di tre metri con dodici porte e sette torri, adesso visibili a tratti ed inserite nelle strutture moderne. Le mura di cinta furono costruite durante il regno di Federico II che dimorò nella città insieme alla giovane regina per qualche mese nel 1210 per sfuggire alla peste che imperversava a Palermo, insieme al Palazzo Reale e alla Chiesa di San Martino.
Nel 1282 le mura e probabilmente anche il Castello furono restaurate quando si stanziò in contrada Re con le sue truppe Pietro I D’Aragona nella lotta contro gli Angioini .
Una delle storie più interessanti che si svolsero a Randazzo è l’arrivo il 3 giugno del 1411 della Regina Bianca di Navarra, vedova di Re Martino . Proprio re Martino nel 1406 avevano ordinato che le mura di Randazzo fossero rimesse in piedi e la Vicaria Bianca con il suo corteo le attraversò per entrare nella città che aveva scelto come sede del Parlamento Generale affinchè la Sicilia potesse scegliere autonomamente il suo re. Tale avvenimento è rievocato ogni anno con un corteo fastoso di dame e cavalieri con sontuosi abiti e ha il suo nucleo all’ombra del Campanile di San Martino ed in tutto il quartiere attorno alla piazza con feste e musica che immergono il.paese in un clima di altri tempi.
Il 17 ottobre 1535 dall’arco della porta di San Martino entrava a Randazzo  l’imperatore Carlo V con un corteo solenne accolto festosamente dalla popolazione e da che soggiornò nel Palazzo Reale dalla cui finestra proclamò tutti cittadini di Randazzo cavalieri del regno.
Il Castello divenne Carcere della città sotto il regno di Filippo II ma divenne Palazzo ducale sotto il Vicerè Conte di Melle che lo restaurò e lo trasformò, nel 1630 fu venduto alla famiglia Romeo che lo trasformarono in fortezza prendendo il nome di Baroni del Castello , un secolo dopo venduto dagli stessi alla famigia Vagliasindi , che a loro volta lo affittarono al Municipio per essere trasformato in carcere .
Lo scrittore Leonardo Vigo lo descrive come luogo spaventevole e tetro, citando la stanza dei teschi ( o meglio di li crozzi), i pozzi dove erano dimenticati i prigionieri e le teste mozzate dei giustiziati appese alla torre centrale .

 

Sede del Museo Vagliasindi – Randazzo

IL MUSEO

 

Il museo è dedicato a Paolo Vagliasindi , proprietario del fondo, dove alla fine dell’Ottocento furono rinvenuti i reperti che fanno parte della collezione Vagliasindi, tutt’ora di proprietà privata , concessi al Comune di Randazzo dagli eredi affinchè fossero esposti per essere conosciuti e ammirati dai visitatori .
I reperti della collezione, in numero di mille, furono spostati dalle due sale della Casa di riposo per anziani, dove erano stati custoditi dal 1967, ed esposti nel piano superiore del Castello nel 1998, dopo un lungo lavoro di catalogazione e ricomposizione, voluto dal Comune di Randazzo in collaborazione con la Soprintendenza di Catania.
Il Museo si svolge nelle sale superiori del castello, diviso in cinque sale secondo una esposizione tipologica del materiale, diviso per classi ed epoche,in quanto non è stato possibile ricostruire i corredi tombali. Disegno museo
Nella prima sala centrale è esposto l’ esemplare piu’ pregevoli della collezione: la splendida Oinochoe a figure rosse con il mito dei Boreadi, mito poco conosciuto e rappresentato dai ceramisti greci .
Sul lato sinistro della vetrina sono esposti degli oggetti di oreficeria : si tratta di due coppie ad elice in lamina d’oro ornate con teste di ariete alle estremità a cui si aggiunge un medaglione in lamina d’oro raffigurante la testa di Eracle con la leontè e un cammeo in sardonica con la raffigurazione di un satiro che suona la cetra. 
Dall’altra parte della vetrina è esposta la base di una statua, di cui rimangono solamente i piedi.

Oinochoe – Museo Vagliasindi Randazzo

Le due vetrine ai lati della sala contengono numerosi oggetti di bronzo appartenenti alla collezione, nella vetrina di sinistra sono conservate due anse orizzontali decorate da due teste di cigno appartenenti ad una grande hydria di bronzo purtroppo perduta, foto anse allo stesso vaso apparteneva un’altra ansa verticale decorata da protomi leonine, da confrontarsi con una pregevole hydria proveniente da Randazzo e conservata allo Staatlische Museum diBerlino dove giunse tramite il mercato dell’ottocento. Altri oggetti sempre di bronzo conservati sono un colum ed uno strigile.
La vetrina contiene anche la ricca raccolta numismatica raccolta dal Barone Vagliasindi e costituita nell’ordine da monete greche e romane d’argento, monete greche di bronzo delle piu’ importanti colonie siceliote e delle città greche, monete di bronzo romane dal periodo della repubblica a quella imperiale, monete bizantine e arabe d’oro, monete arabe in vetro, monete medievali e moderne fin quasi al secolo scorso che mostrano il carattere antiquario del collezionista.
E’ possibile che il nucleo piu’ antico di età greca fosse costituito da un tesoretto rinvenuto nel feudo del Vagliasindi.
Sull’altro lato della sala sono raccolte in una vetrina altri oggetti in bronzo di uso quotidiano come grattugie , applique di mobili , specchi , ami da pesca di eta’ greca e oggetti di eta’ medievale come una statuetta di soldato che fungeva da manico , fibbie , grattugie.
Il percorso museale continua nelle due sale a destra, la prima contiene i reperti piu’ antichi della collezione costituite dalle importazioni corinzie e ioniche.
La prima vetrina contiene gli esemplari piu’ famosi della collezione costituiti dal gruppo di balsamari configurati a corpo di animali come il ratto, il delfino e il cavallo , decorati con tralci di foglie d’edera in vernice nera sul colore dell’argilla.
Tra i balsamari spicca il cosiddetto centauro che presenta l’inserzione di un busto umano.
Nello spazio successivo è esposto il gruppo delle importazioni di fabbrica corinzia datati al Corinzio Recente costituiti da kotylai miniaturistiche, oinochoai , aryballoi , pissidi cilindriche e hydrie miniaturistiche e ancora dopo le importazioni ioniche costituite da coppe ioniche, gli stamnoi e un’anforisko. Da notare sono certamente le importazioni fenicie costituite da una collana di trentatre vaghi in faience ed un aryballos in faience , unico esemplare rimasto di un gruppo numeroso attestato nella collezione .L’ultima parte della vetrina contiene alcuni esemplari di ceramica indigena evidentemente rinvenuti insieme ai reperti di importazione , tra le forme presenti possiamo citare l’oinochoe a bocca trilobata .
La sala successiva contiene i numerosi esemplari di fabbrica attica coperti interamente da vernice nera, divisi per tipologie vascolari. La sala presenta un aspetto particolarmente affollato ma al momento dell’esposizione si è scelto di esporre tutto il materiale della collezione affinché il visitatore potesse avere un’idea anche numerica della consistenza dei ritrovamenti . Le forme presenti sono costituite dagli skyphoi che presentano un excursus cronologico dagli inizi del V secolo a.c. al IV secolo a.c., le pissidi con coperchio, i gutti , le coppette sia su alto piede che basso , gli attingiti monoansati ed infine le lucerne normalmente presenti nelle tombe greche .In un incavo del muro è stata ricavata un piccola vetrina in cui sono esposte forme meno presenti numericamente come un askos configurato ad astragalo, un askos ad anello e alcune oinochoai di bella fattura interamente coperte da vernice nera.
Il percorso prevede che si ritorni nella sala centrale per visitare l’altra parte del Museo costituito da altre due sale dedicate alla ceramica attica figurata e alla ceramica di produzione ellenistica. La sala in fondo al corridoio presenta una notevole rassegna di esemplari decorati nelle due tecniche a figure nere e a figure rosse. La prima vetrina presenta le due belle oinochoai a configurate a testa femminile purtroppo mutile databili al 480 a.c. di indubbio valore artistico. Tra le lekythoi a figure rosse sono da citare la lekythos decorata con il suonatore alato di cetra e la lekythos con una fanciulla coperta da chitone che volge indietro la testa.Nella stessa vetrina sono esposte due lekythoi purtroppo mutile di maggiori dimensioni, la cui vasca è coperta da un fondo bianco farinoso e con una decorazione sovra-dipinta in colore paonazzo per lo piu’ scomparsa ; tale classe di esemplari, rinvenuti in contesti strettamente tombali, fa ipotizzare la presenza nel centro di Randazzo di un gruppo di immigrati ateniesi di una certa rilevanza sociale che hanno conservato le usanze funerarie tipiche della madrepatria.
Al centro della vetrina è esposto un gruppo di vasi di notevoli dimensioni e particolare raffinatezza , si tratta di un gruppo di quattro pissidi coperte da una bella vernice lucida interrotta solamente da una fascia di fitto puntinato, che dovrebbero appartenere alla stesso corredo tombale . Le ultime due vetrine sono riempite degli esemplari di lekythoi di piu’ piccole dimensioni. , Nella prima sono esposti gli esemplari decorati a figure nere, che presentano una decorazione meno raffinata di quelle a figure rosse e di tipo piu’ corrente con la raffigurazione del corteo dionisiaco o la scena di partenza di un giovane armato , nell’altra sono esposte le lekythoi decorate solamente da motivi vegetali. In una piccola vetrinetta laterale sono conservate alcuni esemplari di statuette, tra cui le statuette di pithos di età greca con iscrizione offerenti ed altri esemplari di coroplastica del V sec. a.C.
La quarta sala è dedicata alla ceramica della fine del V sec. e di età ellenistica che sono presenti nella collezione con esemplari di squisita fattura. La prima vetrina presenta dei reperti di grandi dimensioni come l’hydria della II metà del V secolo a.C. in cui campeggiano al centro della vasca due grandi figure appartenenti ad una scena mitologica , insieme ad altri reperti dello stesso ambiente in parte frammentari. Nella vetrina successiva sono esposte delle pissidi con coperchio anch’esse decorate con scene figurate . E’ da notare la pisside decorata con una scena legata al mondo femminile, in cui un eros alato offre un piatto rituale ad una donna elegantemente abbigliata, sia per l’accesa policromia che per le scena è stato attribuita al pittore di Lipari .Un altro gruppo della stessa tipologia vascolare presenta una decorazione costituita da teste femminili ,appartenente al cosiddetto Gruppo dell’Etna. Nella stessa sala sono esposti reperti appartenenti alla stesso periodo ma di produzione piu’ corrente come le lekythoi dette Pagensteicher decorate con piccoli animali e numerosi esempi di pissidi strigliate coperte da vernice nera. Anche in questa sala in una piccola vetrina laterale sono esposti alcuni esempi di coroplastica ellenistica appartenenti al mondo della commedia come la statuetta di satiro stante , insieme ad altri oggetti della vita quotidiana.

Ritornando nella sala centrale è possibile visitare la sala superiore dove sono esposti altri reperti appartenenti alla collezione, che, per il loro stato frammentario, sono stati considerati quasi una seconda scelta .Come si è già accennato, lo stato frammentario dei reperti è stato causato da avvenimenti recenti della nostra storia e, in alcuni casi, non è stato possibile ricomporre i numerosi frammenti conservati dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, cosicché, avendo a disposizione un altro spazio espositivo, è sembrato opportuno renderli comunque fruibili da parte del visitatore.

Le vetrine contengono gli stessi esemplari delle sale del piano inferiore ma fanno rendere conto anche dell’aspetto numerico dei ritrovamenti. In una vetrina laterale sono esposte numerose punte di lance di ferro particolarmente interessanti , purtroppo ancora in attesa di restauro .
Al piano terra la sala a destra, nota come la sala de li crozzi, è stata allestita nel luglio del 2012 per esporre il pithos di età preistorica rinvenuto in contrada Donna Bianca. A causa delle grandi dimensioni del reperto, del suo stato frammentario ma anche dei precedenti tentativi di incollaggio il restauro del grande contenitore è stato particolarmente complesso ed ha richiesto un lasso di tempo abbastanza prolungato. Accanto è stato esposto un altro pithos di minore dimensioni di età greca proveniente da contrada Feudo interessante per la presenza di un ‘ iscrizione in caratteri greci probabilmente del IV secolo.

Quadro dei siti d’interesse archeologico :

 

Salvatore Agati, il Maresciallo Fargnioli, il sindaco Francesco Rubbino, Salvatore D’Amico assistono al ritrovamento del pithos.

1)C.da Donna Bianca 
In questa contrada situata a circa 50 metri dall’odierno bivio di Santa Caterina nel giugno del 1972 durante i lavori di costruzione della strada denominata Quota Mille, che tagliando le pendici dell’Etna attraverso i boschi avrebbe unito i paesi del versante settentrionale etneo,emerse il bordo di un grande vaso.

Il grande pithos venne liberato dalla terra in stato frammentario e consegnato a Don Salvatore Calogero Virzì, fino alla sua ricomposizione e restauro avvenuto nel 2012 .
Nel luglio dello stesso anno è stato esposto nella sala inferiore del Museo Archeologico Paolo Vagliasindi .
Il pithos di età castellucciana probabilmente apparteneva ad un insediamento stabile o stagionale del quale non sappiamo nulla poiché non furono fatti scavi scientifici ma alcuni frammenti di ceramica dipinta della stessa epoca furono trovati nei dintorni del luogo di rinvenimento durante una ricognizione degli anni ottanta.

2)c.da Santa Anastasia fig
La più conosciuta in letteratura è contrada Santa Anastasia , a circa 6 km dal paese,nota anche come contrada Feudo ,dove è stata rinvenuta alla fine dell’ottocento una vasta necropoli di età greca . I sepolcri furono scavati senza alcuna tecnica scientifica ed i reperti divennero la collezione personale di Paolo Vagliasindi. , a cui segiurono scavi archeologici effettuati dalla Soprintendenza di Palermo che inviò l’architetto Patricolo nel luogo e in questa occasione vennero alla luce numerose tombe con ricchi corredi vascolari, conservati da allora presso il museo Antonio Salinas ed esposti solo in piccola parte. Infine, nel 1906, una terza campagna di scavi viene effettuata dalla Soprintendenza di Siracusa, che rinviene sessanta tombe, di cui viene data una breve comunicazione scientifica nelle Notizie degli scavi di Antichità da Paolo Orsi, ma i reperti sono tuttora conservati nei depositi del museo di Siracusa.

pithos di età greca con iscrizione

Dalla stessa contrada proviene probabilmente un’hydria bronzea con manico antropomorfo rinvenuta alla fine dell’ottocento e rivenduta tramite il mercato antiquario allo Staatliche Museum di Berlino (inv. 8467) ed uno splendido elmo bronzeo decorato a rilievo acquistato da Paolo Orsi conservato presso il Museo Archeologico di Siracusa ..fig
Altro rinvenimento casuale consiste in tesoretto monetale di età romana consegnato alla Soprintendenza di Catania nel 2005.
3) c.da Inbischi – Acquafredda fig
In questa contrada a metà tra il comune di Randazzo e quello di Castiglione sono stati effettuati degli scavi negli anni novanta a cura della Soprintendenza di Catania che mise in luce alcuni settori di abitato molto danneggiati da scavi clandestini . I saggi hanno accertato l’esistenza di un abitato regolare con almeno due fasi tra il IV e il III secolo a.C. La presenza di un sito di tale importanza fa ipotizzare che il sito sia legato ad un phrourion greco avamposto di Naxos, verso l’interno. Alla identificazione con Tissa citata da Cicerone, più recentemente è prevalsa l’ipotesi di Piakos o ancora meglio Callipolis
Nel 1980 fu rinvenuto da scavatori di frodo un tesoretto di monete comprendente 539 tetradrammi d’argento di Siracusa e Messina disperso nel mercato clandestini.

iscrizione nel pithos.

4) c.da Zita Vecchia –
Il toponimo ricorda nell’area un’antica città. La contrada, vicinissima al paese, è nota per i rinvenimenti archeologici di cui ci danno notizia gli scrittori locali tra cui il Plummari che vi localizzavano un’ipotetica Pentapoli . Oggetto di numerose ricognizioni in terreni privati di difficile accesso lungo le rive di Alcantara, mostra tutt’ora di essere interessata ad una vasta area di frammenti ceramici di età greca a vernice nera di V e IV secolo a. C. ma non è stata mai oggetto di scavi sistematici

 

5)c.da Ciarambelli
Altro toponimo legato alla presenza di una vasta area di frammenti ceramici detti ciarambelli nel linguaggio locale. Alcuni saggi sono stati compiuti dalla Soprintendenza di Catania i cui risultati sono in corso di studio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

STORIA E ILLUSTRAZIONE DEL MUSEO PAOLO VAGLIASINDI DEL CASTELLO – RANDAZZO 

Considerazioni sui vasi plastici siciliani presenti nella collezione Vagliasindi di Randazzo 
di Maria Teresa Magro 

A cura di Lucio Rubbino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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